Letture festive – 45. Posti – 22a domenica del Tempo Ordinario Anno C

Briciole dalla tavola. Vangelo per senza Dio

di Alberto Ganzerli

22a domenica del Tempo Ordinario Anno C – 28 agosto 2022
Dal libro del Siràcide – Sir 3,19-21.30.31 (NV) [gr. 3,17-20.28-29]
Dalla lettera agli Ebrei – Eb 12,18-19.22-24a
Dal Vangelo secondo Luca – Lc 14,1.7-14


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letture festive 45

Il posto è solitamente un determinato spazio che viene occupato da qualcuno o che può essergli riservato. Spesso ciascuno di noi, quando ne ha la possibilità, cerca per sé il posto migliore, che di solito viene identificato con quello più in alto e quello più vicino all’oggetto del proprio interesse. Il libro del Siracide, da questo punto di vista, si muove in direzione contraria nel suggerire come comportarsi per collocare sé stessi al posto giusto nella vita e rispetto agli altri. L’insegnamento è offerto attraverso una serie di contrapposizioni, perché vi sono ovviamente idee diverse su quali siano i posti giusti o migliori da ricercare e nei quali provare a collocarsi. Coloro che sono definiti orgogliosi e superbi si impegnano per arrivare – spesso con ogni mezzo – a occupare i posti ritenuti più alti e migliori, quelli riservati ai grandi o per lo meno a coloro che si ritengono tali. La via indicata dal Siracide è invece quella dell’umiltà e della mitezza, l’attitudine da coltivare – più che il precipitarsi ad occupare i posti migliori – è quella a meditare parabole e a mantenere l’orecchio attento a cogliere insegnamenti di saggezza. Quali siano in realtà i posti migliori e chi effettivamente li potrà occupare rimane in fondo un tema controverso ed esposto a esiti inattesi e tragicamente paradossali. Secondo l’autore biblico, infatti, la condizione del superbo è in realtà ben misera, perché il superbo, che ritiene di dover occupare posti migliori di quelli degli altri, diventa invece, proprio in questo modo, egli stesso il posto e il terreno fertile nel quale mette radici la pianta del male, i cui frutti non potranno certamente essere buoni.

La lettera agli Ebrei, nel suo presentare in modo visionario una scena celeste e in qualche modo eterna e fuori dalla storia, descrive appunto nel cielo il posto nel quale colloca i propri lettori. Per fare questo ricorre a una contrapposizione con luoghi terreni, concreti e collocati all’interno della storia e della geografia delle narrazioni bibliche; sono i luoghi che riguardano Mosè e le peregrinazioni del popolo eletto nel deserto, dal roveto ardente ai luoghi delle teofanie divine sul monte in occasione del dono della legge. Il luogo nel quale vengono collocati i lettori della lettera agli Ebrei è descritto invece come un monte Sion e come una Gerusalemme celeste, come un posto dove si trovano migliaia di angeli, gli spiriti dei giusti e coloro i cui nomi sono scritti nei cieli. Se il luogo terreno della terrificante teofania rivolta a Mosè e al popolo eletto era un posto dove nessuno voleva stare, fino a scongiurare Dio di non rivolgere loro la sua parola, il luogo celeste dove ci si accosta addirittura al Dio giudice è invece un posto desiderabile per il fatto che qui si trova anche Gesù, definito come mediatore dell’alleanza nuova. Proprio questo – sembra suggerirci l’autore della lettera agli Ebrei con questa contrapposizione – è ciò che può fare la differenza nelle nostre esperienze spirituali, rendendole terrificanti o al contrario gioiosamente festose. Il fatto che il posto del nostro incontro con il divino – quale che sia la definizione che ne diamo, essendo con Dio o senza Dio – abbia a che fare o meno con la figura di Gesù.

Nell’episodio raccontato dall’evangelista Luca, la parabola proposta da Gesù, che invita a scegliere per sé al banchetto della vita non i primi ma gli ultimi posti, sembra voler riproporre l’insegnamento del Siracide. Si tratta di una parabola apparentemente destinata a evitare ai propri ascoltatori la vergogna di una retrocessione subita a favore di altri, quasi si trattasse dei vantaggi tattici che in società possono derivare a chi sceglie di adottare un comportamento umile come l’unico capace di garantire davvero i posti migliori. Ma la vera intenzione di Gesù si rivela pienamente nelle sue parole successive. Qui Gesù propone, infatti, un radicale cambiamento del punto di vista, trasferendo il suo ascoltatore nel posto non più dell’invitato ma di chi offre il pranzo o la cena. Da questa nuova prospettiva, la responsabilità della scelta dei posti da assegnare viene ribaltata da Gesù sui suoi ascoltatori, con una indicazione e una motivazione ben precisa: non invitare né riservare posti per amici, fratelli, parenti e ricchi vicini, perché questi – nella logica dello scambio – potrebbero ricambiare l’invito, offrendo posti analoghi nel banchetto della vita. Gesù esorta invece a invitare e riservare posti per i poveri e per quella parte di umanità più dolente e deficitaria, costituita da storpi, zoppi e ciechi. Costoro infatti non hanno alcun primo posto nella società, né da tenere per sé né da offrire ad altri in cambio di qualcosa. Ma proprio questa condizione, secondo Gesù, li abilità passivamente a diventare portatori di una potenziale beatitudine a favore di chi vorrà riservare loro – nella propria vita e in questa società – i posti migliori. Si tratta di una beatitudine che Gesù evoca in termini di ricompensa da ricevere alla risurrezione dei giusti. Potremmo forse allora intendere questa parola come se ci promettesse che ogni primo posto che riusciremo a riservare agli ultimi che incontriamo, farà diventare questo mondo un po’ più giusto e renderà anche la nostra vita qualitativamente piena e migliore, perché capace di sconfiggere almeno qualcuna delle tante morti cui i poveri sono spesso condannati.