Letture festive – 60. Utopie e distopie – 2a domenica di Avvento – Anno A

Briciole dalla tavola. Vangelo per senza Dio

di Alberto Ganzerli
2a domenica di Avvento Anno A – 4 dicembre 2022
Dal libro del profeta Isaìa – Is 11,1-10
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani – Rm 15,4-9
Dal Vangelo secondo Matteo – Mt 3,1-12


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letture festive 60

Il futuro che il profeta Isaia descrive in questo testo ben corrisponde a ciò che chiamiamo utopia, cioè la realtà, futura e non ancora esistente, di un mondo buono, dove trovano risposta i nostri desideri migliori. Questa utopia, questa realtà futura e buona, il profeta la intravede anzitutto nella forma di un germoglio prossimo a spuntare dal basso di una radice che è solida e antica, ma destinata ad accogliere un movimento proveniente dall’alto: quello di uno Spirito multiforme la cui varietà converge nel produrre il discernimento di ciò che l’utopia suggerisce. L’utopia, infatti, non si realizza da sé, ma si coltiva attraverso pratiche di equità e giudizi sapienti, responsabili e non improvvisati. Solo così si può preparare un mondo diverso da quello fin troppo distopico nel quale in realtà già oggi ci troviamo a vivere. Se infatti è vero – come ricorda il proverbio – che non vi è limite al peggio, per cui il futuro distopico potrà essere anche peggiore del presente, è vero anche che la distopia di un mondo cattivo, che dà forma ai nostri desideri peggiori, si trova già abbondantemente anticipata, qui e oggi, da molte delle dinamiche nelle quali ci troviamo immersi: la violenza viene esercitata in mille modi in quello che chiamiamo il regno animale, intendendo qui non solo quello degli animali non umani ma anche e soprattutto quello degli umani. Non mancano quindi esempi di questa esperienza diffusa e pervasiva della violenza, ma Isaia suggerisce che l’anticipazione distopica nella quale siamo immersi, non è necessariamente quella destinata trionfare per sempre. Sta a noi, ascoltatori di ogni tempo di queste parole bibliche, cogliere l’invito rappresentato dal germoglio del discernimento e dall’utopia visionaria di una riconciliazione universale. In questa utopica ma necessaria e perfino urgente riconciliazione universale i componenti la biodiversità terrestre, qui rappresentata simbolicamente da uomini e animali, imparano finalmente a vivere insieme, godendo il realizzarsi di un’utopia fatta di pace disarmata e nonviolenta.

Scrivendo ai cristiani di Roma, Paolo parla di ciò che può tenere viva la speranza in un mondo futuro e buono, dove trovino risposta i nostri desideri migliori, e in questo senso parla di ciò che può tener viva la speranza in una sorta di utopia. Paolo individua ciò che può tener viva questa speranza utopica in una virtù e in un’esperienza che sono entrambe frutto della frequentazione delle Scritture: la perseveranza – che consente di affrontare in modo operoso la distanza tra il presente e il futuro utopico – e la consolazione – che mitiga e rende sopportabile la fatica di un tempo lungo da attraversare. Le Scritture svolgono poi il fondamentale compito di istruire, proprio in vista di una speranza che rimanga viva e mantenga aperti verso un futuro utopico. Il tema dell’istruzione proveniente dalle Scritture mostra come la speranza utopica debba fondarsi su un lungo e impegnativo percorso di apprendimento e di ricerca. Senza l’istruzione che ponga le premesse di una speranza utopica, il futuro è destinato a trasformarsi ben presto in minaccia distopica. Anche se, infatti, utopie e speranze presentano necessariamente una novità irriducibile alla realtà odierna, è precisamente nell’oggi che si iniziano a creare le condizioni di un mondo diverso e migliore. Senza istruzione, senza perseveranza e senza consolazione, il mondo futuro tenderebbe facilmente a una deriva distopica, perché privo di ingredienti fondamentali per preparare l’avvento di un futuro buono. In quello che poi viene definito come “l’esempio di Cristo Gesù” possiamo riconoscere l’anticipazione del vero essere umano utopico – una figura esemplare per con Dio e senza Dio – in grado di rappresentare e simboleggiare nel tempo la fedeltà con la quale il compiersi delle promesse antiche lascia intravedere il prevalere delle utopie sulle distopie.

Nella presentazione della figura e della missione di Giovanni il Battista, la preparazione del venire utopico del Regno si concretizza attraverso l’appello alla conversione dalle attuali ingiustizie, per evitarne l’esito coerentemente distopico. Già il modo di presentarsi di Giovanni suggerisce una presa di distanza dalla condizione ordinaria del presente e un ulteriore appello al cambiamento viene rivolto alla pretesa di trovare nell’appartenenza identitaria all’ebraismo – Abbiamo Abramo per padre! – motivi sufficienti per essere salvati. Il Regno che si avvicina, infatti, è pur sempre – anche se in modo misterioso e non evidente – un’utopia, cioè la realtà, futura e non ancora esistente, di un mondo buono, dove trovano risposta i nostri desideri migliori. L’avvicinarsi di questa utopia e il trovarsi pronti ad accoglierla richiede però di convertirsi da quei comportamenti che, se non modificati, provocano il riprodursi senza fine di una realtà che già ora è fondamentalmente distopica. Anche l’immaginario della minaccia del giudizio e della condanna finale per chi non si convertirà va visto come la rappresentazione profetica del corrispettivo distopico delle iniquità del mondo di oggi. Questa salutare e metaforica messa in guardia dal perseverare nel male, che può risuonare tanto per i con Dio quanto per i senza Dio, si concretizza nella descrizione distopica di un mondo carbonizzato dalla scarsa lungimiranza e dalla indisponibilità alla conversione degli umani, che pure sembrano tutti cercare salvezza. Come ogni parola profetica, anche quella di Giovanni il Battista non ha lo scopo di anticipare la visione di quello che sarà il futuro distopico, ma di provocare gli ascoltatori – finché avranno tempo per farlo – affinché cambino mentalità, atteggiamenti e comportamenti, creando le condizioni per un futuro che possa essere per tutti non distopico ma utopico.