Letture festive – 86. Rispondere – 6a domenica di Pasqua – Anno A

Briciole dalla tavola. Vangelo per senza Dio

di Alberto Ganzerli

6a Domenica di Pasqua Anno A – 14 maggio 2023
Dagli Atti degli Apostoli – At 8,5-8.14-17
Dalla prima lettera di san Pietro apostolo – 1Pt 3,15-18
Dal Vangelo secondo Giovanni – Gv 14,15-21


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letture festive 86

Questo passo degli Atti degli Apostoli presenta ciò che significa rispondere alla predicazione, tanto nei termini di una narrazione mitica di fondazione della comunità cristiana, quanto nei termini di una narrazione utopica per delineare il futuro a cui si vorrebbe aprire la stessa comunità cristiana. La Samaria, agli occhi dell’ebraismo ufficiale di Gerusalemme, si presenta come terra di scismatici, di eretici e di senza Dio. Ebbene proprio in una città della Samaria la predicazione è svolta da Filippo, uno dei sette di lingua greca che, secondo Atti, sono stati scelti per consentire ai Dodici di dedicarsi a preghiera e predicazione, sollevandoli dal servizio alle mense. In realtà Filippo viene presentato qui come intensamente dedicato a una predicazione fatta di parole e di segni compiuti che provocano a rispondere. E i samaritani in effetti rispondono prestando attenzione a parole che risultano convincenti e a segni di liberazione e di guarigione, capaci di restituire libertà e integrità a esistenze imprigionate e ferite. Rispondere alla predicazione dovrebbe idealmente coincidere con ciò che si esprime nella frase: vi fu grande gioia in quella città. A questa prima risposta della città samaritana gli apostoli a Gerusalemme rispondono inviando Pietro e Giovanni, i quali, a loro volta, attraverso il rito – l’imposizione delle mani – conducono i samaritani a ciò che per Atti rappresenta un vertice assoluto: quel rispondere che coincide con il discendere dello Spirito Santo. Questa descrizione dinamica di cosa è il rispondere alla predicazione si presenta in Atti anzitutto come narrazione mitica di fondazione delle origini cristiane, come una sorta di libro di Genesi della chiesa. Ma Atti intende offrire anche una narrazione utopica per delineare, a partire dalla condizione presente della comunità, il futuro a cui vorrebbe aprire questa stessa comunità cristiana, funzionando cioè come una sorta di libro di Apocalisse della chiesa. E se volessimo leggere come tale questa pagina biblica nel nostro oggi di con Dio e di senza Dio, potremmo forse riconoscervi l’utopia di una comunità capace di offrire anche ai senza Dio segni di liberazione e di guarigione, insieme a parole cui si possa rispondere prestando attenzione, perché capaci di suscitare grande gioia, l’utopia di una comunità capace di accogliere e includere anche i senza Dio in riti e pratiche che si rivelino davvero comunicatrici di Spirito.

Essere sempre pronti a rispondere, come chiede la prima lettera di Pietro, a chi ci domandi ragione della speranza che è in noi, con Dio o senza Dio, non è una capacità che si possa improvvisare. Essa richiede che ciascuno sappia rispondere, per lo meno e anzitutto, a questa domanda: in che cosa consiste la speranza che è in noi? Con Dio e senza Dio hanno cercato risposte in modi diversi anche nella seconda metà del Novecento e in particolare lo hanno fatto il senza Dio Ernst Bloch e il con Dio Jürgen Moltmann. Il primo, il senza Dio Ernst Bloch, autore anche di Ateismo nel cristianesimo, ha dedicato oltre venti anni, dal 1938 al 1959 all’esplorazione de Il Principio Speranza, come si intitola la sua opera più famosa. Il secondo, il con Dio Jürgen Moltmann, accogliendo le provocazioni del primo, ha cercato di ridare cittadinanza teologica a un tema – quello della speranza – che sembrava essere stato dimenticato, pubblicando nel 1964 il suo Teologia della speranza. Tanto il senza Dio Bloch quanto il con Dio Moltmann hanno cercato – con tutta la passione e con tutto il rigore di cui la loro ricerca è stata capace – di rispondere a chiunque domandasse ragione della speranza che era in loro, una speranza ispirata per entrambi – anche se diversamente – alle scritture bibliche. Anche se le ragioni che ciascuno dei due ha ritenuto di trovare convincenti risultano almeno in parte in contrasto tra loro, così come il modo di intendere la speranza cristiana, questo non ha impedito il dialogo e le loro idee hanno stimolato e arricchito, in direzioni diverse e anche divergenti, il rispondere di tanti sulle ragioni della speranza cristiana. In modo analogo, nell’oggi della chiesa il rispondere in modi diversi e anche divergenti da parte di credenti con Dio e di credenti senza Dio a chi domanda le ragioni della speranza cristiana non dovrebbe impedire a questi stessi con Dio e senza Dio di riconoscersi reciprocamente come discepoli di Gesù nella medesima comunità ecclesiale. Perché si possa, infatti, risultare credibili all’esterno, è precisamente e anzitutto all’interno della chiesa che si dovrebbe essere reciprocamente pronti sempre a rispondere a chiunque domandi ragione della propria speranza ed è precisamente e anzitutto all’interno della comunità cristiana che questo dovrebbe avvenire con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza. E anche il primo modo in cui con Dio e senza Dio possono rispondere all’esortazione di Pietro, che ritiene sia meglio soffrire operando il bene che facendo il male, è precisamente e anzitutto il sopportare reciprocamente quello che ciascuno ritiene essere l’errore dell’altro che appartiene alla medesima comunità cristiana, piuttosto che condannarlo o escluderlo perché non può in coscienza rispondere nel mio stesso modo, se interrogato sulle ragioni della propria speranza.

Nel Vangelo di Giovanni le molteplici relazioni tra i diversi soggetti possono essere lette come il reciproco rispondere degli uni agli altri. In questo passo, ad esempio, ai discepoli che lo amano e osservano i suoi comandamenti Gesù risponde anzitutto pregando il Padre e il Padre risponde alla preghiera rivoltagli da Gesù dando ai discepoli – quasi in sostituzione dello stesso Gesù – un altro difensore e consolatore, lo Spirito della verità. A chi poi lo ama osservando i suoi comandamenti Gesù risponde amandolo a propria volta e manifestandosi a lui. Ma anche il Padre risponde a chi ama Gesù amandolo. Se il mondo, inteso qui come una realtà che si oppone a Dio, non può ricevere lo Spirito di verità perché non lo vede e non lo conosce, i discepoli invece lo ricevono perché lo Spirito rimane presso di loro e sarà in loro. La relazione tra i diversi soggetti, che si esprime in un reciproco rispondere, tende qui a superarsi in una sorta di corrispondenza e relazione, per arrivare a una comunione e quasi a una sovrapposizione e identificazione. Gesù, in particolare, quando dice ai discepoli che non li lascerà orfani si rivolge loro quasi come se fosse il Padre stesso, così come, quando aggiunge che verrà da loro sembra identificarsi con lo Spirito di verità promesso. Quando infine Gesù dice che i discepoli stessi sono in lui e lui è nei discepoli, sembra coinvolgere anche loro in questo processo dinamico che, a partire da un reciproco rispondere, sembra tendere a una comunione e a una vera e propria unione. Con Dio e senza Dio potrebbero dare interpretazioni diverse di questa rappresentazione giovannea del rapporto tra Gesù, il Padre, lo Spirito e i discepoli come di un dialogo fatto di risposte che portano a un avvicinarsi sempre più simile alla identificazione. A seconda del punto di vista, più caratterizzato per i con Dio dalla sottolineatura della divinità o più caratterizzato per i senza Dio dalla sottolineatura della umanità, la rappresentazione di Giovanni potrebbe essere vista come un processo trinitario che coinvolge anche l’umanità dei discepoli fino a divinizzarla, o, invece e da un’altra prospettiva, come un processo di progressiva maturazione dell’umanità dei discepoli fin quasi ad acquisire quelle caratteristiche che Giovanni attribuisce nel proprio linguaggio religioso alle figure di Gesù, del Padre e dello Spirito. Ricordando la centralità che l’amore deve avere in ogni caso, come sottolinea ripetutamente lo stesso Giovanni, alla domanda se sia da preferire l’interpretazione dei con Dio o quella dei senza Dio, dovrà provare a rispondere ciascun lettore credente, con Dio o senza Dio.

Riferimenti:

Ernst Bloch, Il principio speranza, 3 volumi, Garzanti, Milano 1994.

Jürgen Moltmann, Teologia della Speranza, Queriniana, Brescia 1970.

Dennis E. Smith – Joseph B. Tyson Acts (a cura di), Acts and Christian Beginnings. The Acts Seminar Report, Polebridge Press, Salem (Oregon) 2013.

Le dieci principali acquisizioni del Seminario di studio, dedicato al possibile utilizzo come fonte storica del libro neotestamentario di Atti degli Apostoli, promosso dal Westar Institute in California tra il 2000 e il 2011 (in traduzione dall’introduzione al volume sopra citato, che ne raccoglie gli atti) sono le seguenti:

1. L’autore degli Atti è un esperto narratore/teologo che ha scritto un racconto con finalità decisamente apologetica [in particolare nei confronti della versione del cristianesimo proposta da Marcione e rispetto alla interpretazione marcionita di Paolo e delle sue lettere]
2. Il libro degli Atti è stato composto nei primi decenni del II secolo.
3. L’autore di Atti ha usato le lettere di Paolo come una delle sue fonti.
4. Ad eccezione delle lettere di Paolo, nessun’altra fonte storica attendibile può essere definitivamente identificata per il libro di Atti. Atti utilizza invece una varietà di “fonti” come Giuseppe Flavio, Omero, Virgilio e la versione biblica (veterotestamentaria) dei Settanta. Questi materiali, tuttavia, forniscono unicamente materiale di base o modelli letterari per il racconto di Atti. Non costituiscono di per sé delle fonti storicamente utilizzabili per la ricostruzione delle origini cristiane.
5. Gerusalemme non è stata il luogo di nascita del cristianesimo, contrariamente a quanto narrato in Atti, nei capitoli dall’1 al 7.
6. Atti non può essere considerata una fonte indipendente per la vita e la missione di Paolo. Si può invece affermare che l’uso delle lettere di Paolo come fonte è sufficiente per spiegare tutti i dettagli della vita e dell’itinerario di Paolo in Atti.
7. Atti costruisce il proprio racconto sul modello della letteratura epica e su modelli letterari con caratteristiche analoghe.
8. L’autore di Atti ha creato i nomi dei personaggi come strumenti di carattere narrativo.
9. Atti costruisce i propri racconti per raggiungere obiettivi di tipo ideologico [e teologico]
10. Atti non può essere considerato un resoconto attendibile sul piano storico, a meno che non si dimostri il contrario. L’onere della prova va infatti invertito: Atti deve essere considerato non storico salvo prova contraria.

Questo è l’esito complessivo dei risultati sopra indicati. Mentre Atti è altamente discutibile come risorsa per il cristianesimo del primo secolo, è una risorsa significativa per comprendere i problemi e la forma del cristianesimo del suo proprio tempo, cioè dei primi decenni del secondo secolo.
In conclusione Atti – mentre, come prodotto del secondo secolo, è una risorsa primaria per comprendere il cristianesimo di quel periodo anche dal punto di vista storico – va considerato complessivamente come un mito delle origini cristiane.