Letture festive – 62. Costanti – 3a domenica di Avvento – Anno A

Briciole dalla tavola. Vangelo per senza Dio

di Alberto Ganzerli
3a domenica di Avvento Anno A – 11 dicembre 2022
Dal libro del profeta Isaìa – Is 35,1-6a.8a.10
Dalla lettera di san Giacomo apostolo – Gc 5,7-10
Dal Vangelo secondo Matteo – Mt 11,2-11


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letture festive 62

In un tempo difficile, l’esortazione del profeta Isaia a essere costanti si specifica nei termini di un triplice invito: irrobustire le mani fiacche, rendere salde le ginocchia vacillanti e restituire coraggio agli smarriti di cuore. È come se Isaia invitasse il corpo e lo spirito dei suoi lettori e ascoltatori a recuperare le forze perdute e a mantenerle costantemente attive, per poter affrontare adeguatamente il presente. L’essere costanti nel coltivare una condizione di sufficiente forza non è, infatti, funzionale a una sorta di granitica immobilità o al permanere in una condizione che si desidera immutabile. Al contrario, l’essere costanti – grazie a una continua alimentazione delle riserve di forza e di coraggio – è ciò che dispone con Dio e senza Dio a sperimentare un dinamismo multiforme e straordinario, che attraversa la natura circostante, il proprio corpo e le strade della storia. La natura desertica e arida della steppa si trasforma grazie a una prodigiosa fioritura; il corpo umano accecato, sordo e zoppicante viene reintegrato nella pienezza delle sue facoltà, che vengono addirittura amplificate; le strade della storia, che per il popolo sembravano essersi chiuse con l’esilio, tornano ad aprirsi. Paradossalmente, infatti, solo l’essere costanti consente di riconoscere e apprezzare ciò che è in movimento. Si può così partecipare di un’esultanza che si esprime e si rispecchia nel rifiorire della natura, nella guarigione di corpi un tempo menomati e nella felicità per tutti di un possibile ritorno da ogni sorta di esilio.

Per l’apostolo Giacomo, essere costanti è il modo con cui si deve attendere una venuta del Signore che viene presentata come ormai vicina. Ma la costanza viene esemplificata, anzitutto, con un richiamo all’atteggiamento e al comportamento dell’agricoltore, scandito da quattro elementi fondamentali: la terra da cui si attende il frutto, le prime piogge, le ultime piogge e, finalmente, il prezioso frutto della terra. La fatica nell’essere costanti, da parte di con Dio e di senza Dio, dipende probabilmente dalla difficoltà ad accettare questo tipo di dinamica in tutte le sue implicazioni. Quando si parla di terra, infatti, si afferma che non siamo noi a produrre ciò che stiamo attendendo con costanza. Quando si parla di prime piogge, si afferma che non siamo noi, neppure con il nostro essere costanti, a innescare il dinamismo di ciò che, pure, desideriamo. Quando si parla di ultime piogge, si ricorda che neppure ciò che può portare al compimento sperato dipende da noi, così come non è alla nostra portata prevedere il tempo che sarà necessario attendere con costanza. Quando si parla del frutto della terra, si annuncia che questo non sarà propriamente il risultato del nostro rimanere costanti, anche se sarà stato necessario attendere con costanza questo stesso maturare e portare frutto. Per queste ragioni essere costanti è faticoso e spesso frustrante, ma rimane necessario per chi decide di continuare ad attendere qualcosa o qualcuno, anziché limitarsi alla lamentela su tempi di attesa che risultano sempre troppo lunghi. Sopportazione e costanza, d’altra parte, rimangono, secondo Giacomo, preziosi modelli di virtù profetiche.

Un modello di costanza come virtù profetica è concretamente rappresentato, nel vangelo di Matteo, da Giovanni il Battista, con il suo inflessibile rigore, ben lontano dal piegarsi di una canna mossa dal vento. Giovanni è, infatti, costante nell’affrontare le avversità e nell’attendere colui che deve venire, ma la sua domanda – sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro? – rivela il grave rischio di una tragica cecità, proprio in chi, come lui, più si impegna nel rimanere costante. La costanza di chi attende, infatti – anche se animata da buone intenzioni e coltivata con sacrificio personale – non può essere fine a sé stessa, se non vuole pervertirsi nella immobilità rigida e insensibile di un occhio divenuto fisso e incapace di mettere a fuoco il nuovo. Qui sta il limite principale di ogni conservatorismo chiuso alle novità e di ogni malintesa costante fedeltà alla tradizione o a ciò che si ritiene sia stato fatto, sempre e costantemente, nel medesimo modo. Per essere costanti in modo evangelicamente autentico dobbiamo, invece, saper vedere e riconoscere i segnali di ciò che si muove nella realtà, di quelli che vengono chiamati i segni dei tempi. Si tratta, per i con Dio e per i senza Dio, di quelle dinamiche significative, presenti nel divenire storico contemporaneo, che si possono riconoscere e promuovere come caratterizzate da valenze positive e consonanti al messaggio evangelico. Qui l’evangelista Matteo vede i segni dei tempi nel ritrovare integrità e vita da parte di corpi umani menomati e in preda alla morte: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo. Giovanni il Battista – che pure Matteo descrive come il grande messaggero più che profeta, anche nel suo essere eroicamente costante fino alla morte – rischia però di rimanere scandalizzato, cioè di trovarsi come bloccato davanti a un ostacolo. Il suo sguardo, che pure è costantemente rivolto a scrutare la venuta dell’atteso, rischia di non vederlo e non riconoscerlo, quando si presenta in forme e modalità inattese. Per questo il più piccolo nel regno, come un nano salito sulle spalle di un gigante, è più grande di Giovanni, perché dopo essere salito sulle spalle di chi ha costantemente scrutato, diventa in grado di vedere – meglio e più lontano di lui – la venuta del costantemente atteso.