Letture festive – 27. Obbedienza – 3a domenica di Pasqua Anno C

Briciole dalla tavola. Vangelo per senza Dio

di Alberto Ganzerli

3a domenica di Pasqua Anno C – 1 maggio 2022
Dagli Atti degli Apostoli – At 5,27b-32.40b-41
Dal libro dell’Apocalisse di san Giovanni apostolo – Ap 5,11-14
Dal Vangelo secondo Giovanni – Gv 21,1-19


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letture festive 27

L’etimologia della parola obbedienza rimanda al prestare un ascolto attivo e fattivo rispetto a chi ci sta davanti. Nell’episodio del libro degli Atti il tema riguarda la necessità di scegliere di chi mettersi in ascolto, per scegliere quale interpretazione della vicenda di Gesù sia attendibile e degna di essere annunciata. Sono le situazioni in cui l’obbedienza nei confronti di qualcuno richiede inevitabilmente la disobbedienza nei confronti di qualcun altro. La risposta di Pietro, per il quale si deve obbedire a Dio invece che agli uomini, invita tutti noi (con Dio e senza Dio) a una ricerca che non si limiti alle opinioni, a partire dalle nostre, ma che sappia cercare – in ciò che è profondo e oltre l’immediato, nella propria coscienza ma anche nelle pagine bibliche – parole che meritino di essere ascoltate, per lasciarsene ispirare.

Alla domanda su chi o che cosa sia degno di obbedienza, cioè degno di un ascolto attivo e fattivo, il brano dell’Apocalisse risponde in modo liturgico e corale, sinfonico e solenne, ma del tutto sorprendente. L’universo intero nella sua varietà e complessità, davanti alla domanda su chi sia degno di essere ammirato e lodato per la sua potenza e ricchezza, sapienza e forza, onore e gloria, converge, infatti, nell’indicare precisamente l’ultima delle figure che ci potremmo mai aspettare come portatrice di queste caratteristiche: l’agnello immolato, cioè il cucciolo macellato. Si tratta, infatti di una figura che nel concentrare su di sé tutto ciò che ha valore, lo relativizza radicalmente, perché lo manifesta nella forma del suo contrario, dal momento che il cucciolo macellato si presenta come figura di ciò che è radicalmente impotente e povero, stolto e debole, disonorato e umiliato.

Nel brano di Giovanni l’obbedienza – cioè l’ascolto che porta a seguire l’indicazione data da qualcun altro – viene richiesta prima di conoscere pienamente l’identità di chi parla, cioè del Gesù risorto. In questo caso l’obbedienza fattiva e fiduciosa è quella che rende possibile il riconoscimento dell’identità e il raccogliere i frutti di un’obbedienza coraggiosamente osata. L’obbedienza culmina poi non tanto in una forma di sudditanza, dove l’uno ordina e l’altro esegue, ma in una relazione che richiede partecipazione e condivisione, come nel pasto in riva al mare al quale il Gesù risorto invita i discepoli e dove sia Gesù che i discepoli portano una parte del cibo da condividere. In modo analogo, nell’incontro finale tra Gesù risorto e Pietro, l’obbedienza che gli viene richiesta per lo svolgimento del servizio pastorale scaturisce da un dialogo sulla capacità di amare, un dialogo che evidenzia, nelle tre domande rivolte da Gesù e nelle tre risposte di Pietro, l’inadeguatezza di quest’ultimo all’amore che gli sarebbe richiesto, un’inadeguatezza già sottolineata peraltro nell’episodio del triplice rinnegamento di Pietro. L’obbedienza richiesta a Pietro, come più in generale ogni obbedienza, scaturisce infatti dall’ammissione di una propria debolezza e di una propria incapacità di riconoscere – da soli e con certezza – quale sia il nostro specifico compito da attuare; si tratta riconoscere cioè che, in determinate situazioni, altri hanno elementi o capacità di valutazione che a noi mancano, grazie ai quali possono leggere meglio di noi stessi il percorso che ci sta davanti. L’obbedienza consiste quindi nel riconoscere che c’è una parola altra e diversa dalla nostra, che può aiutarci nell’individuare la nostra strada, una strada che siamo noi a dover percorrere nell’obbedienza, anche se a volte questa obbedienza – come avviene nel seguire Gesù – ci conduce – come avviene per Pietro – là dove non vorremmo andare.