Se la frana è sempre

Giulia Cosio (1987) si occupa di poesia, arte visiva e riflessione filosofica, oltre a essere per lavoro insegnante di filosofia e storia. “Se la frana è sempre” si compone di una serie di meditazioni giornaliere scritte durante un recente viaggio in Terrasanta ed ispirate ad eventi della storia biblica, accaduti – si dice – nei luoghi visitati in Israele al seguito di un gruppo di pellegrini guidati dal padre gesuita Francesco Cavallini. Un viaggio laico in cerca di liberazione spirituale attraverso una terra millenaria e anch’essa senza pace.

Meditazioni spirituali in Terrasanta

Genesi 12, 1 – Genesi 16 – Esodo 1

Nation park at Prime Minister Ben Gurion Grave, Ein Avdat National Park, Mispe Ramon

Dal buio di Gerusalemme all’alba indaco del deserto bianco. Io che provo a dipingere, un po’ imbarazzata un po’ incuriosita dall’esperimento. Ben Gurion, il padre della patria – e che patria, sembra sempre sul punto di arrotolarsi su se stessa. La sorgente è il tuo occhio, e io mi sono davvero immaginata Agar nella conca sulla parete di roccia, col bimbo sulle ginocchia. Esulto anch’io con lei, che ha visto colui che la vede, ma io questo canyon, io non riesco a contenerlo con lo sguardo, nemmeno se ci provo. Il caldo che divampa e confonde tutto. Una montagna franata direttamente dal cielo al sottosuolo. Io che ancora non contengo, e il caldo che divampa sempre peggio. Mi butto a terra sotto i colpi di un deserto che mi schiaccia e riesco solo a pregare dal basso verso l’alto – Oh Dio, se dovessi morire fammi essere uno stormo. Non una, ma cento, che volano a spirale e sono sempre lì dove stanno per arrivare. Non voglio più essere unica, ma sparpagliata in mille esseri simili tra loro, e che di loro hanno appena il proprio nome, e forse nemmeno quello. Più niente di mio, più niente di mio. Dio che mi risponde che vorrei essere – anzi, sono – un sassolino nel deserto. Io che ripeto – sono solo un sassolino nel deserto – e che mi sento vuota, felice. Libera da me.


Giorno 2.

Esodo 2,16 – Genesi 1,2 – Genesi 2

Red Canyon, Eilat

Il sonno profondo dalla sveglia notturna, pericolante, pericolosa. Il dolore ai polsi mi ha spaventata, e nello stesso tempo per niente, una parte di me lo negava, non voleva crederci. Il bisogno degli altri è sempre quello: una parola, una sola mi salva sempre dal mio baratro di fuochi fatui. La mattina ero contenta di aver dormito e, straordinariamente sollevata, mi osservavo i tendini dei polsi: erano stati solo dei crampi, come mi era stato detto, e io solo una sopravvissuta all’ipocondria. Ma ero sotto-sopra. Tutto rovesciato, tutto rovesciato, mi rovescio su un sasso e inizio a piangere a dirotto. Persone che accorrono, da dove spuntano? Le vedo, mi vedono, le conosco di vista, da appena due giorni. Imbarazzata per il loro accudimento, mi ritraggo con debolezza incerta, e nel corso della giornata scoprirò che posso imparare a farmi accudire. Perché si preoccupano per me con questa semplicità? Cosa c’è di candido in questo candore? Quale costola si tolgono per stare con me? Eppure sembrano integri, forse sono io che sono vuota. Non c’è mai stato Eden nella mia solitaria perfezione: non è bene che l’uomo sia solo, gli farò un aiuto che lo corrisponda – allora scoprirà che è degno di essere amato. Ho un canyon che gira a vortice sopra la mia testa, spine di acacia alle caviglie, un dolore sordo se stringo i pugni; ho un desiderio che si nega costantemente, come quello di Mosè, che si arrampica come un ragazzino per vedere il roveto che brucia ma poi protesta contro Dio perché – dice – sono troppo balbuziente per parlare ai popoli. Qual è il tuo desiderio? Insomma, qual è? Srotola la fune del cuore e poi usala per stendere i panni al sole. Sì, sei un sassolino. È per questo che sei straordinario. Sei, semplicemente, qualcosa che è.


Giorno 3.

Genesi 19, Numeri 13

Eilat, Sodoma, Ein Boqeq, Tel Arad National Park

Consegno le mie ceneri. Ecco che, quando mi sveglio, trovo che l’acqua è una conca gigantesca, e il mar Rosso la mia mamma. Ci vado sola, ci resto poco. Consegno ceneri. Mi fanno gli auguri, mi cantano canzoni. Consegno ceneri. Se mi volto divento di sale, allora guardo, forse non proprio in avanti, ma con un certo interesse, il riquadro della tovaglia di fronte a me, e mi sento bene, così dispersa tra gli altri. L’accudimento dura ancora, la paura che svanisca anche: è quella che quasi mi fa voltare, ma è più uno scrutare con la coda dell’occhio se loro sono ancora lì. Mi amate ancora? Per quanto ancora? O non è mai stato? Se venissi a saperlo, sprofonderei in ceneri: diventerei la splendida e perversa città che sono sempre stata, ma sprofondata di due piani sotto il livello del mare; sarei di nuovo i miei palazzi imperiali, ma completamente ricoperti dalla polvere della mia incredulità. La frana è sempre. Siete ancora lì, però, e mi state portando torta e candelina. Io, vi consegno le mie ceneri. Tutto questo sale. I miei trentasei anni.


Giorni 4 e 5.

Ezechiele 47 – Ezechiele 16,8 – Luca 1,26-38

Ein Gedi Natural Reserve, Zippori, Nazareth

Mi sento un guscio vuoto, a volte, soprattutto in questi giorni. Un ricettacolo. Un niente che vibra. Mi attraversano, e io contengo e lascio andare. Chi mi attraversa? Il Dio che sono io si svuota in piccole ondulazioni, e di tutto, di quel tutto che sono, non resta nulla. Rimango a guardare, e nemmeno si può dire che sono in attesa di qualcosa. Quello che mi scuote di più sono al massimo paure fisiche, corporali, i miei sussulti ipocondriaci lì a ricordarmi che ho ancora un io – e forse sono il mio stesso io che protesta, che non vuole uscire di scena. Ma, anche quelli, mi attraversano e io li lascio andare. Posso essere un nulla che appena si schiude nella frase “io sono”. E poi, i ricordi del deserto. D’improvviso, di schianto. Il deserto che ho vissuto, il deserto che mi porto dentro. Forte, si abbatte su di me come il ricordo di un incidente, ma anche quello mi lascia, come un colpo di cui resti un sottile riverbero. Lo guardo da molto lontano e con occhio vuoto: è stato comunque molto tempo fa, prima di Cristo, o almeno prima di arrivare in Galilea. Ero dentro un pozzo. Caldo umido. Soffocante. Poi c’è stata la polvere, e poi la cascata. Il fragore che spezza i fili della mia anima, la via della vita e la via della morte. Il profeta parla di un Dio innamorato: e io, io vorrei avere un fidanzato oppure essere un fidanzato? Perché ho capito che mi manca la fede. Io sono fedele ma non ho fiducia: sono fedele a colui verso il quale non ho fiducia. Per questo finisco sempre per venerare i terribili idoli pagani, gli spiriti dei pozzi. E morire. Senza fede, come ci può essere speranza, o carità? Ciò che ho non mi basterà, accumulo manna da lasciar marcire; e come amare, chi amare, se non so in cosa la mia anima confida? Qualcuno mi dice – Dio è desiderio che l’amore venga amato, e io continuo ad arrovellarmi – Dio è desiderio che l’amore venga amato – ma che cosa vuol dire? E quanti dei miei patriarchi sono morti nel tentativo di capirlo? Io sono la non-comprensione, io sono la non-azione, io sono la non-visione; io sono di nuovo vergine, e voi ne siete il segno e i testimoni, come la gravidanza di Elisabetta. Io mi porto in grembo, al limite del fallimento, là dove c’è ancora la sola cosa che resta: la visitazione del guscio. Dell’involucro. Del niente in ascolto.


Giorno 6.

Salmo 45 – Matteo 3,13 – Isaia 42,1 – Matteo 4,1 – Marco 1,14 – Marco 3

Jordan River Park, Cafarnao

È molto alta questa montagna e le sue discese sono a strapiombo. Sento tutti i miei compagni: loro domani se ne andranno, e io li scruto con ansia perché, come mio solito, tutto ciò che mi lascia mi abbandona, e se li percepisco distanti non so se il mio cuore lo fa per difendersi o per attaccare. Le mie parole ti scuotono, amico mio? Ti guardo sorpresa perché non lo credevo possibile. Non lo credo mai possibile. Io non penso mai di parlare la stessa lingua degli uomini; e Cristo? Quanto si è sentito straniero in terra straniera, una stella distaccata, come me? Ma forse anche tu sei questo, amico mio. E se è così, se tutti sono così, nessuno è straniero. Il Giordano è un mulinello santo e pericoloso oggi, si rischia sempre di morire nel battesimo. Qual è il tuo desiderio? Quando mi avvicino, cercando di vincere l’impeto della corrente, sussurro come una bambina impacciata – sentire che non mi manca più nulla. Ecco, allora Dio dice bene di te e ti fa fare il morto in acqua se lo desideri: vai in pace con le ginocchia sbucciate. Vado verso la tua casa, oh Signore, un buco di pietra sotto la pista d’atterraggio di un’astronave. Dove possiamo parlare da soli? Non va bene la riva del lago, troppo vento. Più in fondo, nel boschetto, c’è già troppa gente. Dove parlare un po’ da soli? Mi alzo, vago inquieta, mi risiedo. Una prima visione arriva ma poi la scaccio – è troppo forzata, mi sembra di parlare solo io. Dove stare un po’ da soli? Forse là dove accetto il tuo silenzio composto, dove non riesco a farti fare niente. Dove tu non fai, non spegni lo stoppino della fiamma smorta e non spezzi la canna inclinata. Dove tu non mi permetti di fare questo, e taci. Come sei bello, il più bello dei figli dell’uomo, e nella mia bellezza tu ti compiaci. Ci stiamo guardando da ore, e dal tetto sfondato per l’occasione tutti assistono alla scena con trepidazione. Solo guardarsi, Signore mio, in fondo mi basta, come due innamorati in mezzo alla folla. Dopo moltissimo tempo, mi accorgo che hai iniziato a smuovere col dito il pavimento di terra battuta. Lo gratti via e io non so cosa stai facendo, ma sei comunque il più bello, e io non sono mai stata paralitica. Inizi a tirare fuori dal terreno una sottilissima catena di metallo dorato; tiri e tiri, senza sforzo, stai pescando pesci dal sottosuolo – no, è una falce di luna dorata dal fondo del pozzo. Passa ancora moltissimo tempo, non so dire per quanto restiamo così, tu con la falce di luna in mano e io a guardare te; fatto sta che a un certo punto mi porgi la catena e io la prendo. Te lo chiedo – a cosa serve, Signore, cosa ci devo fare? Poi passano altri silenzi, innumerevoli, mentre capisco e me la lego al petto, la falce di luna rovesciata verso lo sterno e la catena annodata dietro la schiena. Cos’è, Signore? Taci, mi dici col dito – e poi – il tuo cuore è la tua casa.


Giorno 7.

Giovanni 21 – Maro 6, 30 – Marco 5 – Marco 1, 40 – Matteo 5

Spiaggia del primato di Pietro, Kursi, Monte delle Beatitudini. Arrivo a Gerusalemme

Sono partiti, i miei nuovi amici, rimango sola con persone che mi sembrano estranee, per un motivo o per un altro. Trascino il sentiero di ghiaia con i sandali, le vesciche mi dolgono sempre meno ma il disagio cresce. Non so a chi volere bene. Sei capace di amare? E in quale misura? Ti abbassi fino alla mia se te lo chiedo? Io fino alla tua non riesco ad arrivare: “non riesco” è tutto quel che so di me, senza primato nell’amore. Io, Pietro, lo capisco. L’amore per me esce dalla grotta di Gerasa come un folle gigantesco, è grande quanto tutta la montagna in cui abita e io gli dico – non tormentarmi, Signore. Più si avvicina, più diventa piccolo, la statura di un bambino che trotterella. Lo guardo interdetta dalla pianura a strapiombo sullo scoglio, con occhi suini, perché sì, in questa scena io sono il maiale sacrificale: prima o poi, pur di liberare l’amore dai suoi demoni, mi butterò dal dirupo anch’io. L’amore gigantesco, indemoniato. La visione svanisce, e a poco a poco anche la Galilea – proseguiamo per Gerusalemme. L’amore resta lì come un blocco stradale, il gigante è diventato il camion di un carpentiere che blocca la strada al nostro pullman. Tutti sembrano affiatati nello spostare macchine a mani nude: io scruto piuttosto che l’amore non si cappotti di nuovo su me. Il mio buonismo senza discernimento – mi dicono – perché dò da mangiare a un gatto randagio. Non hanno capito niente di me. Sono tutto tranne che semplice: so di essere una pura di cuore, ma il mio nome è Legione, perché qui siamo in molti. È questa la tentazione che mi attendeva dopo il battesimo?


Giorno 8.

Giovanni 9 – Prima lettera di Giovanni 4, 17-18

Tunnel di Ezechia, Piscina di Siloe, Betlemme

Scesa dal letto direttamente nel tunnel di Ezechia. Ricordo solo le mie mani che cercano le pareti di roccia in un buio così completo da essere riuscito a cancellare il concetto stesso del mondo. Non esiste ancora niente nel canale del parto, e se accetti la paura, inizierai a prenderci gusto a questa morte, che si distende lungo il piano inclinato di una nuova nascita, più giù, da qualche parte in fondo, e le braccia che allungo in avanti, ad anticipare il percorso, mi sembrano funi che mi tirano verso l’uscita. I passi degli altri nell’acqua, il rumore dei viventi: questo e le mie braccia mi sono bastati, insieme alla promessa che ne saremmo usciti vivi. Per quanto buio ci sia in questo buio, alla fine ci sarà uno spacco nella roccia. Quando arrivo sulla soglia dell’uscita trovo chi mi guarda, mi stava aspettando. Ci abbandoniamo ad un lungo abbraccio e io mi sento quasi piangere di gioia. Ma poi il buio ritorna, e sento ancora la tentazione che mi aveva travolto il giorno prima. La vedo, davanti alla piscina di Siloe: vedo Gesù che si sta ripulendo il fango dagli occhi. Glielo messo io, che sono cieca, e pretendevo di guarirlo. Lui si volta verso di me e mi guarda con aria triste – siccome dite, noi vediamo, il vostro peccato rimane. È questo il mio peccato, Signore: avere la presunzione di vederci così bene da voler ridare la vista perfino a te – io, che sono la cieca nata. Mi viene da piangere, ma non subito; accade a Betlemme, durante l’eucarestia. Non so cosa spezza il mio pane in pianto, ma forse sono le parole di Giovanni che mi rimprovera – l’amore perfetto scaccia il timore: nell’amore non c’è timore, Signore, e allora perché io ho così tanta paura? La paura mi fa arretrare dentro l’illeggibile, quello che nella visione ero lo straccio con cui ti asciugavi gli occhi: lo stendevi a terra e diventava un foglio su cui iniziavi a scrivere, ma io non riuscivo a leggervi nulla. Seduta lungo il muro della navata, provo a richiamare quell’immagine – che cosa mi hai scritto? Ma è anche peggio: vedo che ripieghi il foglio in molte parti, sembra non avere fine. Devo andare – non so se è perché non riesco più a sopportare la vista oppure perché è solo il momento di metterci in coda verso l’ennesima reliquia. A questo proposito, noto che mi commuovono solo quelle decorate in stile ortodosso. Continuo a essere straniera, penso, meglio accettarlo come parte di me. Ma essere stranieri anche a se stessi è come essere questa città divisa da un muro: un dedalo di altissimi corridoi da prigione ci accompagnano da una parte all’altra: nel tragitto, ci si dimentica qualcosa. E i servizi di guardia al mio cuore scansionano con attenzione, perché siano sicuri che niente di riconoscibile faccia bip-bip.


Giorno 9.

Matteo 6,7 – Luca 19,41 – Luca 7,20 – Isaia 25,7

Visite al monte degli ulivi, via dolorosa, Western Wall

Troppo pieno. Oggi non riesco a vedere nulla, a sentire nulla, troppo pieno. Sono giornate troppo dense, non riesco a rigirarle col cucchiaio, a separarne l’impasto, e allora a volte ci rinuncio, a volte rovescio la scodella e vado a ritroso, riavvolgendo il nastro dall’inizio. Oppure, sosto. Sono qua, inquieta, che non so nemmeno come sedermi, e forse ho appena trovato una posizione comoda dopo un’ora di tentativi. Sono qua. Sento il qua. E l’unica cosa che vedo qua è Gesù che piange su Gerusalemme perché non riconosce il tempo in cui viene visitata. Mi accorgo che è una domanda – sono visitata? Che cosa mi visita? Vedo le tombe ai miei piedi appena più sotto, e poi a salire lungo la valle di Hebron. Chi viene sepolto qua risorgerà per primo perché per primo vedrà il Messia. È una domanda – anche lui in visita? Chi mi visita? Non faccio buchi in questo velo che copre il volto del mio popolo, dice il profeta, la coltre che ricopre le mie nazioni. Svegliata sotto gli ulivi, non riconosco i mille piccoli luoghi di culto in cui si polverizza questo monte, o per lo meno ci riesco solo dopo un po’, seguendo gli indizi delle spiegazioni che ci danno: qua insegnava ai discepoli, qua ci dormiva, qua ha pianto guardando Gerusalemme, qua ci ha insegnato il Padre Nostro. Un gruppo di una chiesa assiro-ortodossa (mai sentita prima) intona la preghiera con una litania che mi emoziona subito e non mi lascia le orecchie per lungo tempo. Il cattolicesimo ha disimparato il rito, penso. Forse è troppo tardi per rimediare, ma almeno è rimasta la Parola. Quella vibra. Rimetti a noi i nostri debiti come noi ai nostri debitori: come fare a perdonarci, se non sappiamo perdonare? E viceversa. Mi interrogo sulla frase non abbandonarci alla tentazione – perché la prova è necessaria per capire cos’è il male, quando si manifesta, come separarne l’impasto da ciò che è buono e ritornare interi. Liberaci dal male, ovvero: prima o poi aiutaci a vederlo, a districarlo dal bene. E aiutaci a non rimanerci affezionati per abitudine. Il resto della giornata sfuma nel vago ricordo della serata davanti al Muro del pianto: i soldatini diciottenni al check-point; io che mi sento dire – qua il male è davvero indistricabile; io che cerco di avere pazienza con me stessa davanti a una città che per certi versi mi rispecchia, perché nemmeno lei si mette d’accordo con se stessa e cammina a ritroso per non voltare le spalle al suo perenne motivo di lutto. Ho il mio muro del pianto, io. Stringo il rosario che mi hanno regalato: la frana è sempre, certo. Ma lo spirito veglia, anche se magari non è pronto. Signore, restituiscimi tutti i miei vecchi bigliettini e insegnami a restare qua – a desiderare solo ciò che non mi separa più da me.


Giorno 10

Marco 14,3 – Giovanni 5, Marco 14,32 – Luca 22,47 – Luca 23,33

Spianata delle moschee, piscina di Betesda, orto del Getsemani

La spianata mi ricorda la stessa grandiosità di Fatephur Sikri, in India, con la differenza che qui, invece del silenzio senza guardiani, ci sono guardiani senza silenzio: occhi addosso per tutto il tempo, passanti casuali che ci dicono come dobbiamo vestirci e che dobbiamo metterci il velo, e questo senza nessuna autorità per farlo. Il passante in questione, poi, è un uomo giovane, sulla trentina, e spinge un passeggino vuoto: immagino il bambino assente e provo il doppio del disagio. L’ossessione con cui ripete la frase “io rispetto la tua cultura” mi sembra incarnarsi in quel passeggino senza neonato, anche se non so dire perché. Io scrivo con il velo in testa, ma scrivo del giorno prima, perché l’esperienza si accavalla troppo velocemente e io non tengo il passo. Qualcosa di me si rifiuta di pensare alla donna di Betania, forse perché mi procura troppa sofferenza rendermi conto di non aver mai amato nessuno in modo tale da schiantare il vaso del mio cuore. O peggio, di averlo fatto, ma sempre per la causa o la persona sbagliata. Ho mai provato consolazione senza causa? Perché le mie scelte mi sembrano sempre viziate? Cos’è che, alla fine, mi ha consolato della fatica, solo il passare del tempo? Cos’è che mi ha fatto sentire di aver preso la decisione giusta in questa aridità? Ma la vera domanda è – tu vuoi guarire? Io vorrei essere liscia e semplice, come la pietra levigata dai pellegrini che ogni tanto tocchiamo quando passiamo per santuari. Invece questo pellegrinaggio ha fatto riemergere d’un colpo tutti i miei strati geologici, per di più mischiati da numerosi terremoti. Ma tu vuoi guarire? Vorrei che qui bastassero carotaggi e torce frontali, ma non bastano. Serve tempo per capire. E io che mi credevo semplice, o meglio: di aver attinto alla tanto agognata semplicità. Ma quindi vuoi guarire? Vorrei, ma mi sento confusa e a disagio con me stessa, non riesco a muovermi. Alzati, prendi la tua barella e non fare la vittima. Scoppio in lacrime nel sentire la malattia di tutti come un guasto spirituale autoindotto che, indurito negli anni, rinnova i modi per giustificare se stesso. E ti vedo di nuovo, quando chiudo gli occhi: io sono immersa nella piscina di Betesda ma, cosa strana, sono sempre stata lì, e nell’acqua non sono affatto paralitica, guizzo come un pesce. Sei tu che mi inviti ad uscire, e io striscio fuori con fatica, sentendo le gambe sempre più fiacche. Giunta sull’ impiantito del mondo reale, la paralisi è completa. Tu mi suggerisci di voltarmi e prendere solo un po’ d’acqua dalla piscina, giusto quella che occorre per bagnarsi il viso, mi dici – giusto quella che ti occorre per guarire. Inizio a capirci qualcosa solo verso sera, dopo l’ennesimo schianto sbagliato: continuo a ripetermi – non devi prendere tutto, solo quello che ti serve per guarire. Non devi prendere tutto: delle cose, delle persone, dell’amore. Prendere tutto ti esaurisce, e invece di schiantarsi a terra per emanare profumo, il tuo vaso si svuota perché ha un buco sul fondo. Quando lo apri, non ne è rimasto nulla, tante speranze finite in bestemmia, la disperazione del mio piccolo Giuda. Può essere che io rinneghi, per sentirmi più libera di amare dopo. Del tipo: io non ti prometto nulla, così mi rilasso e posso amarti davvero. Il problema è che poi non è mai davvero, come fa Gesù: da Pietro ricado nel dilemma di Giuda, e poi mi scasso definitivamente. Allora meglio tornare a essere Pietro: non ti conosco perché non mi conosco; e, sull’orlo del rinnegamento, troverò il modo di evaporare le lacrime in profumo. Troverò il modo giusto di esserti fedele, giusto quello che ci occorre per guarire entrambi. Per guarire tutti.


Rientro

Ci sono parole che continuiamo ad usare anche se non parlano più di noi. Parliamo di quello che di noi conosciamo, troviamo la via più semplice, più convenzionale perché è anche quella più nota. Lo capisco dalla sensazione che provo rileggendo i miei appunti: una sensazione di stereotipia, del tipo – questa non sei tu, ma la solita tu. C’è chi ci ama da come ci nutre: oggi sia colazione che cena sono stati a sorpresa, ospiti di altri istituti e incredibilmente abbondanti. Ci ama, chi ha preparato questo per noi, e mi viene il pensiero che forse potrebbe non bastarmi, che potrei essere il solito animale vorace che vuole ancora più amore, ma potrei anche, un giorno, imparare a smentirmi: sapere davvero che non mi manca nulla. L’ansia del rientro mi ha accompagnata per tutto il giorno, e al momento del commiato singhiozzavo, e di paura, credo: triste fino alla morte, vivevo il timore di tornare a casa, di non saper fare i conti con le mie frane, di non saper mai distinguere la parola di Dio da quella di Satana, perché in fondo entrambi citano la Bibbia, e nel mio cuore accade lo stesso. Cito parti di me e le uso contro di me: ecco Satana; e Dio, il contrario? Dio è quella voce, dentro di me, in grado di smentirmi? Forse capisco che l’alternativa non è tra avere un vizio di forma e non averlo, ma tra la pazienza degli ulivi centenari e qualcos’altro, tra lo sguardo dolcissimo di Gesù come mi è apparso in meditazione e qualcos’altro, tra il deserto e imparare a mappare le sorgenti del deserto. In questo viaggio c’è stata roccia, roccia ovunque, e ho sentito che, quando la toccavo, mi insegnava qualcosa di ancora poco chiaro, ma che somigliava all’amore vero: era liscia al contatto, ma stratificata, solida e avvolgente, forte e carezzevole, si smentiva costantemente. Mai c’è stata roccia qui che abbia fatto male, nemmeno i massi nelle rapide del Giordano, che avrebbero potuto uccidermi, e allora penso: l’amore può ucciderti e invece non lo fa. L’amore può tormentarti, e invece ti consola; l’amore può prenderti, e invece lascia che ti affidi. L’amore vero smentisce la maledizione di Sodoma: la frana è sempre, certo, ma la cenere non è solo il resto di un incendio, serve anche a

pulire lo sporco. Non esiste punizione, nell’amore, solo purificazione: se brucia, sai dove disinfettare la ferita. Piango a intermittenza, perché sorrido; penso a un gesuita con la maglietta gialla e il severo accento maltese che mi dice – anche nella tristezza esiste consolazione. E io sono triste, ma sto sorridendo. Mi attraversa un pensiero che annoto subito: torna solo ciò che muta – e dalla lucidità con cui spezza d’un tratto la scrittura mi accorgo che più che pensare forse stavo pregando. Torna solo ciò che muta: chi ritorna piange perché durante il viaggio ha scoperto che è in grado di cambiare

   


   

Giulia Cosiogiulia.cosio@gmail.com