Riflessioni teologiche – 81. Albert Schweitzer e l’interpretazione mitica di John M. Robertson

Briciole dalla tavola. Vangelo per senza Dio

di Alberto Ganzerli

Albert Schweitzer, nella sua Storia della ricerca sulla vita di Gesù, presenta il letterato scozzese John M. Robertson fra i tre principali sostenitori di una concezione mitica come base della non esistenza storica di Gesù. La sua posizione si caratterizza per la deduzione conseguente ed esclusiva della figura di Gesù dalla mitologia senza ricorrere mai alla spiegazione simbolica. La concezione di Robertson, che ritiene tutte le religioni caratterizzate da un riprodursi di divinità che subentrano alle precedenti, vede in un ebraismo solo apparentemente monoteistico la presenza politeistica di figure divine solo successivamente descritte come personaggi umani e storici. Anche il semi-divino Gesù-Giosuè del mito religioso sarebbe diventato il protagonista umano di una vicenda storica collocata in un recente passato in Palestina, arricchita con alcuni riferimenti storici ma soprattutto con caratteristiche mitiche che riunificavano quelle dei culti contemporanei, contribuendo così al successo storico – rispetto ai culti coevi – del movimento che si richiamava alla figura di Gesù.


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Albert Schweitzer nella sua Storia della ricerca sulla vita Gesù, dopo aver presentato, tra i negatori dell’esistenza storica di Gesù, i sostenitori della cosiddetta concezione simbolica, come Bruno Bauer e Albert Kalthoff, si concentra su quella che chiama concezione «mitica». Secondo questa concezione «la figura di Gesù disegnata nei vangeli […] si configura come la storicizzazione di un’idea centrale prodottasi necessariamente in una fase determinata dello sviluppo della mitologia [per cui] i momenti principali della tradizione evangelica sono riscontrabili nella mitologia [e] i materiali narrativi arcaici sono stati riuniti e condensati in una storia che doveva essersi svolta nel più recente passato e in terra giudaica». Schweitzer si sofferma in modo particolare su tre degli esponenti della concezione mitica a lui contemporanei e operanti agli inizi del Novecento: il letterato scozzese John M. Robertson, il matematico statunitense William B. Smith e il filosofo tedesco Arthur Drews. Nella sua opera Cristianesimo e mitologia [Christianity and Mythology] pubblicata nel 1900 e ampliata in una seconda edizione nel 1910, John M. Robertson sostiene – come sintetizza Schweitzer – «la deduzione conseguente ed esclusiva della figura di Gesù dalla mitologia» e «non ricorre mai alla spiegazione simbolica». Prosegue Schweitzer: «Nei suoi studi comparativi sulle religioni, John M. Robertson è giunto al sorprendente risultato che tutte si sviluppano secondo le stesse leggi. Nessuna religione può pretendere di avere un’evoluzione originale, fondata sulla peculiarità della sua essenza. Le diversità dipendono solo dall’ambiente e dalle particolari condizioni esterne. L’evoluzione primaria consiste nel continuo riprodursi degli dèi, i quali, se sopravvivono per un certo numero di anni e acquisiscono prestigio, prendono il posto degli antichi. Se il processo si svolge normalmente e lentamente, gli dèi più recenti vengono intronizzati come figli dei più antichi; se il processo invece precipita, vengono considerati come fratelli. È così che Krishna soppiantò Indra e Serapi[de] prese il posto di Osiride».

Secondo Robertson, «si può quindi affermare in generale che l’interesse religioso si concentra sempre nella continua creazione di figure successive. La religione israelitica non costituisce un’eccezione a questa regola [della continua creazione di figure successive]. Nel suo ultimo stadio essa rappresenta un quasi-monoteismo, ma ciò non significa che i suoi naturali istinti politeistici si siano spenti. Soltanto i sacerdoti li reprimono, perché interessati a render permanente la situazione creatasi con l’insediarsi dell’unico Dio […] e canonizzata dai libri sacri». Quanto poi alle origini della figura di Gesù, Albert Schweitzer descrive la spiegazione di Robertson in questi termini: i sacerdoti «non poterono tuttavia impedire che nel secondo secolo precristiano, nell’Apocalisse di Enoc, l’“Unto” fosse elevato al rango di divinità. Le influenze greche e orientali, sempre più intense all’interno della religione israelitica, favorirono gli sforzi per la creazione di un semidio che diventava sempre più importante. Un culto di Gesù sussisteva in Israele fin dai tempi in cui Abramo, Isacco, Giuseppe, Mosè e Giosuè erano considerati come divinità e non si erano ancora irrigiditi in quelle personalità umane che gli scritti canonici tramandano. Giosuè aveva importanza particolare e vi possiamo facilmente riconoscere una divinità solare probabilmente efraimita. Fra lui e il semidio Gesù sussisteva un’intima connessione che risulta già dall’affinità del nome. Si trattava verosimilmente di un’unica personalità, venerata sotto il simbolo dell’agnello o del montone, come appare dall’Apocalisse di Giovanni. Era inoltre in relazione con Adone e il Tammuz babilonese. Nell’epoca precristiana vi fu in Palestina un culto di Osiride-Tammuz in cui ha giocato un ruolo l’adorazione di una Maria e del suo bambino Gesù. […] La storia evangelica della nascita di Gesù è nata dal drammatico cerimoniale con cui nel giorno del natale, il solstizio d’inverno, si celebra il sacro giorno della nascita. I riti tipici della celebrazione della morte del dio intorno al tempo pasquale divennero la storia della passione e resurrezione».

Schweitzer prosegue richiamando alcuni altri collegamenti che Robertson ritiene di poter individuare: «È importante osservare che il culto di Gesù era accompagnato da una celebrazione della cena, assunta poi nel mito specificamente evangelico e inserita nella storia della passione. Non bisogna dimenticare che riti simili avevano una grande importanza nel culto di Mitra e Dioniso. Vi erano quindi tutti i presupposti per la nascita di un dio potente, con un grande futuro, perché riunificava in sé le idee di tutti i culti». Secondo Schweitzer «alla fine Robertson riconosce però la provenienza dalla tradizione canonica e non canonica di qualche aspetto. I discepoli, le diverse Marie, Giuseppe e tutte le altre personalità sono mitiche se non si trovano al tempo stesso, come Erode e Pilato, nella letteratura profana. Giovanni Battista tuttavia molto probabilmente è esistito e la predicazione minacciosa a lui ascritta può essere stata realmente opera di un “fanatico” che attendeva la venuta prossima del messia conquistatore. […] Storica è inoltre una serie di messia politici, la cui esistenza Robertson ritiene evidente e dimostrata, benché al loro riguardo – afferma Schweitzer – non si disponga di nessuna fonte di informazione. Può darsi che alcuni detti etici dell’uno o dell’altro siano stati divulgati e conservati nei vangeli, poiché ognuno di costoro veniva chiamato dai suoi seguaci “signore”. In questo senso, […si potrebbe perciò affermare che] possediamo alcuni “detti del Signore” autentici». Quanto poi alla spiegazione delle origini del cristianesimo, Schweitzer sintetizza così la proposta di Robertson: «L’originario movimento […di Gesù] era “antigentile” e “antisamaritano”; acquisì un carattere universalistico solo attraverso l’opera di Paolo […ma ] le prospettive di Gesù, il dio “di second’ordine”, non potevano però attuarsi finché i sacerdoti della capitale tenevano il potere nelle loro mani, poiché il suo culto non poteva venir sfruttato per il tempio di Gerusalemme. Al momento opportuno la città venne distrutta dai Romani e il “cristismo” ebbe via libera. Gesù cominciò poi la sua marcia trionfale e sconfisse infine anche Mitra, suo grande rivale».

Riferimenti:

Albert Schweitzer, Storia della ricerca sulla vita di Gesù, Paideia Editrice, Brescia 1986 (1° ediz. tedesca del 1906, 2° ediz. ampliata 1913)
I testi citati sono tratti dal capitolo 22

John M. Robertson, Christianity and Mythology, Watts & Co, Londra 1910 (seconda edizione ampliata, la prima edizione è del 1900)
Il volume può essere consultato integralmente online sul sito: archiv.org