Comunità cristiana: chiamata, discepolato, santità

Germogli

germogli” è una collanina, nata quasi per caso, dopo una riunione nella quale mi era stato chiesto di proporre una breve meditazione;

germogli” è una cosa piccolissima, debole, un timido inizio, niente di ambizioso;

germogli” ha la pretesa di mettere in comune qualche passo nel cammino di fede guardando alla Scrittura e sapendo che «né chi pianta è qualcosa, né lo è chi irriga, ma è Dio che fa crescere» (1Cor 3,7).

Alberto Bigarelli

di Alberto bigarelli

Stesura dell’incontro formativo Caritas (24 maggio 2011)

  1. Ai nostri giorni, giorni di disinvolto individualismo «patologia del post-moderno», come l’ha definito il card. A. Bagnasco durante la prolusione della 63a Conferenza Episcopale Italiana (maggio 2011), una riflessione sulla comunità sembra fuori luogo. Se c’è qua e là un qualche abbozzo del convenire, del riunirsi è perché si privilegia la somiglianza se non l’uniformità. L’uniformità però preoccupa e non poco perché confina con l’integralismo, il fondamentalismo e l’intolleranza. L’orizzonte della comunità così svanisce. Parlare allora di comunità e di comunità ecclesiale oggi è molto necessario, urgente, vitale.
  2. Bianchi, priore della Comunità di Bose, in una sua riflessione a questo proposito scrive che il termine comunità può essere fatto risalire al latino “cum-munus” nel doppio significato di “dono” e di “dovere” comune: la comunità come condivisione del dono, del dovere, della responsabilità» (Sentieri di senso, 8). Così la comunità è tutt’altro che accesso a una proprietà, anzi. Per essere comunità i membri devono uscire da se stessi, sentirsi mancanti di qualcosa, sentirsi “donati a”, aperti alla comunione. Prender parte a una comunità significa condividere con gli altri, esporsi all’altro, essere insieme come diversi, sentirsi legati come popolo.
  1. Per entrare in ciò che questa sera mi interessa sviluppare, richiamo una bella pagina del documento conciliare Lumen Gentium sulla chiesa: «Tutti gli uomini sono chiamati a formare il popolo di Dio. Perciò questo popolo, pur restando uno e unico, si deve estendere a tutto il mondo e a tutti i secoli, affinché si adempia l’intenzione della volontà di Dio, il quale in principio creò la natura umana una e volle infine radunare insieme i suoi figli dispersi (cf. Gv 11,52). A questo scopo Dio mandò il Figlio suo, al quale conferì il dominio di tutte le cose (cf. Eb 1,2), perché fosse maestro, re e sacerdote di tutti, capo del nuovo e universale popolo dei figli di Dio. Per questo infine Dio mandò lo Spirito del Figlio suo, Signore e vivificatore, il quale per tutta la Chiesa e per tutti e singoli i credenti è principio di associazione e di unità, nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere (cf. At 2,42)»(§ 13). Appare chiaramente che l’iniziativa della chiamata è di Dio, che egli l’attua attraverso il Figlio il quale effondendo lo Spirito «principio di associazione e di unità» tiene unita la Chiesa sotto la guida degli apostoli.

La chiamata

  1. Se c’è una comunità, Dio è all’opera perché tutto quello che tiene unita la Chiesa ha la sua origine e la sua ragione in lui (cf. At 5,34-39). Si può dire che la comunità cristiana è oggetto della sua Parola e della sua opera. Quest’azione ha un suo primo coronamento nel battesimo.

Ma rivolgiamo adesso la nostra attenzione alla parola “chiesa”. É un termine italiano che è il calco del greco ekklesia e tradotto significa assemblea. Non sempre “chiesa” è un termine tecnico e mantiene spesso il senso di assemblea convocata, adunanza. Cito alcuni passi del Nuovo Testamento che possono metterci in pista.

L’apostolo Paolo nell’indirizzo di alcune sue lettere scrive: «Paolo, chiamato a essere apostolo di Cristo Gesù per volontà di Dio, e il fratello Sòstene, alla Chiesa di Dio che è a Corinto» (1Cor 1,1s.); «Paolo, apostolo non da parte di uomini, né per mezzo di uomo, ma per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre che lo ha risuscitato dai morti, e tutti i fratelli che sono con me, alle Chiese della Galazia: grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo»(Gal 1,1s.).

«Paolo e Silvano e Timòteo alla Chiesa dei Tessalonicesi che è in Dio Padre e nel Signore Gesù Cristo: a voi, grazia e pace» (1Tess 1,1; cf. 2Tess 1,1). Le comunità che sono nate dalla sua predicazione sono chiamate chiese, comunità cristiane ancora piccole, ma luoghi della vita nuova, luoghi di fraternità.

Ancora un paio di esempi presi dal vangelo di Matteo. É il caso di un fratello che fa un grave torto ad un altro: Dice il Signore: «Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. Se poi non ascolterà costoro, dillo alla chiesa; e se non ascolterà neanche la chiesa, sia per te come il pagano e il pubblicano» (18,15-17). La comunità ecclesiale nel suo insieme è chiamata in causa per ricomporre la pace compromessa. É l’ultima possibilità però, nella quale si ascolta una voce, un richiamo autorevole e collettivo dopo il quale il colpevole, se non è misericordioso, non sarà più riconosciuto come fratello nel discepolato.

L’altro esempio riguarda il primato di Pietro, episodio nel quale   Gesù riconosce la benedizione elargita a Pietro dal Padre: «E Gesù gli disse: “Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa» (16,17s.). Gesù chiama «la mia chiesa» la comunità fondata su Pietro; è il Signore che la edifica, nonostante l’attacco delle potenze infernali, in rapporto a Pietro e in comunione con lui.

 

  1. Il termine ekklesia deriva dal verbo kaleo=chiamo. Alle origini della chiesa c’è dunque qualcuno che chiama. Impressiona vedere che questo verbo chiamare appare oltre cento volte nella Bibbia Greca (la famosa LXX, la Bibbia che usavano gli apostoli) e traduce esclusivamente l’ebraico qehàl – cioè assemblea; guarda caso qehàl è imparentato con qol=voce. Lo voce che chiama e che non appartiene a chi è chiamato, è altro da chi ascolta. C’è un’altra parola che ci è divenuta familiare dal Nuovo Testamento e cioè “sinagoga”, l’ambiente dedicato alla preghiera della comunità giudaica. Anche questo termine è una parola calco del greco sunagoghè=riunione, adunanza. Il verbo corrispondente sunàgo nel Nuovo Testamento ha un significato più preciso: 1. Indica il radunarsi dei gruppi di dirigenti giudei; 2. indica il radunarsi intorno al Cristo (cf. Mc 2,2; 4,1; 5,29; 6,30; ecc.); 3. indica l’incontro di più comunità soprattutto in Atti (cf. 4,27.31; 15,6.30; 20,7s.; ecc.); 4. infine il radunarsi del popolo di Dio nell’ultimo tempo (cf. Mt 25,32; Gv 11,52; 15,6; ecc.). In ogni caso é sempre un’adunanza provocata da qualcuno.
  1. La chiesa è una realtà che nasce dalla “chiamata”; è il popolo accumunato dallo stesso appello, da una stessa iniziativa. La chiesa prende forma da una “vocatio” individuale. Il Signore chiama individualmente e in questo c’è una elezione gratuita e concreta dentro alla storia personale: «non di tutti – infatti – è la fede» (2Tess 3,2). La chiesa nasce intorno al Cristo che interpella personalmente e la risposta non può essere che personale.

Ricordo la chiamata dei primi discepoli: «Passando lungo il mare di Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. Gesù disse loro: “Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini”. E subito lasciarono le reti e lo seguirono. Andando un poco oltre, vide Giacomo, figlio di Zebedeo, e Giovanni suo fratello, mentre anch’essi nella barca riparavano le reti. E subito li chiamò. Ed essi lasciarono il loro padre Zebedeo nella barca con i garzoni e andarono dietro a lui» (Mc 1,16ss.).

«Passando, vide Levi, il figlio di Alfeo, seduto al banco delle imposte, e gli disse: “Seguimi”. Ed egli si alzò e lo seguì» (Mc 2,14).

La scelta dei dodici è un’iniziativa di Gesù: «Salì poi sul monte, chiamò a sé quelli che voleva ed essi andarono da lui. Ne costituì Dodici – che chiamò apostoli -, perché stessero con lui e per mandarli a predicare con il potere di scacciare i demòni. Costituì dunque i Dodici: Simone, al quale impose il nome di Pietro, poi Giacomo, figlio di Zebedeo, e Giovanni fratello di Giacomo, ai quali diede il nome di Boanèrghes, cioè “figli del tuono”; e Andrea, Filippo, Bartolomeo, Matteo, Tommaso, Giacomo, figlio di Alfeo, Taddeo, Simone il Cananeo e Giuda Iscariota, il quale poi lo tradì» (Mc 3,13ss.).

Lo stesso con Zaccheo: «Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: “Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua”» (Lc 19,5). Anche quella di Paolo è una chiamata che non dipende dalla sua condotta o dalle sue virtù. Rileggiamo quel racconto: «Saulo, spirando ancora minacce e stragi contro i discepoli del Signore, si presentò al sommo sacerdote e gli chiese lettere per le sinagoghe di Damasco, al fine di essere autorizzato a condurre in catene a Gerusalemme tutti quelli che avesse trovato, uomini e donne, appartenenti a questa Via. E avvenne che, mentre era in viaggio e stava per avvicinarsi a Damasco, all’improvviso lo avvolse una luce dal cielo e, cadendo a terra, udì una voce che gli diceva: “Saulo, Saulo, perché mi perséguiti?”. Rispose: “Chi sei, o Signore?”. Ed egli: “Io sono Gesù, che tu perséguiti! Ma tu àlzati ed entra nella città e ti sarà detto ciò che devi fare”»(At 9,1-6). E ad Anania, chiamato dal Signore ad accogliere Paolo nella comunità di Antiochia di Siria, Gesù dice: «“Va’, perché egli è lo strumento che ho scelto per me, affinché porti il mio nome dinanzi alle nazioni, ai re e ai figli d’Israele» (At 9,15).

Così le prime conversioni dell’età apostolica sono dovute a una  chiamata che passa attraverso l’annuncio del vangelo. Vediamo solo un brano fra i tanti possibili: «All’udire queste cose si sentirono trafiggere il cuore e dissero a Pietro e agli altri apostoli: “Che cosa dobbiamo fare, fratelli?”. E Pietro disse loro: “Convertitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per il perdono dei vostri peccati, e riceverete il dono dello Spirito Santo. Per voi infatti è la promessa e per i vostri figli e per tutti quelli che sono lontani, quanti ne chiamerà il Signore Dio nostro”. Con molte altre parole rendeva testimonianza e li esortava: “Salvatevi da questa generazione perversa!”. Allora coloro che accolsero la sua parola furono battezzati e quel giorno furono aggiunte circa tremila persone» (At 2,37-41).

Siamo a Pentecoste, nel tempio; Pietro ha appena terminato di parlare annunciando la morte e risurrezione di Gesù e lo ha fatto con convinzione, citando i profeti, pieno di Spirito santo. Chi ascolta è toccato nel cuore e si lascia guidare al battesimo. Il Vangelo infatti «è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede» (Rm 1,16).

Per “chiamata” si intende la chiamata alla fede in Gesù; in essa si esprime una precisa intenzione di Dio; così si esprime il vangelo di Giovanni: «Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato» (6,44). “Nessuno” per quanto contemporaneo, vicino di casa, o parente stretto; “nessuno” per mezzi, virtù, risorse proprie può vantare questo accesso. L’appello passa, come si è detto, attraverso la parola di Gesù in cui opera Dio stesso, poi attraverso la chiesa che fa risuonare la stessa parola.

  1. La “chiamata” ha un’altra caratteristica: toglie dal mondo lasciando nel mondo, fa la chiesa e la lascia come testimone. Lo troviamo nella preghiera che Gesù indirizza al Padre concludendo i lunghi discorsi di addio diretti ai discepoli: «Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo. Consacrali nella verità. La tua parola è verità. Come tu hai mandato me nel mondo, anche io ho mandato loro nel mondo»(Gv 17,16s.). Il termine “mondo”, in questo contesto, ha un’accezione negativa. É lo stato in cui si trova l’uomo dopo il peccato delle origini: il rapporto con Dio è stato oscurato; l’uomo si è fatto come Dio decidendo del bene e del male (cf. Gen 3,22); la creazione è posta nella sofferenza e nella morte (cf. Gen 3,17-19; Rm 8,20-22).

Una sintesi efficacissima si trova in s.Paolo; non si può non leggere. «Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti e hanno scambiato la gloria del Dio incorruttibile con un’immagine e una figura di uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e di rettili. Perciò Dio li ha abbandonati all’impurità secondo i desideri del loro cuore, tanto da disonorare fra loro i propri corpi, perché hanno scambiato la verità di Dio con la menzogna e hanno adorato e servito le creature anziché il Creatore, che è benedetto nei secoli. Amen.

Per questo Dio li ha abbandonati a passioni infami; infatti, le loro femmine hanno cambiato i rapporti naturali in quelli contro natura. Similmente anche i maschi, lasciando il rapporto naturale con la femmina, si sono accesi di desiderio gli uni per gli altri, commettendo atti ignominiosi maschi con maschi, ricevendo così in se stessi la retribuzione dovuta al loro traviamento. E poiché non ritennero di dover conoscere Dio adeguatamente, Dio li ha abbandonati alla loro intelligenza depravata ed essi hanno commesso azioni indegne: sono colmi di ogni ingiustizia, di malvagità, di cupidigia, di malizia; pieni d’invidia, di omicidio, di lite, di frode, di malignità; diffamatori, maldicenti, nemici di Dio, arroganti, superbi, presuntuosi, ingegnosi nel male, ribelli ai genitori, insensati, sleali, senza cuore, senza misericordia. E, pur conoscendo il giudizio di Dio, che cioè gli autori di tali cose meritano la morte, non solo le commettono, ma anche approvano chi le fa» (Rm 1,22-32).

Il peccato ha reso l’uomo malvagio e stolto, ne ha corrotto l’intimo sentire (cf. Mc 7,21-23); l’uomo si trova in una realtà altamente civilizzata, ma la cui intelligenza è depravata (cf. Rm 1,22-32). Queste due citazioni sono brani a cui rimando per non appesantire il testo; sarebbe bene leggerli con calma. Ora il “mondo” si trova sotto il dominio e la falsa regalità del demonio. Lo ricorda la prima lettera di Giovanni: «Noi sappiamo che siamo da Dio, mentre tutto il mondo sta in potere del Maligno» (1Gv 5,19; cf. 2Cor 4,4).

Lo asserisce Gesù quando, accusato dai farisei di essere luogotenente di satana, aveva risposto: «Ora, se Satana scaccia Satana, è diviso in se stesso; come dunque il suo regno potrà restare in piedi? E se io scaccio i demòni per mezzo di Beelzebùl, i vostri figli per mezzo di chi li scacciano? Per questo saranno loro i vostri giudici. Ma, se io scaccio i demòni per mezzo dello Spirito di Dio, allora è giunto a voi il regno di Dio. Come può uno entrare nella casa di un uomo forte e rapire i suoi beni, se prima non lo lega? Soltanto allora potrà saccheggiargli la casa. Chi non è con me è contro di me, e chi non raccoglie con me disperde» (Mt 12,26-30; cf. Lc 4,6). L’attività del demonio nel mondo sebbene sia estesa e devastante, non potrà mai misurarsi con la potenza della redenzione portata dal Signore. Ora la sua “chiamata” lascia nel “mondo”, ma non è un lasciare qualsiasi: lascia come sale, lievito e luce (cf. Mt 5,13-16; 13,33).

Il discepolato

  1. La “chiamata” ha in sé un’altra importante caratteristica: è chiamata al discepolato. Si diventa discepoli non per attitudini, per qualità morali o virtù acquisite. Ciò che distingue Gesù dai maestri del tempo è che quelli non vanno a cercarsi i discepoli, mentre lui li cerca personalmente: basta ricordare i racconti di Marco (cf. 1,16-20; 2,17s.) o quello che scrive Giovanni: «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga» (15,16). Scegliere vuol dire scegliere fra e prendere da. É quella che viene chiamata, e spesso fraintesa, “elezione”. Un atto dovuto all’amore sapiente di Dio e che ha le proprie ragioni solo in lui; atto liberissimo, ininvestigabile.

Ogni cristiano è discepolo del Signore e il discepolato è uno stato di apprendimento continuo che termina con la morte. É il senso del sostantivo mathetès (=discepolo) e del verbo imparentato manthàno (=imparo, apprendo). Non è fuori luogo poi domandarsi come si impara e che cosa si impara, anche se è una distinzione non particolarmente utile. Si impara assimilando la parola, l’insegnamento del maestro, come scrive Giovanni: «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; … Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama. Chi ama me sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui”» (14,15.21). Ancora: «Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. … Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore» (15,7.10).

Si impara imitando, facendo proprio lo stile del maestro. Ce lo ricorda l’evangelista Luca: «E nacque tra loro anche una discussione: chi di loro fosse da considerare più grande. Egli disse: “I re delle nazioni le governano, e coloro che hanno potere su di esse sono chiamati benefattori. Voi però non fate così; ma chi tra voi è più grande diventi come il più giovane, e chi governa come colui che serve. Infatti chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve» (24,24-27). Se il maestro e Signore ha servito i suoi discepoli – e lo ha fatto in molti modi – chi sono loro per sottrarsi a questa logica? Devono amare e servire come Gesù ha mostrato loro: «Quando ebbe lavato loro i piedi, riprese le sue vesti, sedette di nuovo e disse loro: “Capite quello che ho fatto per voi? Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi» (13,12-15).

Un’altra cosa che si deve imparare è il rimanere in relazione. É ancora Giovanni a ricordarcelo: «Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano» (15,5s.). Non ha senso e non è possibile fare i discepoli allontanandosi dal maestro. Sì, è vero, c’è nell’uomo una voglia insopprimibile di indipendenza, di percorrere altre strade, ma il Signore è molto chiaro in proposito: «Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me; chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me. Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà» (Mt 10,37-39; cf. Lc 14,15-24).

L’apostolo Paolo, nonostante le esperienze di evangelizzazione e i carismi più vari di cui il Signore lo aveva dotato dice: «Non ho certo raggiunto la mèta, non sono arrivato alla perfezione; ma mi sforzo di correre per conquistarla, perché anch’io sono stato conquistato da Cristo Gesù. Fratelli, io non ritengo ancora di averla conquistata. So soltanto questo: dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la mèta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù» (Fil 3,12-14).

Quello del discepolato è uno stato non superabile e nel quale siamo mantenuti se siamo docili allo Spirito: «Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto» (Gv 14,25s.). E ancora: «Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà» (Gv 16,12-14). Lo Spirito santo continuerà a formare i discepoli e la chiesa intera perché non farà altro che introdurre sempre più nella grandezza della chiamata e nella comprensione dell’amore con cui il Padre li ha amati e li ama nel Figlio.

La santità

  1. Un ultimo aspetto, molto connesso ai precedenti: la chiesa, l’assemblea dei “chiamati”, che vive nel mondo pur non appartenendo al mondo in uno stato insuperabile di discepolato è un popolo di santi. Nell’accezione corrente il “santo” è un essere fuori dal mondo, una persona non comune, un marziano. Nel Nuovo Testamento, in particolare nell’opera paolina, la santità è lo stato di vita di ogni credente. Il termine aghios (=santo) è colui che partecipa della realtà messianica, cioè della redenzione, cioè colui che vive nel mondo con il cuore rivolto a Dio. “Santo” appare essere un altro nome del cristiano. Vediamo qualche esempio tratto dall’apertura di alcune delle lettere dell’apostolo.

Rm 1,6s.; «a tutti quelli che sono a Roma, amati da Dio e santi per chiamata, grazia a voi e pace da Dio, Padre nostro, e dal Signore Gesù Cristo!»; 1Cor 1,1s.: «alla Chiesa di Dio che è a Corinto, a coloro che sono stati santificati in Cristo Gesù, santi per chiamata, insieme a tutti quelli che in ogni luogo invocano il nome del Signore nostro Gesù Cristo, Signore nostro e loro»; 2Cor 1,1: «alla Chiesa di Dio che è a Corinto e a tutti i santi dell’intera Acaia»; Ef 1,1: «ai santi che sono a Èfeso credenti in Cristo Gesù».

La santità è la condizione generata dal battesimo, grazia ricevuta che dev’essere custodita. Scrive ancor S.Paolo: «Non sapete che gli ingiusti non erediteranno il regno di Dio? Non illudetevi: né immorali, né idolatri, né adùlteri, né depravati, né sodomiti, né ladri, né avari, né ubriaconi, né calunniatori, né rapinatori erediteranno il regno di Dio. E tali eravate alcuni di voi! Ma siete stati lavati, siete stati santificati, siete stati giustificati nel nome del Signore Gesù Cristo e nello Spirito del nostro Dio» (1Cor 6,9-11); Questa grazia della santità sospinge verso una pienezza ed è un ulteriore motivo di ringraziamento:. Scrive ancora l’Apostolo: «ringraziate con gioia il Padre che vi ha resi capaci di partecipare alla sorte dei santi nella luce. È lui che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del Figlio del suo amore per mezzo del quale abbiamo la redenzione, il perdono dei peccati (Col 1,12-14).

Allora è importante ricordare l’invito che suona: «Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale.Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto» (Rm 12,1s.).

 A conclusione di questa riflessione riporto un brano della lettera di Paolo a Tito, un brano che riassume in buona parte le cose dette fin qui: «Ma quando apparvero la bontà di Dio, salvatore nostro, e il suo amore per gli uomini, egli ci ha salvati, non per opere giuste da noi compiute, ma per la sua misericordia, con un’acqua che rigenera e rinnova nello Spirito Santo, che Dio ha effuso su di noi in abbondanza affinché, giustificati per la sua grazia, diventassimo, nella speranza, eredi della vita eterna» (3,4ss.).