Letture festive – 85. Scarti – 5a domenica di Pasqua – Anno A

Briciole dalla tavola. Vangelo per senza Dio

di Alberto Ganzerli

5a Domenica di Pasqua Anno A – 7 maggio 2023
Dagli Atti degli Apostoli – At 6,1-7
Dalla prima lettera di san Pietro apostolo – 1Pt 2,4-9
Dal Vangelo secondo Giovanni – Gv 14,1-12


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letture festive 85

Il tema degli scarti, di ciò che viene scartato e ignorato, trascurato e sottovalutato, subordinato e asservito, perché ritenuto non più utile e non sufficientemente prezioso o importante è un tema caro a papa Francesco, ma che ha anche profonde e molteplici radici bibliche. Nel libro degli Atti degli Apostoli il tema viene affrontato a partire dal punto di vista di una comunità cristiana di lingua greca e appartenente già al mondo ellenistico dei primi decenni del secondo secolo, una comunità che, però, intende salvaguardare il legame con le radici ebraiche del proprio cristianesimo. Come in ogni transizione linguistica e culturale, sociale e religiosa, generazionale e organizzativa, i processi non sono mai semplici né privi di tensioni. Il libro di Atti, nella forma della propria narrazione mitica di fondazione della chiesa, esemplifica questi processi e queste tensioni a partire dal problema delle vedove di lingua greca, che vengono trascurate – a favore di quelle di lingua ebraica – nei programmi di intervento assistenziale attivati dalle comunità cristiane. Nelle società e nelle culture antiche, per lo più fortemente patriarcali, la condizione di donne vedove, spesso ancora giovani, esponeva al rischio di essere considerate veri e propri scarti della società, destinate – in assenza di interventi di aiuto – a un destino di crescente povertà e marginalizzazione. La comunità cristiana descritta da Atti, intervenendo per assistere le vedove, cerca lodevolmente di contrastare questa diffusa cultura dello scarto e i meccanismi sociali di esclusione, discriminazione e marginalizzazione che ne derivano. Ma nello stesso tempo, rischia evidentemente di condividere e di riprodurre anche al proprio interno queste medesime logiche e meccanismi, sia perché discrimina le vedove di un proprio sottogruppo interno, sia perché sembra riservare e circoscrivere gli interventi di assistenza alle vedove che fanno parte del proprio gruppo e cioè della comunità cristiana. Tanto per i con Dio quanto per i senza Dio, infatti, i meccanismi e le logiche dello scarto, una volta accettati e legittimati, si diffondono in modo sottile ma pervasivo, finendo per coincidere, nei casi peggiori, con l’egoismo di chi – gruppi o individui – scarta tutto ciò e tutti coloro che non risultano immediatamente utili e funzionali a un proprio specifico interesse. Nei casi migliori, invece, i meccanismi e le logiche dello scarto si esprimono in graduatorie di valori e gerarchie di ruoli e funzioni, la cui ispirazione evangelica rimane quanto meno dubbia. La stessa deliberazione dei Dodici, che qui rappresentano la massima autorità ecclesiastica, sembra, infatti, sottilmente contaminata dalla mentalità dello scarto, nel momento in cui, dichiarando di non poter lasciare da parte – cioè di non poter scartare – il servizio alla Parola, questa deliberazione dei Dodici sembra suggerire che il servizio alle mense – cioè il dare da mangiare agli affamati – rappresenti un servizio di valore inferiore rispetto all’annuncio della Parola e alla preghiera. È quasi come se i Dodici, in quanto autorità ecclesiastica, si sentissero legittimati – o addirittura obbligati – dal loro status a scartare questo servizio delle mense dalla loro agenda di impegni, per potersi dedicare a impegni più elevati. Si tratta del resto di un orientamento replicato e amplificato dal fatto che il libro di Atti ci farà ritrovare Stefano e Filippo, due dei sette uomini dai nomi greci, scelti per dedicarsi al servizio delle mense, impegnati e dedicati, invece, al servizio della Parola.

Ma, come si afferma nella prima lettera di Pietro, il primo e fondamentale esempio di scarto e di persona scartata è lo stesso Signore Gesù Cristo, a partire dalla metafora dell’edificio e delle pietre necessarie per costruirlo. Si tratta di una metafora che combina almeno due passi veterotestamentari (che forse utilizzano l’immagine del tempio di Gerusalemme) tratti dal Salmo 117, dove si legge di una pietra scartata dai costruttori ma divenuta testata d’angolo, e dal capitolo 28 di Isaia, dove si parla di Dio che pone in Sion una pietra scelta, angolare, preziosa, saldamente fondata. L’autore della lettera presenta qui la comunità ecclesiale come una costruzione dalle caratteristiche molto particolari, anzitutto perché costituita da pietre che sono viventi e che la rendono una casa abitata dallo Spirito. Pietre viventi sono i destinatari della lettera, invitati ad avvicinarsi a quel Signore che viene descritto come pietra scelta e preziosa davanti a Dio. Se il Signore è pietra vivente lo è in quanto risorto, dopo essere stato pietra rifiutata e scartata nell’essere sottoposto a passione e morte. Ma se, da una parte, questo essere divenuto scarto viene superato da chi riconosce il Signore Gesù Cristo, in quanto risorto, come pietra vivente, dall’altra parte, l’essere scarto di Gesù rimane, al contrario, come sasso di inciampo per chi non obbedisce alla Parola e pietra di scandalo per chi non crede. Questo carattere potenziale e non ancora deciso di quel particolare scarto che è la figura di Gesù, cioè il suo poter diventare pietra vivente che costruisce o, al contrario, il suo poter diventare sasso che ostacola e fa inciampare, è precisamente ciò che si offre, tanto ai con Dio quanto ai senza Dio, come possibilità aperta, davanti alla quale prendere posizione e compiere una scelta. A decidere, infatti, se quello scarto che è la figura di Gesù si riveli per qualcuno, individuo o comunità, la pietra vivente di una costruzione o, al contrario, il sasso che fa inciampare non è affatto l’essere con Dio o senza Dio, ma piuttosto qualcosa d’altro che, tanto i con Dio quanto i senza Dio, sono invitati a scegliere liberamente. E questo qualcosa consiste nell’obbedienza alla Parola e nel credere che precisamente l’essere scartato di Gesù fino alla passione e morte possa diventare il fondamento vivente di una realtà alla quale tutti possono avvicinarsi, per divenire pietre viventi di una costruzione comune.

Il Gesù di Giovanni si presenta come colui che i suoi stessi discepoli, in vari modi, rischiano di trattare come uno scarto, nel senso di qualcuno che dovrebbe essere considerato come fine, mentre invece viene ridotto a strumento per arrivare a qualcosa d’altro, raggiunto il quale può essere appunto scartato, in quanto non più necessario. Il Gesù giovanneo, nei discorsi che precedono la propria passione e morte, invita i discepoli a non essere turbati e ad avere fede, perché lui stesso verrà a prenderli dopo aver preparato un posto per loro, per poter stare insieme nel medesimo luogo dove sta andando e del quale – conclude Gesù – i discepoli conoscono la via. Ma le domande e obiezioni che Tommaso prima e Filippo poi gli rivolgono rivelano come i suoi discepoli considerino lo stesso Gesù come qualcuno che può essere scartato. Tommaso – che per Giovanni rappresenta il nostro gemello nella fede – dà voce qui a quella incapacità di sapere dove si sia diretti e a quella ignoranza rispetto alla via da percorrere che possono caratterizzare anche il discepolo che abbia una lunga familiarità con Gesù. E questa confessione di ignoranza da parte di Tommaso, questo suo dichiarare di non sapere dove Gesù vada e di non conoscere la via, è proprio ciò che rende lo stesso Gesù in qualche modo inutile, superfluo e quindi scartabile. In questo caso, evidentemente, la lunga frequentazione con lui non ha consentito a Tommaso di sapere che Gesù stesso è la via e che solo chi conosce Gesù conoscerà anche il Padre, anzi, fin da ora lo conosce e lo ha visto. Tommaso, quindi, non riconoscendo in Gesù la via, la verità e la vita, finisce per scartarlo perché immagina di dover cercare altrove ciò che può rivelarsi via, verità e vita. Quanto poi a Filippo, la sua richiesta sembra orientata a servirsi inizialmente di Gesù, per poi successivamente scartarlo, una volta che la funzione attribuitagli da Filippo – mostrare ai discepoli il Padre – si sia esaurita. Quello che Filippo esprime nella sua richiesta a Gesù – mostraci il Padre e ci basta – sembrerebbe l’ammirevole desiderio di arrivare alle altezze spirituali della visione mistica e quindi ai vertici del cammino religioso. Ma in realtà un desiderio formulato in questi termini si risolve nella negazione e nel rifiuto della figura di Gesù come luogo dell’autentico incontro con il Padre. La convinzione che alimenta questo desiderio è che per arrivare al Padre sia necessario trascendere Gesù e andare oltre. Per questo chi insegue la realizzazione di questo desiderio finisce infine per scartare la stessa figura di Gesù, come non più utile allo scopo desiderato. La risposta di Gesù evidenzia l’immaturità spirituale dei suoi interlocutori, che pure hanno avuto l’opportunità di una lunga frequentazione con lui, e cerca di orientare la loro ricerca nella giusta direzione: quella che riconosce nella figura di Gesù la figura del Padre, nelle parole di Gesù le parole del Padre, nelle opere di Gesù le opere del Padre. Giovanni – attraverso le parole messe in bocca a Gesù – invita il lettore del suo Vangelo a riconoscere la sorgiva e sovrabbondante ricchezza spirituale evocata dal termine Padre che si può trovare nella figura stessa di Gesù e lo ammonisce a non trattare questa stessa figura come qualcosa che si potrebbe o dovrebbe scartare, alla ricerca di qualcosa o qualcuno che trascenderebbe questa stessa figura di Gesù. Si tratta di un invito e di un ammonimento rivolti dall’evangelista Giovanni tanto ai con Dio quanto ai  senza Dio, ma questa volta, sono proprio i lettori con Dio quelli più esposti al rischio di scartare Gesù, mentre cercano di trovare il Padre in un qualche altrove.

Riferimenti:

Dennis E. Smith – Joseph B. Tyson Acts (a cura di), Acts and Christian Beginnings. The Acts Seminar Report, Polebridge Press, Salem (Oregon) 2013.

Le dieci principali acquisizioni del Seminario di studio, dedicato al possibile utilizzo come fonte storica del libro neotestamentario di Atti degli Apostoli, promosso dal Westar Institute in California tra il 2000 e il 2011 (in traduzione dall’introduzione al volume sopra citato, che ne raccoglie gli atti) sono le seguenti:

1. L’autore degli Atti è un esperto narratore/teologo che ha scritto un racconto con finalità decisamente apologetica [in particolare nei confronti della versione del cristianesimo proposta da Marcione e rispetto alla interpretazione marcionita di Paolo e delle sue lettere]
2. Il libro degli Atti è stato composto nei primi decenni del II secolo.
3. L’autore di Atti ha usato le lettere di Paolo come una delle sue fonti.
4. Ad eccezione delle lettere di Paolo, nessun’altra fonte storica attendibile può essere definitivamente identificata per il libro di Atti. Atti utilizza invece una varietà di “fonti” come Giuseppe Flavio, Omero, Virgilio e la versione biblica (veterotestamentaria) dei Settanta. Questi materiali, tuttavia, forniscono unicamente materiale di base o modelli letterari per il racconto di Atti. Non costituiscono di per sé delle fonti storicamente utilizzabili per la ricostruzione delle origini cristiane.
5. Gerusalemme non è stata il luogo di nascita del cristianesimo, contrariamente a quanto narrato in Atti, nei capitoli dall’1 al 7.
6. Atti non può essere considerata una fonte indipendente per la vita e la missione di Paolo. Si può invece affermare che l’uso delle lettere di Paolo come fonte è sufficiente per spiegare tutti i dettagli della vita e dell’itinerario di Paolo in Atti.
7. Atti costruisce il proprio racconto sul modello della letteratura epica e su modelli letterari con caratteristiche analoghe.
8. L’autore di Atti ha creato i nomi dei personaggi come strumenti di carattere narrativo.
9. Atti costruisce i propri racconti per raggiungere obiettivi di tipo ideologico [e teologico]
10. Atti non può essere considerato un resoconto attendibile sul piano storico, a meno che non si dimostri il contrario. L’onere della prova va infatti invertito: Atti deve essere considerato non storico salvo prova contraria.

Questo è l’esito complessivo dei risultati sopra indicati. Mentre Atti è altamente discutibile come risorsa per il cristianesimo del primo secolo, è una risorsa significativa per comprendere i problemi e la forma del cristianesimo del suo proprio tempo, cioè dei primi decenni del secondo secolo.
In conclusione Atti – mentre, come prodotto del secondo secolo, è una risorsa primaria per comprendere il cristianesimo di quel periodo anche dal punto di vista storico – va considerato complessivamente come un mito delle origini cristiane.