Letture festive – 92. Cadute – 12a domenica del Tempo ordinario – Anno A

Briciole dalla tavola. Vangelo per senza Dio

di Alberto Ganzerli

12a domenica del Tempo ordinario – Anno A – 25 giugno 2023
Dal libro del profeta Geremìa – ​Ger 20,10-13
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani – Rm 5,12-15
Dal Vangelo secondo Matteo – Mt 10,26-33


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letture festive 92

Questo brano del profeta Geremia, nel suo presentarsi in forma autobiografica, esprime bene la condizione interiore di chi si trova minacciato e a rischio di cadute. Sono situazioni nelle quali tutti noi, con Dio o senza Dio, facciamo esperienza della nostra debolezza e fragilità, sentendoci frastornati, come il profeta Geremia, da una pluralità di voci che avvertiamo dentro e fuori di noi e rispetto alle quali fatichiamo a operare un discernimento. Ma queste voci, dentro e fuori di noi, anche se molteplici e magari contraddittorie, vanno riconosciute e ascoltate, anche se poi è necessario distinguere e valutare, per poi scegliere ciò che merita di essere preso in considerazione ed eventualmente seguito, lasciando da parte ciò che, invece, ci condurrebbe in una direzione sbagliata. A volte è difficile persino capire chi sta parlando: amici o nemici? A volte è difficile interpretare il modo in cui queste voci ci invitano a leggere la nostra esperienza: messa alla prova o liberazione? Sperimentare la caduta pone tutti noi, con Dio o senza Dio, in una posizione strana, difficile e ambivalente. Ci si trova così vicini al suolo da poter fare un’esperienza autentica di umiltà, che ci invita a riconoscere la fragilità del nostro essere terreni e, come tali, esposti a cadute. Le cadute, infatti, non fanno che offrici un assaggio della nostra radicale caducità, anticipando un poco di quel tornare alla terra che segna la inevitabile conclusione di ogni cammino umano. Ma alla sapienza sofferta nella quale le cadute possono introdurci, noi, possiamo scegliere, invece, di preferire la rivalsa e la vendetta. Anche queste, infatti, sono voci che, come avviene per il profeta Geremia, ci tentano quando cadiamo, perché suggeriscono di infliggere a chi ci ha fatto cadere la medesima dolorosa esperienza. Sperimentare la caduta ci tocca sul vivo, fisico o spirituale, e spesso in profondità, per cui diventa inevitabile, per chi frequenta le Scritture bibliche, porsi delle domande. A queste domande una qualche risposta la si deve dare, se non altro decidendo come reagire alla caduta e come far entrare la propria fede biblica di con Dio o di senza Dio nella risposta – sapiente o vendicativa – che possiamo e vogliamo dare all’esperienza della nostra caduta.

In questo brano della lettera ai Romani possiamo trovare la complessa interpretazione che Paolo propone riguardo alla originaria caduta che, in quanto peccato, ha prodotto morte, riguardo alla legge che evidenzia questa condizione umana di caducità etica prodotta dal peccato, riguardo alla grazia che non si pone sullo stesso piano della caduta e del peccato, perché in quanto dono gratuito collegato alla figura di Gesù Cristo supera la caduta in modo sovrabbondante. Il processo innescato dalla caduta ricorda in qualche modo il decadere entropico di ogni realtà che passa dall’ordine al disordine, secondo una legge che evidenzia il decadere e il disgregarsi mortale di molte realtà avvelenate da ciò che viene chiamato peccato o disordine. Ma a tutto questo si può e si deve opporre un movimento di costruzione contrario, fatto di vita (una realtà controintuitiva in un universo entropico) e di grazia. Si potrebbe, infatti, vedere un’analogia tra questa complessa interpretazione paolina e l’esperienza che con Dio e senza Dio possono fare della propria vita come di qualcosa che si oppone alla morte e a ciò che ad essa si collega, cioè quel processo di degradazione verso il disordine che sembra governare molti aspetti della realtà. La caduta originaria di cui parla Paolo, infatti, determina conseguenze negative che vengono universalizzate fino a riguardare tutti gli umani. La Legge, la Legge mosaica, è, nella prospettiva paolina, qualcosa che semplicemente enuncia ed evidenzia questo essere divenuto universale delle conseguenze della caduta. La grazia, invece, sempre nella prospettiva di Paolo, è qualcosa che si oppone al movimento della caduta e alle sue conseguenze, ma che, in questo opporsi, rivela una forza maggiore di quella innescata dalla caduta. Come fanno notare i biologi, all’interno dei processi fisici della realtà, l’evoluzione delle forme di vita si produce in un modo che si potrebbe definire controintuitivo rispetto al movimento entropico verso il disordine, proprio perché, per il prodursi di nuove e più complesse forme di vita è richiesto un ordine maggiore rispetto a quello di partenza. Da questo punto di vista si può dire che la grazia e la vita non sono come la caduta e come la morte, perché in realtà sono più forti. Con Dio e senza Dio sono invitati perciò, come i cristiani di Roma ai quali Paolo scrive, a cogliere, in ogni esperienza di caduta e di morte, quale sia la possibilità di una grazia maggiore e di una vita più forte.

La caducità dei viventi, il loro essere soggetti, prima o poi, a quella caduta ultima che è la morte, accomuna in questo passo evangelico i passeri e gli umani, gli umani con Dio e gli umani senza Dio. Anche se è molto diverso il valore attribuito dal Gesù di Matteo agli umani e ai passeri, si tratta in entrambi i casi di animali – umani e non umani – i quali sono dei viventi e perciò esseri intrinsecamente caduchi. Gesù intende rassicurare gli apostoli sottolineando come tutti i loro capelli siano contati, ma si tratta di un modo con il quale, insieme al valore prezioso della vita umana si richiama anche il limite posto dalla caducità intrinseca di tutto ciò che è vivo. I capelli, infatti, così come gli anni, possono essere contati perché sono in numero limitato e per questo cadono o finiscono. Il problema evidenziato dalla pagina evangelica, però, non è quello della caducità e della finitezza, bensì quello della paura. Se infatti la caducità e la finitezza vanno riconosciute e accettate, quella da combattere e da sconfiggere è invece la paura, in qualche caso la paura nei confronti degli altri. Si può trattare della paura che gli altri svelino verità che vorremmo tenere nascoste, o anche della paura che possano mettere a rischio la nostra integrità fisica. La paura è infatti il veleno che può introdursi nelle nostre esistenze, necessariamente caduche e segnate dalla finitezza, un veleno che può intaccare quella che il Gesù di Matteo chiama anima e che insieme al corpo esprime l’interezza dell’essere umano. Ma ci si deve guardare anche dalla paura di cadere a terra come passeri perché ci si ritiene privi di valore. Il Gesù di Matteo sottolinea come persino i passeri, che valgono solo due soldi, siano inseriti in una realtà più grande di loro, che in certa misura tutela e protegge la loro debolezza e caducità. Per questo e a maggior ragione, anche gli umani, ai quali il Gesù di Matteo riconosce un valore molto superiore, possono sentirsi inseriti in una realtà più grande di loro, che in certa misura tutela e protegge la loro debolezza e caducità. Nel brano di Matteo vi è, tuttavia, un paradossale invito ad avere paura, e lo troviamo riferito a colui che può mandare in rovina l’intero essere umano. Oltre alla figura diabolica che ricorre in molte pagine bibliche, potremmo vedere in questo riferimento precisamente ciascuno di noi, quando rischia, con la propria condotta, di mandare in rovina anzitutto e precisamente sé stesso. Ma per sfuggire a questo tragico destino di autodistruzione, noi umani abbiamo sempre la possibilità di inserirci in una relazione di riconoscimento reciproco con la figura di Gesù. Per tutti noi, con Dio o senza Dio, infatti, la paura che la nostra vita si ritrovi non solo caduca ma mandata in rovina può essere efficacemente superata. Ciò può avvenire, da una parte, ogni volta in cui ci riconosciamo come autenticamente ispirati dalla figura di Gesù. Ma ciò può avvenire, dall’altra parte, ogni volta in cui la figura e il messaggio di Gesù possano essere riconosciuti in qualche modo e da altri come espressi e vissuti con autenticità nella nostra esistenza di con Dio e di senza Dio, un’esistenza credente anche se soggetta a cadute.