Letture festive – 140. Ignoranza – 3a domenica di Pasqua – Anno B

Briciole dalla tavola. Vangelo per senza Dio

di Alberto Ganzerli

3a domenica di Pasqua – Anno B – 14 aprile 2024
Dagli Atti degli Apostoli – At 3,13-15.17-19
Dalla prima lettera di san Giovanni apostolo – 1Gv 2,1-5a
Dal Vangelo secondo Luca – Lc 24,35-48


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letture festive 140

L’ignoranza, in questo testo di Atti degli Apostoli, viene indicata come movente e insieme come attenuante per l’agire che Pietro rimprovera al popolo ebraico, al quale si sta rivolgendo. Il discorso di Pietro culmina nell’annuncio della resurrezione dai morti di Gesù, ma gli uditori di queste sue parole sono prima costretti ad ascoltare un durissimo e triplice atto di accusa rivolto direttamente a loro: voi avete consegnato e rinnegato, voi avete chiesto che vi fosse graziato un assassino, voi avete ucciso l’autore della vita. A noi lettori odierni, con Dio o senza Dio, il carattere diretto e accusatorio di queste parole – appena attenuate dalla scusa dell’ignoranza – può sembrare poco adatto per indurre alla fede e alla conversione. E tuttavia, una volta superata l’impressione iniziale, una lettura attenta del testo può consentire anche a noi di cogliere meglio ragioni e obiettivi dello scrittore neotestamentario. In generale l’autore di Atti, nella sua opera, si propone di contrastare una interpretazione di Paolo e del cristianesimo in radicale discontinuità con le Scritture ebraiche, ma anche, sul fronte opposto, intende evitare un’opposizione troppo netta nei confronti della cultura greco-ellenistica e del potere politico romano-imperiale del proprio tempo e del proprio contesto sociale. Per questo il discorso di Pietro, da una parte, accusa il popolo ebraico per la condanna di Gesù, discolpando così il procuratore romano Pilato ma, dall’altra, offre a questo medesimo popolo una possibilità di conversione e di riconoscimento di una continuità basata sul fatto che il Dio dei suoi Padri è il medesimo che ha resuscitato Gesù dai morti. Quasi a suggerire, anche a noi lettori odierni, che l’evento cristiano, quale che sia la condizione di con Dio o di senza Dio e quale che sia il punto di vista dal quale ci si pone, consente riletture e interpretazioni che possono condurre, in un modo o nell’altro, a riconoscere un qualche tipo di resurrezione e una qualche possibilità di conversione e di cambiamento di vita. Rimane il fatto che questa versatilità delle narrazioni bibliche e questa plasticità del materiale antico e neo-testamentario, espone le Scritture a fraintendimenti e a letture strumentali, soprattutto se si aggiunge come attenuante l’ignoranza dei destinatari, lettori e interpreti, o addirittura dei personaggi stessi del racconto, come avviene nel caso di Pietro precisamente in questo brano. Se infatti consideriamo, in questo testo di Atti, la triplice accusa rivolta da Pietro al popolo ebraico di aver consegnato e rinnegato Gesù, aver chiesto che fosse graziato un assassino e aver fatto uccidere l’autore della vita, potremmo rileggere il testo in parallelo con l’episodio del triplice rinnegamento di Pietro narrato in Luca e negli altri vangeli. Tale parallelismo rivelerebbe una triplice verità a ogni lettore con Dio o senza Dio che fosse tentato, come sembra fare il Pietro di Atti, di accusare e giudicare gli altri da una posizione di superiorità morale. Questa triplice verità consiste nel riconoscere – in Atti e nel Vangelo di Luca – la sostanziale identità e continuità tra il Pietro di Atti che accusa altri, quasi fosse innocente e concedendo solo l’attenuante dell’ignoranza, e il Pietro che il Vangelo narra essersi comportato come gli altri che accusa, anzi peggio, perché nel racconto evangelico del rinnegamento l’ignoranza viene addirittura rivendicata da Pietro per tre volte: non lo conosco, non sono uno di loro, non so quello che dici. Se quindi rileggiamo il  vangelo di Luca alla luce di Atti risulta evidente questa triplice verità: lo stesso Pietro che in Atti si atteggia ad accusatore è colui che – per ignoranza o altro – secondo il vangelo rinnega e indirettamente consegna Gesù; lo stesso Pietro che in Atti si atteggia ad accusatore è secondo il vangelo colui che – per ignoranza o altro – negando di conoscere Gesù cerca e trova grazia per sé stesso; lo stesso Pietro che in Atti si atteggia ad accusatore è secondo il vangelo colui che – per ignoranza o altro – non interviene per evitare che sia ucciso l’autore della vita. Se questo è il Pietro di Atti e del vangelo, noi lettori odierni, con Dio o senza Dio, siamo invitati, da questa pagina di Atti e da quella evangelica che le sta in parallelo, a riconoscere questa triplice verità, a convertirci cambiando vita e rinunciando ad accusare altri, dal momento che – per ignoranza o altro – anche noi non siamo migliori di Pietro né diversi da lui.

L’autore della prima lettera di Giovanni parla di un’ignoranza che rende bugiardi e incapaci di accogliere e custodire in sé stessi la verità. La verità che in questo caso si ignora è che non è possibile conoscere Dio se non si osservano i comandamenti. Ciò può risultare strano per noi lettori odierni con Dio o senza Dio di questa pagina neotestamentaria, abituati a distinguere chiaramente ciò che possiamo conoscere e sapere rispetto al nostro agire concreto e al nostro comportamento, eticamente buono o cattivo. Per noi, infatti, è possibile conoscere la verità ma comportarci nei confronti degli altri in modo eticamente cattivo, così come è possibile conoscere la verità, ma mentire volontariamente ad altri, comportandoci cioè da bugiardi. Conoscenza, sapere e verità si collegano per noi al guardare e all’osservare, allo scrutare la realtà per coglierla attraverso un approccio che rimane in quale modo astratto, anche quando si propone di penetrarne e coglierne l’essenza. Mentre l’osservare i comandamenti e l’agire in modo etico, il praticare la virtù e il comportarsi nei confronti degli altri in modo buono o cattivo, riguardano per noi la concretezza dell’agire umano con le sue conseguenze tangibili e la moralità o immoralità delle pratiche con i rispetti effetti positivi o negativi. Questa netta distinzione o addirittura separazione tra conoscenza e pratica, tra sapere e etica, sembra invece, per l’autore di questo testo, non essere possibile, al punto che chi lo pensasse – e perciò anche noi, con Dio o senza Dio – si troverebbe in una condizione di ignoranza. Al di là delle differenti concezioni antropologiche sul piano cognitive ed etico, se ne potrebbero comunque ricavare un paio di indicazioni preziose sulla rilevante influenza reciproca che si esercita tra questi ambiti, anche quando rimangono distinti. La prima indicazione proveniente dal testo consiste nell’invito a fare i conti anche personalmente con ciò che nella bibbia viene chiamato peccato, qualunque cosa possa significare per con Dio o per senza Dio. La seconda indicazione riguarda – per chiunque, con Dio o senza Dio, si proponga di essere credente in modo sano ed evangelico – l’impossibilità di una divaricazione o contraddizione tra conoscenza del vero e pratica del bene, o per lo meno, l’impossibilità di una divaricazione o contraddizione tra conoscenza del vero e pratica del bene che sia troppo a lungo ignorata o negata o che arrivi a consolidarsi prima che la si possa riconoscere e superare.

Nel vangelo di Luca, l’iniziale ignoranza del risorto dei due discepoli di Èmmaus si ripropone anche per gli altri discepoli rimasti a Gerusalemme, con dinamiche che possono valere anche oggi per noi, con Dio o senza Dio. Se in Luca i due di Èmmaus erano stati aiutati a superare la loro ignoranza grazie allo straniero sconosciuto che aveva condiviso con loro il cammino parlando delle Scritture e infine era stato riconosciuto nel gesto dello spezzare il pane, gli altri discepoli rimasti a Gerusalemme sembrano avere maggiori difficoltà. Non basta, infatti, che Gesù in persona stia in mezzo a loro, parli, mostri mani e piedi, li inviti a toccarlo e addirittura chieda cibo per mostrare, mangiando, di non essere uno spirito disincarnato. L’unico risultato che si ottiene in questo modo è quello di passare dalla paura di chi, sconvolto, ha l’impressione di vedere uno spirito alla strana e stupefatta gioia di chi però ancora non crede. Anche qui il punto di svolta si trova solo in una nuova apertura della mente alla comprensione e interpretazione delle Scritture antiche. Solo chi, con Dio o senza Dio, arriva a poter reinterpretare i testi veterotestamentari riconoscendovi le connessioni con la figura del crocefisso risorto, può incontrare davvero e riconoscere quest’ultimo, il Risorto, nella sua nuova forma. Si tratta della forma, misteriosa e inafferrabile, di un presente vivente che, ponendosi in una continuità discontinua con il Gesù narrato nei vangeli fino alla sua morte di croce, si presenta come Risorto ai testimoni. E questo suo presentarsi ai testimoni non è per la loro gratificazione personale ma ha un obiettivo missionario, quello che nel nome del Gesù morto e risorto siano predicati – cominciando sì da Gerusalemme ma per arrivare a tutti i popoli – conversione e perdono. E se i con Dio possono sentirsi più facilmente dalla parte degli annunciatori rimasti a Gerusalemme e colti prima dal timore e poi da una gioia che fatica ancora a trovare la strada del credere, i senza Dio possono forse riconoscere sé stessi tra quei popoli ai quali è destinata la predicazione di una morte superata dalla vita e di una vita convertita e perdonata. Al centro dell’evento che è, da una parte, di annuncio e testimonianza e, dall’altra, di conversione e perdono, sta l’incontro con un Gesù risorto al quale con Dio e senza Dio – superati timori e gioie inconcludenti – possono accedere solo grazie a una fede alimentata dalla continua reinterpretazione delle Scritture.