Paolo, negli areopaghi del nostro tempo
di Antonio Nepi
Confrontarsi con la personalità complessa e poliedrica di Paolo e riassumerla è alquanto arduo, come già confessavano Clemente Romano, Ignazio di Antiochia e Policarpo e, non da ultimo, Pierpaolo Pasolini. Le fonti a nostra disposizione sono le sue lettere, gli Atti degli Apostoli ed altre testimonianze sparse, che ci narrano come, inizialmente persecutore accanito dei cristiani, sia restato folgorato sulla via di Damasco – come ben immortalato per due volte dal Caravaggio –, scommettendo per sempre la sua vita sul Crocifisso, per seguirlo senza ripensamenti ed esitazioni. Visse, incarnò e respirò il Cristo, per lui sofferse e si offrì, in una faticosa ed appassionata evangelizzazione, non scevra di ostacoli e sospetti.
Attingendo a J. Jeremias, val la pena partire dalla svolta epocale di Damasco che, più che la conversione, ha segnato la conferma della vocazione di Paolo. Tutta la sua teologia trova le sue radici in questo evento, che si può compendiare in un ideale decalogo paolino:
- A Damasco Paolo, l’antico Saulo (= richiesto/desiderato), si riscopre «servo», addirittura «proprietà personale» di Gesù Salvatore, alla stregua di Abramo, Mosè e Geremia. L’incontro è con il Signore vivo e presente nella sua Chiesa, che lui sente come Corpo del Risorto (At 9,4: 1Cor 12,27). Fondamentale nella sua vocazione è l’incontro maturato attraverso la mediazione ecclesiale, rappresentata da testimoni come Anania e dagli altri apostoli, le «colonne» della Chiesa. Egli stesso, nel suo ministero. agirà con veemenza profetica, coniugando sapientemente carisma ed istituzionalità, agli antipodi di ogni fanatismo o pretese di parte.
- Centrale in Paolo è la scoperta che Dio agisce in Gesù Cristo, e tutto quello che attribuisce al Padre lo attribuisce al Figlio, in perfetta sintonia con lo Spirito Santo. Colui che agli occhi di tutti era morto come maledetto, appeso e dannato sulla croce secondo la Legge, è in realtà Risorto e Vivente, apportatore di Salvezza (Gal 3,13). Proprio dal suo incontro personale con Cristo, si fa strada nel cuore di Paolo una posizione radicale contro ogni “autogiustificazione” che si basa sulla osservanza della Legge giudaica, intesa come “fare” dell’uomo a proprio vantaggio e rivendicazione. Quel che era stato vantaggioso per il fariseo Saulo diventa privo di valore per il nuovo Paolo a confronto del vantaggio straordinario della conoscenza di Cristo (Fil 3,7). Se prima l’attenzione di Saulo si concentrava sullo “sforzo” di risultare irreprensibile dinanzi a Dio e agli uomini, ora Paolo pone al centro il Cristo, «suo Signore» (Fil 3.6-8), e la sua grazia interiore trasformante.
- A Damasco Paolo diventa consapevole dell’onnipotenza di questa kharis di Dio che, da zelante fariseo anticristiano, lo trasforma in ambasciatore di Cristo (2Cor 5,20). Proprio perché le ha sperimentate nella propria esistenza, Paolo ribadisce la sovranità assoluta di Dio e la sua misericordia (Rm 9,18); lui, persecutore al di fuori di ogni possibilità, scopre Dio che lo aveva scelto fin dal seno materno (Gal 1,15), per poi «misericordizzarlo» (1Tm 1,13); giustamente, più che di conversione, egli ama parlare della scoperta della sua vocazione.
- Sulla “strada” di Damasco, che rievoca il primo nome del Cristianesimo come “cammino/via” (hodos) si origina la profonda coscienza e met-odo che ha Paolo del suo essere apostolo, araldo del Vangelo, afferrato da Cristo. Egli vive il suo impegno missionario con l’urgenza e la passione di adempiere un disegno divino, non sostituendosi mai al Cristo, ma cercando di imitarlo e rinviando a Lui tutti i credenti, come vero «amico dello sposo» (2Cor 11,1), alla stregua di un Giovanni Battista successivo, padre e nutrice nell’affetto verso le comunità fondate, agricoltore, architetto e liturgo rispettivamente del campo e del tempio che è il popolo di Dio, senza usurparne la paternità e la signoria esclusiva (1Cor 3). In ciò, pur non essendo mai chiamato episkopos, egli resta un affascinante ed ineludibile paradigma per tutti i vescovi, presbiteri, diaconi, evangelizzatori, uomini e donne unti dallo Spirito.
- La luce di Damasco toglie le squame dagli occhi del fiero fariseo, per aprirlo alla dimensione universale della salvezza accordata a tutta l’umanità; forse è lui il cieco nato di Gv 9! L’Apostolo delle genti comprende che l’elezione di Israele non è un privilegio esclusivo, ma finalizzato nel corso della storia a completarsi nella ricapitolazione dell’universo in Cristo, che il Padre vuole il cuore del mondo. È per questo che, anche nella sua vicenda personale, non oppone mai il giudaismo al cristianesimo, vedendoli nella loro mirabile e – fino ad allora inaudita – continuità.
- Proprio a Damasco l’accanito persecutore comincia a conoscere la persecuzione da parte dei suoi correligionari ed il sospetto dei cristiani. Come gli altri 12 apostoli, egli si sente testimone speciale della risurrezione di Gesù (1Cor 9,1), «apostolo non per volontà di uomini, ma per volontà di Dio» (Gal 1,1). Ma Paolo dovrà lottare fino alla fine contro vari detrattori, ostacoli, malattie e prigionie, con quella misteriosa «spina nella carne» che, con ogni probabilità, sembra essere il rifiuto del Cristo da parte del giudaismo, per cui però l’apostolo prevede una misteriosa strada verso la salvezza (Rm 11,26).
- Sulla via Paolo traguarda la sua speranza, perché vede risorto Colui che credeva morto e maledetto sulla croce; egli vede la gloria di Dio sul volto di Cristo (2Cor 4,6), che diviene pegno del suo entusiasmo evangelizzatore nel narrare la fede «scandalo per i giudei e follia per i pagani» (1Cor 1,23). Personalmente non ha paura o vergogna di ricordare il suo passato per ringraziare, visceralmente come uomo eucaristico, ciò che Dio ha operato in lui. Egli – e per lui ogni cristiano – è una creatura che vive e respira il Cristo, tende alle sue fattezze ed appartiene indubitabilmente al futuro di Dio (2Cor 5,17).
- Il cuore della teologia di Paolo, chiamato «apostolo della verità» (Ireneo di Lione) è fondamentalmente cristocentrico e trinitario. Per Paolo la croce è l’epifania dell’amore di Dio, la rivelazione del Padre nel dono di Cristo (Rm 5,8; 2Cor 4,6), correlativa all’“ira” di Dio che è l’altra faccia del suo amore, intesa come presa di distanza da ogni alienazione, perversione, tentativi di rendersi giusti a prescindere da Gesù Cristo, tutte situazioni negative che Paolo ingloba nel termine, spesso personificato, «Peccato» (Rm 1,18–3,20). Il credente che crede, cioè che si affida convinto e scommette su Cristo, viene liberato dall’ira, dal peccato e dall’impotenza salvifica della legge mosaica, che aiuta a smascherare le infedeltà, ma non le guarisce. Aderendo a Cristo, il credente è chiamato ad una obbedienza etica, il cui propulsore è lo Spirito Santo e che Paolo riassume nella legge dell’amore (Gal 5,14; Rm 13,9).
- Nel compulsare attentamente e con amore le lettere di Paolo, ogni lettore potrà apprezzare e gustare i diversi registri teologici in cui declina l’agire della «giustizia di Dio» intesa nella sua accezione biblica come sinonimo di «salvezza». A coloro che rispondono con la fede in Cristo Gesù, Dio garantisce gratuitamente una nuova relazione variamente declinata – come uno spartito attraverso vari strumenti musicali – in vari sinonimi soteriologici, quali giustificazione, redenzione, adozione a figli, riconciliazione, santificazione, espiazione e sacrificio (olocausto) del Cristo, come offerta della sua persona e della sua vita (cfr. 1Cor 1,21; Rm 3,24; Ef 1,7). Si tratta di una riformulazione dell’esperienza dell’esodo, un passaggio dalla schiavitù della Legge e dal Peccato come Faraone, al servizio libero nello Spirito, sotto la Signoria di Gesù (Gal 5,1).
- Paolo non ha inventato il cristianesimo, perché il fondatore resta Gesù! Tuttavia senza di lui non sarebbe pensabile la teologia cristiana, né la storia stessa del cristianesimo, che avrebbe rischiato di ridursi ad una delle tante sette giudaiche. Basterebbe pensare all’influsso esercitato dalla lettera ai Romani sulla storia spirituale dell’Occidente e sul “grande codice” alla base della letteratura e dell’arte iconografica occidentale ed orientale. Non va dimenticato che San Paolo – chiamato Bûlus da esegeti coranici – nell’Islam è venerato e stimato, ritenuto portatore di una vocazione profetica grandemente considerata a suo tempo da Maometto e da tutti i fedeli musulmani.
Questo anno giubilare sia vissuto nel programma di Paolo espresso nel duplice motto «per me vivere è Cristo» (Fil 1,21) ed «avere i suoi pensieri e sensibilità» (Fil 3,15). I presbiteri e i catechisti, cui è affidato il dono e compito di spezzare con discernimento la Parola di Dio, vanno incoraggiati a valorizzare la seconda lettura della liturgia domenicale, spesso affidata alla voce di Paolo, per acclarare testi spesso difficili, come già avvisava l’apostolo Pietro (2Pt 3,15) e come insiste papa Francesco. L’anno giubilare è un anno di grazia, un kairós che interpella ognuno di noi, nei rispettivi carismi, a riprendere slancio della missione di annunciare, narrare la fede. Siamo sollecitati, come chicco di grano e lievito di verità, di pace e perdono, nascosti nello spazio del grande areopago globale della nostra società, a dare visibilità, credibilità e robustezza ad ogni forma di impegno presente nel contesto ecclesiale e a manifestare la gioia di essere dalla parte di Cristo, «afferrati da lui». Non possiamo non pensare alla prossima giornata mondiale della gioventù che assembrerà giovani di ogni latitudine del mondo per comunicare a tutti la parresia cristiana, la certezza incrollabile che «avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni» (At 1,8).