E’ il desiderio che ci libera dalla Legge o è la Legge che ci apre al desiderio?

A proposito di un articolo di Massimo Recalcati

di Gianpaolo Anderlini


L’articolo di Massimo Recalcati al quale si fa riferimento è apparso su Repubblica il 3 aprile 2021 lo potete leggere qui.

La risposta di Massimo Recalcati alle critiche che gli sono state mosse da più parti la potete leggere qui

Mi succede ultimamente (troppo) spesso di leggere pensieri e riflessioni che ripropongono, sotto diversa veste e in qualche modo camuffati o dissimulati, quegli stessi pensieri e quelle stesse riflessioni che, da i tempi antichi ad un passato anche recente, hanno nutrito l’antigiudaismo cristiano e aperto le porte all’antisemitismo.

            Quello che mi sorprende non è tanto il fatto che intellettuali di varia provenienza cedano al fascino di un pensiero che ci attraversa da duemila anni e che ci ha plasmato, e che lo ripropongano con nuove ed accattivanti teorie interpretative; è piuttosto il fatto che nessuno, ebreo o cristiano, si alzi e, ammaestrato dal Qohelet e dal retaggio di un passato di dolore, dica: “Ma questa cosa già l’ho sentita e so da dove viene e dove può portare!”

            Mi è successo di nuovo oggi 3 aprile, Sabato santo e quindi giorno di silenzio e di riflessione, nel leggere un articolo di Massimo Recalcati, pubblicato nelle pagine culturali del quotidiano “la  Repubblica”, dal titolo che non lascia spazio a dubbi: “Pasqua, la vita oltre la Legge”. Nell’occhiello così si precisa: “Una storia di speranza”, e nel catenaccio, con un peso maggiore dato alle parole: “Con la resurrezione Gesù ci mostra che la forza, il talento, il desiderio sono più forti dei rigidi precetti. Come confermano Paolo di Tarso e Agostino”. Si sa che occhiello e catenaccio sono (quasi sempre) redazionali e che, quindi, non esprimono in senso pieno il pensiero dell’Autore, di conseguenza, per non essere sviati dalla triade impropria: “la forza, il talento, il desiderio”, è bene riflettere sul contenuto dell’articolo che comunque invita a riscoprire in noi e per noi l’esserci devastante della resurrezione.

L’idea di fondo è la seguente.

            C’è una Legge che comprime l’uomo e che si fa costrizione morale; una Legge vuota perché non si volge alla vita ma cerca solo di contenere con la logica masochistica del sacrificio e della proibizione tutto ciò che dovrebbe portare l’uomo ad essere se stesso, pienamente e per sempre. Quella che l’Autore definisce “nozione deuteronomica della Legge” (e sottolineo deuteronomica), è la Torah, vale a dire: il cuore e l’essenza dell’ebraismo.

            A questa Legge si contrappone una nuova Legge, “la Legge della buona novella”, che sovverte il senso e la direzione di quella Legge/Torah che sembra non sufficiente e non adeguata perché priva della grazia, come dice Paolo di Tarso, ma che è (non lo si dimentichi) dono di Dio. In quanto tale, solo il Figlio di Dio (e, quindi, Gesù non in quanto uomo ma in quanto Dio) può dare, partendo dalla risurrezione che libera la vita, una Legge nuova e altra, definitiva perché (Nietzsche docet) extramorale.

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            In cosa consiste il cambio di paradigma?

            Diciamolo con le parole dell’Autore: “Ebbene Gesù ha sovvertito questo metro di giudizio con decisione: la vita giusta è la vita viva, è la vita che desidera la vita e che sa generare frutti”.

            In tutto ciò si nasconde l’idea che Gesù sia il superamento della Legge/Torah, come insegnerebbe il detto riportato da Marco: “Il sabato è fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato” (Mc 2,24); di conseguenza ne deriva che ciò che da Gesù nasce (movimento gesuano postpasquale) è il verus Israel che prende il posto di quell’Israel che è rimasto legato alla costrizione della Legge, alla Legge senza grazia.

            Ma anche se così fosse, in cosa consiste per l’Autore la grande e sconvolgente novità introdotta da Gesù e dalla sua resurrezione?

            La resurrezione ci insegna che “la vita è più viva della morte, e ciò consente di uscire dalle tenebre del sepolcro e ricominciare”.

            Ricominciare da dove?

            La Legge nuova, quella della buona novella, “non è in antagonismo alla vita perché, nella sua forma ultima, coincide con il desiderio del soggetto, con la sua vocazione e coi suoi talenti. In questo senso la vita viva è vita animata dalla forza del desiderio, antagonista alla Legge del sacrificio e capace di fare del desiderio la propria Legge”.

            E, ancora: “La promessa di Gesù è l’esistenza di una Legge libera dal peso della Legge. E’ la promessa che rivela che quella della morte non è la sola Legge poiché esiste un’altra Legge, quella del desiderio, che libera la vita dalla paura della morte”.

            Gesù, dunque, è il primo lacaniano  della storia e ci libera dalla castrazione del sacrificio per aprirci alla mancanza e al conseguente desiderio.

            La mancanza di cosa?

            Di se stessi, perché il desiderio altro non è che il divenire ciò che già siamo.

            Della vita per tornare a vivere davvero senza cedere all’obbligo che ci rende incapaci di uscire dal non fare e dalla costrizione definita e detereminata dall’esterno e non dalla nostra propensione interiore.

            Ma per portare questo nel mondo non c’era bisogno di Gesù, sarebbe bastato il richiamo che Dio gli ha rivolto ad Abramo: “Va’ a te stesso” (Gen 12,1). Tutto il resto, infatti, nella Bibbia ebraica (e, se si vuole, anche in quella cristiana) non è che un commento perché l’andare a se stessi non è altro che un andare a Dio e, in ultima analisi, un fare del desiderio di Dio (in senso soggettivo) il nostro desiderio.

            E non è certo la resurrezione una promessa d’eternità, è altro se “la morte non è, non può essere, l’ultima parola sulla vita”. La resurrezione ci indica un cammino, non ci fa dei eterni, altrimenti tutto sarebbe solo un altro inganno come le parole del serpente: “Voi sarete come Dio” (Gen 2,4) o “ come dei”, se vogliamo leggere il passo con Jung.

            Il Gesù risorto non è un dio risorto, altrimenti non sarebbe nulla più di Osiride o di Dumuzi/Tammuz o di Adone, è un uomo risorto: “Cristo è stato svegliato dai morti, primizia di coloro che sono morti. Poiché  se per mezzo di un uomo venne la morte, per mezzo di un uomo verrà anche la resurrezione dei morti”” (1Cor 15, 20).

            La resurrezione non è la linea extramorale che scardina la Legge e nemmeno la porta che ci (ri)conduce alla vita vera, è l’anticipazione in quell’uomo, in quel Gesù morto e poi risuscitato da Dio (At 2,24), del cammino che, in un altrove di cui non conosciamo le coordinate temporali e spaziali, anche noi saremo come lui risorti. La nostra fede, ebraica o cristiana che sia, nulla ha a che fare con l’immortalità dell’anima: noi crediamo nella resurrezione dei morti o perché questa è la promessa che la Scrittura interpretata dalla tradizione ci consegna o perché Cristo, che è primizia di coloro che sono morti, si fa garante della nostra resurrezione.

            La resurrezione, allora, non è la porta del desiderio.

            E’ la porta della speranza tenuta aperta dalla fede.

            Ma, se si interpreta in questo modo, il Gesù che ne risulta parla solo a chi crede, mentre, secondo l’Autore quello di Gesù è un messaggio universale che libera tutti dalla Legge e li consegna al desiderio.

            Se il messaggio è universale, che bisogno c’è di liberare da una Legge che riguardava e che riguarda solo gli Ebrei?

            Forse che la salvezza viene dal desiderio o che il desiderio è la salvezza?

            In psicanalisi forse, nella Bibbia e nelle parole di Gesù certamente no.

            Limitiamoci alla Legge/Torah in sé.

            La Legge non è in antagonismo alla vita, ma è la vita nella sua essenza più piena. In primo luogo perché è una scelta e non una imposizione; in secondo luogo perché essa viene da Dio ed esprime la sua volontà; in terzo luogo perché tramite la Legge si procede lungo la via di santità che, in quanto imitatio Dei, ci fa come Dio. Solo nella Legge e con la Legge noi davvero possiamo essere come Dio ed andare a lui.

            Siamo noi stessi non perché ci è consegnato il desiderio, ma perché sappiamo dove stiamo andando e chi ci attende.

            Sappiamo da cosa dobbiamo allontanarci e cosa dobbiamo compiere per essere davvero uomini dal cuore mite, dallo sguardo aperto, dalle orecchie che sanno ascoltare e dalle mani pronte ad accogliere.

            Sono le parole dei Profeti a darci la chiave di lettura del nostro essere fedeli a un cammino che non può rinunciare a seguire ciò che è bene non secondo un metro di giudizio morale ma secondo il desiderio di Dio:

“Cessate di fare il male,

17 imparate a fare il bene,

ricercate la giustizia,

soccorrete l’oppresso,

rendete giustizia all’orfano,

difendete la causa della vedova” (Is 1, 16b-17).

            Queste parole sono l’anima della Legge/Torah, il cuore dell’insegnamento della Bibbia ebraica. La Legge non è proibizione (comandamento negativo), ma è riconoscere il male e il bene che ci abitano e ci attraversano (comandamento positivo) per compiere la volontà di Dio e per essere, per quanto ci è possibile, secondo la sua somiglianza.

            Cosa vuol dire “imparate a fare il bene”?

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            In sé non significa nulla perché il bene in quanto tale non mostra il suo contenuto, ma il profeta ci insegna cosa significa per noi (in ogni generazione) imparare a fare il bene: “ricercate la giustizia”.

            Ma come si può ricercare la giustizia?

            Facendosi carico della condizione degli emarginati, di coloro che non hanno peso nella società, di quanti sono in condizione di debolezza ed hanno bisogno del nostro aiuto e del nostro sostegno. Ed anche in questo caso il mio desiderio è il desiderio dell’altro (in senso soggettivo).

            Ed ecco, allora, che il cuore della Legge/Torah si incontra con il cuore dell’insegnamento di Gesù: nessuno deve essere escluso dal nostro amore, perché come abbiamo ricevuto gratuitamente l’amore di Dio così dobbiamo gratuitamente volgere il nostro amore a chi non può, per diversi motivi, vivere in pienezza la vita.

            Ed è questa la critica che Gesù, da ebreo, rivolge ai farisei, ebrei come lui: voi escludete chi non è come voi e in questo modo annullate la vita, e la vita viene sempre prima di tutto, anche di Dio (se è possibile dirlo), perché Dio è il Dio dei vivi e non dei morti.

            Questo, allora, è la Legge/Torah “deuteronomica” (per mantenere la definizione usata all’Autore): è amore gratuito dell’uomo verso Dio e dell’uomo verso l’altro uomo; gratuito perché è solo amore e, come tale, non cerca alcun merito.

            E’ detto:

Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze.” (Dt 6,5)

            E ancora è detto:

“amerai il prossimo tuo come te stesso” (Lv 19,18).

            Ed ancora:

16 Circoncidete dunque il vostro cuore ostinato e non indurite più la vostra nuca; 17 perché il Signore vostro Dio è il Dio degli dèi, il Signore dei signori, il Dio grande, forte e terribile, che non usa parzialità e non accetta regali, 18 rende giustizia all’orfano e alla vedova, ama il forestiero e gli dà pane e vestito. 19 Amate dunque il forestiero, poiché anche voi foste forestieri nel paese d’Egitto.”(Dt 10, 16-19)

            Chi non fa dell’amore il senso primo del proprio vivere, tradisce la vita stessa perché non accoglie la mancanza e il desiderio dell’altro che soffre ed è emarginato, e così facendo si pone fuori dalla via tracciata da Dio.

            Gesù ci invita a camminare su questa via, la via dell’amore, amando come lui ci ha amati.

            Il resto è teologia (o filosofia o psicanalisi) e non la vita.

Gianpaolo Anderlini (gianpaoa@tin.it)

Potete leggere l’articolo di Massimo Recalcati qui