Vangelo di Giovanni, presentazione velocissima

Germogli

germogli” è una collanina, nata quasi per caso, dopo una riunione nella quale mi era stato chiesto di proporre una breve meditazione;

germogli” è una cosa piccolissima, debole, un timido inizio, niente di ambizioso;

germogli” ha la pretesa di mettere in comune qualche passo nel cammino di fede guardando alla Scrittura e sapendo che «né chi pianta è qualcosa, né lo è chi irriga, ma è Dio che fa crescere» (1Cor 3,7).

Alberto Bigarelli

di Alberto bigarelli

Fin dall’inizio del cristianesimo il vangelo di Giovanni fu coinvolto nelle controversie cri­stologiche a partire dagli gnostici del Il e III secolo. Nel tempo della Riforma poi il testo fu oggetto di contrapposizioni tra cattolici e protestanti, fino a quando il testo giovanneo divenne oggetto della ricerca storico-critica in­sieme a tutto il Nuovo Testamento. Si giunse allora anche a negarne la storicità e l’origine apostolica, come nella scuola di Tubinga. Solo all’inizio del XX secolo si intrapresero studi sull’unirà letteraria e l’unicità di composizione del vangelo, che sfociarono successivamente nel campo dell’ambiente religioso e del mes­saggio teologico.

Oggi l’orizzonte degli studi giovannei si è allar­gato fino a giungere a commenti che toccano la struttura teologica e catechetica, che ci per­mette di cogliere la portata spirituale del testo. Il fascino del quarto vangelo attraverso i secoli, tuttavia, ri­mane sempre il mistero di Gesù di Nazaret, Verbo di Dio fatto carne, venuto a rivelarci il volto del Padre. E in questa ottica che intendiamo evidenziare alcuni punti che renderanno più comprensibile la lettura del vangelo stesso.

Uno scrittore cristiano dei primi secoli il grande Origene, diceva: «Ci sia permesso di affermare che il fiore di tutta la Sacra Scrittura è il vangelo, e il fiore del vangelo è il vangelo di Giovanni» (Commentaria in Evang. Joannis, I, IV, 23). E Clemente Alessandrino, a riguar­do dell’origine del quarto vangelo, scriveva: «Giovanni, per ultimo, consapevole che negli altri vangeli erano già stati riportati gli eventi materiali della vita di Cristo, esortato dai discepoli e divinamente ispirato dallo Spirito compose un vangelo spirituale (pneurnatikon euangèlion)» (Eusebio, Hist. Eccl., VI,14,7). Per il maestro di Alessandria, dunque, il vangelo dì Giovanni è una rilettura spirituale degli eventi evangelici, legati al nucleo della fede cristologica. Quando passiamo, infatti, dalla lettura dei primi tre vangeli a quello di Giovanni, si ha l’impressione di entrare in un’atmosfera nuova, si è come avvolti dalla luce stessa. Entrare nel quarto vangelo è come osservare dall’alto e dal di dentro il paesaggio evangelico, che Mai co, Matteo e Luca vedono dal basso e dall’esterno. Se i vangeli sinottici, partendo dalla storia di Gesù, ci fanno intravvedere il suo mistero, il vangelo di Giovanni, invece, ponendosi sul versante del mistero di Cristo ce lo mostra nel tempo. La figura che ne emerge, allora, è quella di un Gesù che introduce il discepolo a coglie­re un dato insieme di eternità e di attualità, di futuro e di già presente, che esige un atteggiamento di fede robusta, come quella di Maria che stava ai piedi del Maestro per ascoltarlo e contemplarlo (cf. Lc 10, 39).

Le differenze tra Giovanni e i sinottici si fanno poi più precise: nei sinottici il centro dell’attività apostolica di Gesù è la Galilea e l’interesse e rivolto alla venuta del Regno di Dio e al mistero pasquale che egli compie a Gerusalemme in Giovanni, invece, Gesù sale tre volte alla Città Santa svolge il suo mini­stero, specie nel tempio, e l’attenzione è rivolta all’automanifestazione di Gesù-Verità agli uomini (cf 1,14.17) e alla loro incredu­lità o fede davanti a questa rivelazio­ne. Leggendo il quarto vangelo si testa colpiti dalla diversità della persona di Gesù che viene delineata: una persona descritta non soltanto nelle sue parole e nelle sue azioni, ma nel pro­fondo mistero umano e divino che essa rac­chiude. Il ritratto del Maestro che Giovanni presenta è frutto di un’esperienza del Cristo maturata nella preghiera e nella contemplazio­ne. Il simbolo del quarto evangelista è l’aquila e un detto rabbinico dice che l’aquila è l’uni­co uccello che può guardare direttamente nel centro del sole senza battere ciglio e senza ri­manere abbagliato. Solo coloro che posseggo­no questa «vista» possono contemplare come Giovanni questo «vangelo spirituale», medita­to e ricondotto all’essenziale dall’appassionata esperienza di un uomo, che ha visto e vissuto a lungo ciò di cui parla, rendendo testimonian­za della realtà invisibile che egli crede al di là della visione.

 

Varie sono le strutture proposte per il vange­lo di Giovanni. La struttura che segue è quella che viene maggiormente accettata dagli esege­ti. La presentiamo perché può servire al letto­re del quarto vangelo per avere una visione d’insieme ed essere accompagnato nella lettura del testo biblico.                             

Il prologo del vangelo (1,1-18)

Parte la: La venuta di Gesù tra gli uomini: la dialettica tra fede-incredulità (1,19-12,50)

                                                                                                                             

  • La settimana introduttiva alla rivelazione di Gesù (1,19-51): la testimonianza del Battista e la chiamata dei primi discepoli dietro Gesù.
  • L’inizio della rivelazione di Gesù: da Cana a Cana (2,1-4,54): viene posta la questione della vera fede, attraverso le diverse risposte dare dagli uomini.
  • L’autorivelazione del Figlia di Dio e l’incredulità dei «giudei» (5,1-10,42): confronto tra Gesù e le principali feste ebraiche: Sabato, Pasqua, Capanne, Dedicazione.
  • Gesù si avvia verso l’ora della morte che è la «gloria» (11,1-12,36): la risurrezione di Lazzaro decide la sua morte. L’unzione di Betania. L’ingresso a Gerusalemme.
  • Valutazione e bilancio del ministero di Gesù (12,37-50). ci

Parte IIa: il ritorno di Gesù al Padre: passio­ne, morte, risurrezione, ritorno nello Spirito (13,1-2 0,31)

  • Il testamento spirituale di Gesù ai suoi (13,1-17,26): la lavanda dei piedi. I discorsi dell’ultima cena. La preghiera dell’ «ora».
  • 1l racconto della passione gloriosa (18,1-19,42): la passione e la morte di Gesù e il suo trono di gloria.
  • Apparizioni del Risorta e cammino di fede pasquale dei discepoli (20,1-29): le apparizioni del Risorto e l’esperienza di fede dei discepoli.
  • Conclusione del vangelo (20,30-31).

Epilogo: l’ultima apparizione di Gesù risorto ai discepoli (21,1-25): la missione di Pietro e del discepolo amato.

È comune individuare l’ossatura di questo van­gelo, da una parte nella progressiva rivelazio­ne di Gesù e dall’altra nella reazione dell’uomo di fronte a questa manifestazione, che sfocia nella fede o nell’incredulità.

 

Tra i diversi titoli che la tradizione antica ha attribuito all’apostolo Giovanni spicca quello di «il teologo». E questo non solo per il testo del «prologo», la più acuta riflessione di tutto il Nuovo Testamento, ma perché, come scrive lo stesso evangelista, i vari segni della vita di Gesù «sono stati scritti affinché crediate in Ge­sù che è il Messia e il Figlio di Dio» (20,31). La fede in Gesù, Messia e Figlio di Dio, è lo scopo di questo vangelo, tutto rivolto alla persona del Cristo e al suo significato di salvezza per l’uomo. Un vangelo, dunque, che intende of­frirci la rivelazione di Dio e insieme indicarci la strada che porta alla comunione con lui.

Ma il centro della visione teologica di Giovan­ni, diversamente da Luca che presenta Gesù come il profeta, da Matteo che ce lo mostra come il Maestro, da Paolo che lo indica come il Cristo crocifisso e risorto, risiede nel miste­ro dell’incarnazione: Gesù è presentato come il Figlio «Unigenito venuto da presso il Padre, pieno della grazia della verità» (1,14). Gesù èla rivelazione di Dio, ma in modo nascosto e umile. Di qui la ricchezza interiore di questo vangelo che solo l’uomo di fede può compren­dere, messaggio inesauribile, sempre aperto e valido per ogni epoca della storia.

Penetrare il messaggio teologico del quarto vangelo vuol dire tener presente la persona e l’evento-Gesù, unico rivelatore del Padre. Anzi, lo scopo di questo vangelo è chiaro: mettere l’uomo in presenza di Gesù, farlo incontrare con la rivelazione e aprirlo alla fede in Cristo. La vita del credente, infatti, nasce da questo rapporto e si rafforza nella comunione vitale e personale con il Figlio di Dio, parola del Pa­dre. L’esegesi moderna ha messo così in luce questo aspetto, che R. Schnackenburg afferma che «il Cristo giovanneo non è niente altro che il rivelatore, la parola ultima e decisiva di Dio all’umanità». Ma qual è questa rivelazione? In che cosa consiste il nucleo di questa «lieta notizia»? Il principio, l’oggetto e il vero fine della rivelazione, che tramite Gesù è comunicata all’uomo, è la manifestazione di un Dio pieno di amore verso tutti. Giovanni esprime tutto questo con chiarezza e forza nel celebre versetto-sintesi del suo vangelo: «Dio ha tanto amato il mondo che ha sacrificato il suo Figlio unigenito, affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia la vita eterna» (3,16). Ciò vuoi dire che Dio stesso, attraverso le parole e le opere di Gesù, fa conoscere agli uomini il suo vero volto ed apre a loro il suo «cuore».

Giovanni è un vangelo simbolico. Oggi tutti gli esegeti sono concordi nel rico­noscere al vangelo di Giovanni il suo carattere simbolico, senza misconoscerne il valore sto­rico. I miracoli, in Giovanni, per esempio, non sono dei fatti sorprendenti per suscitare l’am­mirazione e la fede nella gente come nei sinot­tici, sono invece degli eventi storici, dei «segni» che rivelano un aspetto segreto della persona di Gesù, sono apocalissi del suo essere come rivelatore del Padre e della sua gloria come Fi­glio di Dio, che conducono alla fede. Per cui il linguaggio dell’evangelista riflette contempo­raneamente il patrimonio storico e culturale dell’ebraismo al tempo di Gesù e quello della Chiesa primitiva in cui il vangelo fu redatto. Il simbolismo, cioè, scaturisce dai fatti stori­ci e ne esprime il suo significato profondo. È tato detto giustamente che «Il messaggio del simbolo risiede nel suo carattere epifanico di presenza figurata, ma pienamente reale, del trascendente» (R. Mehl). L’evangelista, in questa luce, vuole avviare il lettore del suo vangelo a riconoscere il rap­porto essenziale che unisce il Gesù della storia al Cristo della fede. Egli vuole legare il Gesù di Nazaret, vissuto nella terra di Israele, con il Fi­glio di Dio che vive oggi. Gli episodi del van­gelo, allora, vanno letti ad un duplice livello, quello storico e quello simbolico. Giovanni è un ebreo ed ogni evento gli parla di Dio. Egli ha vissuto accanto all’amico Gesù e tutte le opere del Profeta di Nazaret gli rivelano il Dio di cui è portatore. Pensiamo, ad esempio, ad al­cune parole ed espressioni giovannee, che egli usa e che hanno un duplice senso profondo, materiale e spirituale: «seguire» Gesù vuoi dire camminare con lui, ma più ancora credere in lui diventando suo discepolo (1,37-38); «l’acqua» del pozzo di Giacobbe diventa il simbolo del dono della parola di Dio che Gesù fa alla sama­ritana (4,13-14); «il tempio» di Gerusalemme diventa per Gesù il tempio del suo corpo (2,19-21); «la nascita» fisica di cui parla Nicodemo dà l’occasione a Gesù di rivelare il mistero del­la rinascita spirituale (3,5-8); «la luce» è il sim­bolo della vita divina del Verbo, manifestazione del mistero di Dio (1,3-4), e così via. La natura del simbolo, in Giovanni, dunque, mette in evidenza che il segno non è tale se non esiste realmente ed avvia un processo costante che permette di passare dal fatto al suo significato, dalla lettera allo Spirito. Dice Antoine de Saint­ Exupéry, attraverso la volpe del Piccolo Principe, una grande verità: «Non si vede bene che con il cuore; l’essenziale rimane invisibile agli oc­chi». Il simbolo non è una semplice immagine, è un legame tra le cose visibili e il cielo invisi­bile del Creatore.

Il vangelo di Giovanni ci presenta, inoltre, la chiave ermeneutica del «segno» per farci pene­trare la realtà più profonda e vera della fede. Sono sette i grandi segni compiuti da Gesù, che si presentano sorto la veste del miracolo ma svelano la funzione di chi li opera. Essi so­no compiuti davanti ai discepoli per condurli alla fede in Gesù e ad una più profonda intel­ligenza del suo mistero (cf. 2,1-11; 4,46-54; 5,1-17; 6,1-15; 6,16-21; 9,1-34; 11,1-44). E sorpren­dente il fatto che Giovanni nel vangelo non utilizzi mai la parola «fede» ed al suo posto usi il verbo «credere». La sola spiegazione sta nel fatto che la fede è qualcosa di attivo e di dina­mico che richiede adesione e risposta da parte dell’uomo.

Il rapporto tra «fede» e «segni» si delinea bene quando l’evangelista ci descrive le reazioni de­gli uomini ai segni di Gesù. Tali reazioni trat­teggiano le diverse categorie di persone che corrispondono alle quattro tappe del cammino di fede. La prima tappa è quella del rifiuto. Alcuni degli uomini, vedendo i segni fatti da Gesù, rifiutano di venire alla luce. In questa categoria si trovano le persone che non hanno la più piccola reazione di fede e vivono nella incredulità volontaria, come i farisei (cf. 9,41). La seconda tappa è quella della fiducia umana basata sui segni: si accoglie Gesù come un pro­feta venuto da Dio (cf. 2,23-25; 3,2-3; 4,45-48). A questa categoria di persone fanno parte co­loro che hanno una fede incompleta fondata sul sensazionale e che Gesù non approva. La terza tappa è quella della fede fondata sui se­gui: si crede in Gesù, quale inviato del Padre e manifestazione della gloria di Dio. Questa è la categoria delle persone che arrivano a com­prendere il senso profondo espresso dai segni di Gesù (cf. 2,11; 4,53; 6,69). L’ultima tappa è quella della fede fondata sulla parola: si crede in Gesù senza vedere i segni (cf. 17,20; 20,29). È la figura di Maria alle nozze di Cana. Questa è la fede preferita dal Gesù giovanneo, la fede che non ha bisogno di segni.

In Giovanni i segni, dunque, sono in stretto rapporto con la persona di Gesù, sono mani­festazione del suo essere come Rivelatore del Padre e della sua gloria come Figlio di Dio, ma nello stesso tempo suscitano la fede e condu­cono alla contemplazione dell’evento più al­to, che è il Crocifisso, espressione massima di un Amore che si dona agli uomini senza condizione.

Giovanni a conclusione del vangelo si firma così: «È lui il discepolo che rende testimonianza di queste cose e che le ha scritte, e noi sappiamo che la sua testimonianza è verità» (21,24). Questo testo, che completa quanto 1,14 e 19,35 hanno detto in ordine al disce­polo testimone e alla natura della sua testi­monianza, specifica che il discepolo amato dà non solo testimonianza della morte in croce di Gesù, ma di altre cose riportate nel vangelo, che tutta la comunità giovannea ritenne vere. Ma è Giovanni l’autore di questo quarto vangelo, così profondo e coinvolgente? Le notizie storiografiche accettabili, in realtà, sono po­che ed hanno aperto da sempre il «problema giovanneo».

Oggi l’esegesi scientifica, nel sottolineare la complessa situazione, preferisce parlare di «tradizione giovannea» a riguardo dell’ori­gine di questo vangelo. In passato la critica sosteneva che il quarto vangelo non poteva essere lo scritto dell’apostolo Giovanni, perché la sua teologia metteva in luce l’influsso del misticismo ellenistico e delle speculazioni gnostiche. Oggi si è più cauti nei giudizi. Gli studiosi riconoscono varie cose: la profonda unità di pensiero e di stile che anima l’intera opera, l’ambiente palestinese, la vera cornice corrispondente alle indicazioni topografiche e cronologiche del testo, lo sfondo culturale che risale all’ambiente giudaico della tradizio­ne sapienziale e apocalittica, sullo stile della tradizione essena, ed infine la novità e la pre­senza di Gesù, testimoniata dall’apostolo qua­le discepolo amato del Signore. Tutto questo ripropone l’autenticità giovannea del vangelo, che trova nell’apostolo l’ispiratore e l’anima­tore dello scritto, anche se non lo si può tutto direttamente ricondurre alla sua penna. La «tradizione giovannea», infatti, sottolinea due aspetti importanti. Anzitutto il carisma di un uomo dalla forte personalità, capace di creare intorno a sé una continuità e una scuola di pensiero. Ed inoltre lo stile di vita di un uomo che crede profondamente nelle sue relazioni ecclesiali, fatte di autentica spiritualità, di ri­fiuto di uno sterile intimismo, e di apertura ad una parola che è orientamento di vita.

Gli studi moderni, inoltre, hanno messo in luce, e giustamente, che tra la vita di Gesù e la redazione finale giovannea (ultima decade del I secolo) esiste un lungo tempo di riflessione e di maturazione nella comunità fondata dall’apostolo. L’intera vicenda di Gesù, com­prendente fatti e parole, fu interpretata dalla Chiesa alla luce della Pasqua, in modo da offri­re alla comunità giovannea, cioè alla seconda generazione cristiana, una comprensione più profonda del mistero di Gesù, Figlio di Dio. Giovanni, evangelista e testimone, si rivela, quindi, uomo attento all’azione dello Spirito e alla realtà dell’esistenza, preoccupato di mo­strare le incidenze concrete che la vita di Gesù comporta. Egli ribadisce in tutto il suo vangelo che il cuore dell’uomo, insoddisfatto di tanti surrogati, ha bisogno solo dell’amore di Dio.

Il vangelo di Giovanni è di una ricchezza stra­ordinaria per la vita spirituale del cristiano e di ogni comunità di fede. In esso troviamo un cammino da seguire, frutto dell’iniziativa di Dio: è il piano del Padre che ha mandato il Figlio nel mondo per salvarlo. Gesù comunica al mondo l’amore del Padre dando la verità del vangelo, che è la sua stessa persona. All’uomo è chiesto di credere in Gesù, vivendo la sua pa­rola, la cui sintesi è l’«agape».

Zevini, Il vangelo di Giovanni, testimonianza teologico-spirituale, MdB 120 (2013) 52-58.