Il cristiano non crede in Dio!

Germogli

germogli” è una collanina, nata quasi per caso, dopo una riunione nella quale mi era stato chiesto di proporre una breve meditazione;

germogli” è una cosa piccolissima, debole, un timido inizio, niente di ambizioso;

germogli” ha la pretesa di mettere in comune qualche passo nel cammino di fede guardando alla Scrittura e sapendo che «né chi pianta è qualcosa, né lo è chi irriga, ma è Dio che fa crescere» (1Cor 3,7).

Alberto Bigarelli

di Alberto bigarelli

Accade frequentemente che quei pochi che entrano in chiesa nei giorni feriali si rechino direttamente davanti alla statua di S. Bernardino Realino e, accesa una candela, si trattengano qualche momento in preghiera. Qualcuno si infila anche nella cappella della Madonna Pellegrina per fare la stessa cosa. Ma il centro della chiesa è un altro: il tabernacolo! Un tabernacolo fra l’altro ben illuminato, ben realizzato, unico in città, custodia delle specie eucaristiche, segno della presenza sacramentale di Gesù. Si assiste a un certo strabismo; gli occhi vanno altrove. Posso capire: Dio non ha immagine, il Cristo – sacra sindone a parte – non si mostra a tutti. I santi li percepiamo più vicini. Sì, è vero, è un tempo di profondi cambiamenti anche nel modo di credere e vivere la fede, ma il centro rimane sempre Lui, la salvezza è sempre Gesù (cf. At 4,12).

  1. Dio è una parola comune, presente in tutte le religioni del mondo, antiche o attuali, ma appare oggi sempre più un termine ambiguo, fumoso, abusato. Possono far pensare a lui le meraviglie e la vastità del cosmo, le bellezze pluriformi e innumerevoli della natura, l’immensamente grande e l’immensamente piccolo (cf. Rm 1,19-20). La parola “Dio” poi non è garanzia della sua presenza e neppure della sua utilità. L’ha già detto agli inizi del ‘900 il filosofo esistenzialista Friedrich Nietzsche con le parole «Dio è morto» (Gott ist tot); è un suo celebre aforisma e neppure così banale perché intendeva dire che l’idea di Dio, la realtà di Dio non è più fonte di alcun codice morale o di orientamento verso un fine. Parole tremendamente vere! Giustino, un padre della Chiesa del II sec., scriveva: «La parola “Dio” non è un nome, ma un’approssimazione naturale all’uomo per descrivere ciò che non è esprimibile» (II Apologia, 6). Ma prima di lui l’evangelista Giovanni scriveva: «Dio, nessuno lo ha mai visto» (1,18). Per noi cristiani l’esperienza di Dio derivata dalla contemplazione della natura, collegata a sofferenze, disastri e tragedie umane non è la più attendibile. Per noi cristiani è di importanza decisiva non parlare mai di Dio al di fuori del suo legame con Gesù Cristo, «il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato» (Gv 1,18). Dunque la conoscenza di Dio è impossibile, inaccessibile, inattingibile perché «Dio è Spirito» (Gv 4,24), a meno che non ce ne parli Gesù, non ce la comunichi il Figlio. Ogni altra conoscenza è vistosamente approssimativa perché Gesù è «immagine visibile del Dio invisibile» (Col 1,15). Il nostro Dio non ha un volto se non quello datogli da Gesù.

Mi direte: ma di Dio ne parla già l’Antico Testamento. Verissimo, anzi vediamo un po’ come ne parla. Lo farò in modo molto sobrio. Dio appare con una sua personalità e ci si trova di fronte a varie espressioni che sono, è bene ripeterlo, tentativi umani di accostarsi al mistero per eccellenza.

Nell’Antico Testamento sono molto frequenti gli antropomorfismi, cioè Dio viene descritto con elementi, espressioni, atteggiamenti propri della creatura umana. È chiaro che è un’analogia perché Dio non è uomo e non si comporta come un uomo (cf. Nm 23,19; Os 11,9; Is 40,13-15; ecc.). Così ha una faccia, un naso, labbra, braccio, piede, occhio, orecchio, dito, viscere … Psicologicamente prova gioia, ira, vendetta, immaginazione, pentimento, amore, odio, ebbrezza, tristezza… Il salmo 18 (cf. anche  Sal 35,2-3; 144,1) parla di Dio come di un cavaliere e di un istruttore militare dalle cui narici esce il fumo, dalla bocca un fuoco divorante, che tuona dal cielo, ecc. Ma l’immagine più violenta si trova nel libro di Giobbe 16,9s. in cui Dio si erge come una belva, come un guerriero sanguinario e come un arciere implacabile che prende a bersaglio l’uomo (cf. anche Lam 3,12-13). Nei salmi l’immagine più dolce è quella in cui Dio è paragonato a un padre e a una madre (cf. 27,10; 103,13; 131,2) o a quella materna del profeta Osea in cui è presentato come una madre che accudisce e nutre il figlio: «A Èfraim io insegnavo a camminare tenendolo per mano… Io li traevo con legami di bontà, con vincoli d’amore, ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia, mi chinavo su di lui per dargli da mangiare» (12,1-4).

Il Dio d’Israele è un Dio personale: ha un nome proprio, parla, dialoga, stringe alleanza, invia messaggeri, agisce liberamente (cf. Es 33,19; Is 46,9-10). È il Dio vivente (cf. 1Re 17,1), fonte della vita (cf. Sal 104,29-30) e padrone della vita (cf. Sal 16,11; 22,27; 69,33; Ez 37,1-14). Davanti a lui le divinità delle nazioni pagane sono impotenti e ridicole (cf. Is 41,23-24; 44,9-20; 46,5-8; Ger 10,5.8.10; in particolare Baruc 6,1-72). Dio è il “totalmente altro” e non si lascia imbrigliare da nessuna azione umana, anche cultuale (cf. Sal 50,10-13), né si lascia rinchiudere in un santuario (cf. Is 66,1-2) o limitare dal cosmo (cf. Is 40,22-26). Con signoria assoluta dirige la storia e si sceglie un popolo concludendo con lui un’alleanza di cui fissa le clausole e resta il padrone, guidato soltanto dal suo amore, dalla sua giustizia e dalla sua fedeltà. Dio è santo (cf. Is 6,3; Sal 99,1). L’uomo davanti a lui può solo rimanere confuso (cf. Ez 1,28). Ma Dio però non è separato dalla sua creatura, creata «a sua immagine» (Gen 1,26-27) e che può tentare di descrivere le realtà divine partendo dalla sua stessa esperienza. Dio è signore, creatore, salvatore, sposo, padre, madre eppure rimane sempre nascosto e misterioso (cf. Es 33,17-23). Non solo perché circondato dalla corte dei «figli di Dio» (cf. Sal 29,1), ma anche perché negli scritti tardivi vivono in lui quelle ipostasi divine che sono la Sapienza e lo Spirito Santo.

Un altro aspetto singolare di Dio è che con la parola chiama all’esistenza (cf. Gen 1,1-2,4) e parla rivolgendosi all’uomo. Ogni volta che lo fa si produce una novità o una svolta. Basta pensare al caso di Abramo (cf. Gen 12,1-3), di Mosè (cf. Es 3,4-12), dei profeti (cf. 1Re 17,1-4; Ger 1,4-10; ecc.). E mi fermo qui. Questo Dio entra in dialogo con l’uomo e la Scrittura è piena di discorsi, di incontri, di domande e di risposte. Il parlare di Dio è una benedizione e quando tace sono guai perché il silenzio fa pensare a un disinteresse ed è terribile: il silenzio nasconde, crea una distanza e niente porta più a lui, niente più illumina, orienta, incoraggia, apre alla speranza.

Il Dio dell’Antico Testamento è ancora un Dio presente e provvidente, vicino e coinvolto nella storia del suo popolo e del mondo. Forse mai come in Isaia profeta si coglie l’intervento divino dentro le vicende umane e cosmiche: l’annuncio dell’Emmanuele (cf. 7,24), l’oracolo della “pietra angolare” in Sion (cf. 28,16), la simbologia del vasaio spesso ripresa in altre parti dell’Antico e del Nuovo Testamento (cf. Is 29,16; 45,9-12; Ger 18,1-12; Rm 9,20-21).

È un Dio pastore, un titolo che gli è dato già in Gen 48,15 e 49,24 ripreso nel notissimo Sal 23, nel Sal 78,25-26; 97,7. Egli raduna le pecore disperse (cf. Is 56,8; Zac 10,8) e, perché sono state abbandonate, lui stesso le cercherà e pascerà di persona il suo gregge (cf. Ger 23,3; 50,19; Mic 4,6). Come non ricordare la pagina memorabile di Ez 34. È un Dio che vincerà alla fine i suoi nemici (cf. Ez 38-39), e offrirà un banchetto a coloro che gli sono stati fedeli per celebrare l’instaurazione del suo regno (cf. Is 25,1-12). Un giudice che, finalmente, darà significato e ordine alle vicende umane (cf. Ez 33,10-20), che risusciterà tutti destinando i meritevoli alla vita, gli empi alla condanna eterna (cf. Sap 4,20-5,23).

Questi brevi passaggi sconfessano un’idea che serpeggia nel popolo cristiano, un’idea secondo la quale il Dio dell’Antico Testamento è cattivo e sanguinario. Quando Mosè chiede a Dio «Mostrami la tua gloria!» (33,18), gli risponde così: «“Farò passare davanti a te tutta la mia bontà e proclamerò il mio nome: Signore, davanti a te. A chi vorrò far grazia farò grazia e di chi vorrò aver misericordia avrò misericordia”. Soggiunse: “Ma tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo”» (Es 33,19-20). Segue poi la grande rivelazione: «Allora il Signore scese nella nube, si fermò là presso di lui e proclamò il nome del Signore. Il Signore passò davanti a lui, proclamando: «Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà» (Es 34,5-6). Il nome di Dio è misericordia e compassione, amore e fedeltà. È il profeta Osea che, una volta per tutte, ci dona la straordinaria rivelazione della misericordia di Dio: «Come potrei abbandonarti, Èfraim, come consegnarti ad altri, Israele? … Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione. Non darò sfogo all’ardore della mia ira, non tornerò a distruggere Èfraim, perché sono Dio e non uomo; sono il Santo in mezzo a te e non verrò da te nella mia ira» (11,8-9). La santità di Dio si manifesta nella sua misericordia e la sua onnipotenza sovrana si manifesta allo stesso modo: «Hai compassione di tutti, perché tutto puoi, chiudi gli occhi sui peccati degli uomini, aspettando il loro pentimento. Tu infatti ami tutte le cose che esistono e non provi disgusto per nessuna delle cose che hai creato; se avessi odiato qualcosa, non l’avresti neppure formata. Come potrebbe sussistere una cosa, se tu non l’avessi voluta? Potrebbe conservarsi ciò che da te non fu chiamato all’esistenza? Tu sei indulgente con tutte le cose, perché sono tue,  Signore, amante della vita» (Sap 11,23-26).

  1. Tutto quello che abbiamo considerato su Dio, tutto quello che si dice di Dio nell’Antico Testamento viene ripreso e arricchito in misura sovrabbondante nel Nuovo, concentrandosi però su una persona, Gesù, perché «è piaciuto infatti a Dio che abiti in lui tutta la pienezza» (Col 1,19). Una concentrazione che lascia esterrefatti per la profondità e lo splendore. Per parlarne devo fare delle scelte e mi sembra che, rimanendo ai vangeli, lo scrittore più adatto sia Giovanni. Ma anche in questo caso, chiedendo venia ai professionisti dell’esegesi, sarò molto sobrio. I titoli che si colgono facilmente e con cui viene qualificato Gesù sono circa una trentina. Li vediamo tutti, scorrendo il vangelo dall’inizio, in modo da poter gustare un po’ la ricchezza della persona del Salvatore.
  2. È la parola/verbo (1.1). Il termine (logos) ha un significato complesso. Vuol dire anche discorso, insegnamento, computo, progetto e rimanda alla creazione nella quale la parola ha attuato l’opera di Dio. Grazie a lei «Dio ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha stabilito erede di tutte le cose e mediante il quale ha fatto anche i mondi» (Eb 1,1), il mondo presente e il mondo futuro. È parola dunque preesistente alla creazione, efficace (cf. Eb 4,12), con essa tutto cominciò ad esistere e senza di essa nulla esisterebbe (cf. Gv 1,3s.). È parola espressiva perché manifesta l’essere di Dio e il suo amore per l’uomo. Si comunica come luce che splende, si diffonde e illumina (cf. Gv 1,5.9). È il messaggio che manifesta la volontà di comunione di Dio con l’uomo, è la parola che diventa realtà umana (1,14).
  3. La parola/verbo è Dio (cf. 1,1). “Dio” è in questo caso attributo della parola, qualifica il termine “parola” che rimane il soggetto della frase. Si tratta di Dio che si sta esprimendo. Secondo la concezione biblica un essere personale può comunicare solo ciò che realmente possiede. In rapporto a questo, un passo di un libro tardivo dell’Antico Testamento paragona la parola di Dio alla sapienza affermando che «è effluvio della potenza di Dio, emanazione genuina della gloria dell’Onnipotente; per questo nulla di contaminato penetra in essa. È riflesso della luce perenne, uno specchio senza macchia dell’attività di Dio e immagine della sua bontà» (Sap 7,25-6). La stretta affinità tra la parola e la sapienza permette di comprendere meglio come la “parola” e “Dio” siano allo stesso tempo due e uno.
  4. La parola/verbo è vita (cf. 1,4). Il termine “vita” (zoè) non denota mai in Giovanni la semplice vita fisica, ma una qualità di vita alta, definitiva, non più soggetta alla morte, la vita del mondo futuro. Se la vita corrisponde al progetto del creatore ad esso di oppone un mondo di tenebra che è la morte dell’uomo. La vita si trova in Dio e Gesù che riceve la pienezza dello Spirito (cf. 1,32s.) possiede la pienezza della vita divina e ne dispone come il Padre (cf. 5,26; 6,57). Sua missione è comunicare la vita all’uomo, una vita sovrabbondante (10,10) e definitiva (10,28; 17,2).
  5. La parola/verbo è luce (cf. 1,4). Leggiamo nei salmi: «il Signore è mia luce e mia salvezza» (27,1) e «la tua parola è lampada per i miei passi, luce sul mio cammino» (119,105). La parola/verbo risplende come luce divina di vita e, grazie alla parola/verbo, gli uomini vedono la luce che li guida alla pienezza della vita. In Gv 8,12 Gesù dice: «Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita». La luce con la vita si incarnano in Gesù. Dato che “la luce” era un modo per designare il Messia, la missione messianica viene descritta come comunicazione di vita che elimina la morte (cf. 5,25). Con Gesù, il progetto divino realizzato, la luce-vita si manifesta a coloro che lo ricevono rendendo visibile la sua “gloria”, cioè dando visibilità del suo amore.
  6. Gesù è il figlio unigenito (1,18). Solo Giovanni usa la parola “unigenito” per indicare il rapporto di Gesù con Dio. Il suo significato è chiarissimo: poiché Gesù è l’unico Figlio di Dio la sua missione è la più alta prova d’amore di Dio per il mondo (cf. 3,16; 1Gv 4,9). Del resto solo in quanto è l’unigenito Figlio di Dio, la vita di Gesù può dare la salvezza dalla perdizione: solo a lui infatti è dato il possesso della vita (cf. 5,26). “Unigenito” è un predicato di maestà perché come tale vive nella più stretta intimità con Dio e ha tutto in comune con lui. Egli conosce Dio non tanto per averne sentito parlare, ma per la relazione di intimità senza pari che ha con lui. “Unigenito” include verosimilmente una generazione da Dio, una nascita dal Padre dall’eternità.
  7. Gesù è l’agnello di Dio (cf. 1,29.36). Lo testimonia il Battista. Non si tratta di un semplice paragone, ma di una definizione. Se ad “agnello” sostituiamo “offerta sacrificale” ci possiamo render conto dell’enorme portata delle parole del precursore. Nessuna offerta sacrificale da parte dell’uomo è in grado di eliminare il peccato del mondo. È Dio allora che presenta un’offerta sacrificale capace di farlo: ha dato il suo unico figlio e non l’ha risparmiato (cf. Rm 8,31-32). L’espressione “agnello di Dio” si può intendere in modo adeguato come “agnello dato da Dio”, “proveniente da Dio” Gesù viene chiamato agnello sotto tre aspetti: la mitezza e la pazienza nella sofferenza (cf. At 8,32); la sua integrità senza difetti e senza macchia, cioè l’innocenza e la perfezione del suo sacrificio pasquale (cf. 1Pt 1,19); la virtù espiatrice della sua morte in cui porta e cancella i peccati del mondo (cf. Gv 1,29-30).
  8. Gesù è il rabbì (cf. 1,28; 2,1; ecc.). È un titolo onorifico che vuol dire “maestro mio”, appare più volte nei vangeli e costituisce, a partire dal I sec. d.C., la denominazione ufficiale dei dottori della Legge in Palestina È l’appellativo frequente con cui i discepoli si rivolgono a Gesù, ma lo usa anche Nicodemo, capo dei farisei (cf. 3,2) e lo usa la gente (cf. 6,25). L’attività propria del Rabbì è formare i suoi discepoli a praticare il suo insegnamento. Essere maestro appartiene alla missione del Messia (cf. 18,37). Il termine “rabbì” si trasforma dopo la risurrezione in “rabbunì” (cf. 20,26); “rabbì” fu il punto di partenza prima di conoscere Gesù (cf. 1,38), “rabbunì” è il punto di arrivo dopo che il suo insegnamento è culminato nel dono della vita sulla croce. Con questa differenza Giovanni indica che Gesù è maestro in maniera nuova, diversa da quella dei maestri del passato, quasi un superlativo.
  9. Gesù è il Messia (cf. 1,17.41). Messia non è un termine italiano ma il calco dell’ebraico; in greco è Cristo. Entrambi si possono rendere con “unto”, nel senso di consacrato da Dio. Messia è sinonimo di re perché ogni re veniva intronizzato attraverso un’unzione di consacrazione. Riconoscerlo come Messia è parte della formulazione della fede in Gesù (cf. 11,27; 20,31). La consacrazione messianica di Gesù è attestata dal Battista stesso che è presente alla discesa e permanenza dello Spirito su di lui (cf.1,32s.). In questo c’è un’allusione a Davide, figura del Messia (cf. 1Sam 16,13; Ez 34,23s.) e da quella visione il precursore conclude che Gesù Messia, è il Figlio di Dio (cf. 1,34; Sal 2,7). La caratteristica di Gesù Messia è di essere portatore dello Spirito: lo Spirito lo ha unto, conascrato e la sua missione messianica consiste nel comunicarlo (cf. 1,33). È il Messia-re che si mette al servizio dell’uomo (cf. 6,11) fino a dare la vita (cf. 12,34), rendere testimonianza alla verità (18,13) e comunicargli lo Spirito (cf. 19,30).
  10. Gesù è figlio di Giuseppe (cf. 1,46). Giuseppe, marito di Maria, madre di Gesù. Giuseppe è il padre giuridico, un falegname, un carpentiere. Di lui si parla solo nei racconti della nascita e della fanciullezza di Gesù. È stato il custode del Salvatore e la sua paternità sui generis inserisce profondamente Gesù nella storia di Israele, in quella cultura religiosa ricca di tradizioni e di usanze. L’ambiente del paesino di Nazareth, fra le montagne della Galilea, in quel clan che ha un legame antico con il casato del re Davide, nella bottega del papà, Gesù impara l’arte del lavoro, la manualità, la fatica, la cura degli attrezzi, la docilità a Giuseppe. Vera scuola di semplicità e laboriosità; in tutti quegli anni, uomo fra gli uomini, è così ben integrato che nessuno sospetta della sua grandezza.
  11. Gesù è re d’Israele (Gv 1,49). Così lo chiama Natanaele discepolo del Battista, ma anche la folla usa questo appellativo (cf. 12,13). Nel processo davanti a Pilato questo titolo si cambia in “Re dei Giudei” (cf. 12,38-40). Il popolo, sottomesso all’oppressione di un sistema ingiusto, spera che il Messia abbatta quel regime per stabilire il suo regno di giustizia e di pace. Ma Gesù rifiuterà una simile concezione popolare del Messia come dominatore (cf. 12,12ss.); egli è Il Messia re che però si mette al servizio dell’uomo (cf. 6,11) fino a dare la vita (cf. 12,34). Gesù non usa la forza per affermare un suo diritto (cf. 18,36), la sua missione consiste nel rendere testimonianza alla verità (cf. 18,37). Con questi tratti egli descrive il suo atteggiamento davanti al mondo. Il “mondo” è un sistema di potere mosso dalla brama del guadagno e della gloria personale (cf. 2,16; 5,41-44; 7,18; 8,44) e le sue armi sono l’omicidio e la menzogna (cf. 8,44). Gesù non si oppone con la violenza alla violenza del potere, ma la smaschera rendendo testimonianza alla verità. La regalità di Gesù si mostra nell’essere la prima pietra di una società secondo il progetto divino, del regno di Dio (cf. 3,3.5) e del popolo messianico (cf. 11,50; 18,14), dove la violenza è sostituita dall’amore e la menzogna dalla verità.
  12. Gesù, tempio di Dio (2,21). Il tema del tempio percorre tutto il vangelo di Giovanni. Era definito «la casa dove dimora di Dio, il luogo in cui risiede la sua gloria» (cf. Sal 26,8). Era il centro delle festività e dei pellegrinaggi, il simbolo della fede d’Israele, amato per la sua imponenza, la ricchezza degli addobbi e dei tesori che custodiva. Questo santuario era una realtà santa, come santo è colui che lo abita, ma compromessa dalla corruzione e dai commerci che vi si facevano. Il gesto di Gesù di cacciare fuori tutti e rovesciare i banchi dei cambiamonete prelude alla sostituzione futura del tempio con un nuovo santuario: il suo corpo. Chiamato in causa per il suo gesto rispose: «“Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere”. Gli dissero allora i Giudei: “Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?”. Ma egli parlava del tempio del suo corpo» (2,19-21). In questa circostanza il termine “tempio” traduce non tanto la parola greca “ièros”, ma “nàos” che in realtà sarebbe la cella più interna dell’edificio sacro che conteneva il simulacro della divinità. La fine dell’antico tempio prelude all’inaugurazione di un nuovo culto «in spirito e verità” (4,23-24), culto legato alla persona di Gesù.
  13. Gesù è il maestro (cf. Gv3,2). L’appellativo maestro appare nel vangelo accanto all’uso del termine “rabbì”. Applicato una volta al Battista dai suoi discepoli (cf. 3,26), è riferito le rimanenti volte a Gesù: dai suoi (cf. 1,38.49:; 4,31; 9,2; 11,8), da Nicodemo (cf. 3,2) o dalla gente (cf. 6,25). La sua conoscenza delle cose di Dio e della Legge provoca lo stupore dei giudei perché non Gesù ha mai studiato nelle loro scuole (cf. 7,15). Infatti Gesù propone quello che gli ha insegnato il Padre (cf. 8,28), la verità che Lui gli ha affidato e per la cui trasmissione è venuto nel mondo (cf. 18,37). L’insegnamento di Gesù si colloca nella linea della realizzazione del disegno del Padre al quale è pienamente sottomesso perché ne condivide radicalmente gli intenti. Ciò che insegna infatti non nasce da una riflessione personale, ma è ciò che il Padre continuamente gli ispira e a cui Gesù si consegna totalmente.
  14. Gesù è lo sposo (cf. 3,29). Sposo è un attributo dato a Dio nell’AnticoTestamento (cf. Is 49,18; 54,5; Os 2; Ger 3,31.51; ecc.) che compare nel tardo giudaismo. Il quarto vangelo presenta costantemente il Messia che viene con l’immagine dello sposo. Il Battista si definisce l’“amico dello sposo” che ne prepara le nozze (cf. 3,29) ed annuncia un’era di fecondità (cf. 3,30) in cui per l’opera del Messia nasceranno figli da Dio (cf. 1,13). L’arrivo dello sposo deve spegnere la tristezza (cf. Mt 9,15; Mc 2,19; Lc 5,34) perché i preparativi alle nozze e le nozze sono un tempo di gioia. L’incontro d’amore non tollera privazioni e penitenze; con l’attività pubblica del Cristo il tempo delle nozze è arrivato e bisogna far festa perché lo sposo è in mezzo al suo popolo e ha portato la salvezza.
  15. Gesù è il salvatore (cf. 5,42). Anche “salvatore” è un nome dato a Dio nell’Antico Testamento ed evoca la liberazione dall’oppressione demoniaca, dalla malattia, dalla paura ma anche dal peccato e dalla colpa. Appare solo qui nel quarto vangelo, sulle 106 volte del Nuovo Testamento. Compare invece molto spesso nei racconti di guarigione riportati negli altri vangeli e la guarigione riguarda tutto l’uomo. Anche il termine “salvezza” compare una volta sola (4,22). In Gv 3,17 e 12,47 Gesù stesso dichiara di non essere venuto a giudicare il mondo, ma per salvarlo. Il figlio di Dio è l’unico e vero mediatore di salvezza, «il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto» (Lc 19,10).
  16. Gesù è il profeta (cf. Gv 5,19.44). Profeta è colui che, ispirato da Dio, mosso dal suo Spirito parla in suo nome insegnando, rimproverando, esortando, sollecitando una reazione conforme a ciò che viene annunciato. Gesù afferma di essere l’inviato di Dio (cf. 4,44), cosa che i farisei gli negano (cf. 7,52). In due occasioni Gesù viene riconosciuto come profeta: dalla donna samaritana (cf. 4,19) e nell’episodio del cieco guarito (cf. 4,19). Fra le due scene c’è un parallelismo: il riconoscimento di Gesù come profeta è seguito dalla sua rivelazione come Messia alla samaritana (cf. 4,25s.) e invece come “uomo” al cieco guarito (cf. 9,11). Nonostante questo titolo non gli sia dato frequentemente, Gesù appare nel Nuovo Testamento più che un profeta (cf. Mt 12,41) perché non annuncia solo la salvezza, ma l’avvia e la mette in atto.
  17. Gesù è il giudice (cf. Gv 5,22.27.30). Il Padre non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicarlo, ma per salvarlo (cf. 3,17; 12,47). Perciò chi da la propria adesione a Gesù non è soggetto a giudizio (cf. 3,18) e neppure viene chiamato in giudizio (cf. 5,24). Il Padre ha delegato al Figlio «il potere di giudicare» (5,27). Ma la sentenza del Figlio non fa che ratificare quella che l’uomo stesso si è data. Il Figlio infatti dispone della vita, come il Padre (cf. 5,26), e la sua sentenza consiste nel non comunicare la vita prendendo atto del rifiuto di chi la respinge. E siccome la vita si trova nel Figlio è l’atteggiamento verso Gesù che fa la differenza. La sentenza che Gesù emette è giusta perché basata sulla conoscenza del disegno del Padre e la sua fedeltà ad esso (cf. 5,30); egli esclude solo coloro che si sono esclusi per scelta personale, rifiutandosi di praticare l’amore. La morte di Gesù sarà la sentenza contro “il mondo”, cioè il presente ordinamento: il suo capo che personifica il gruppo di potere giudaico e, più in generale, ogni potere sarà cacciato fuori (cf. 12,31). Il questa morte si manifesterà tutto l’odio del “mondo” contro Gesù e contro il Padre (cf. 15,23-25; 19,28s.) “Essere cacciato fuori” significa ormai essere esclusi dai beni messianici, dalla vita a causa della scelta contro Gesù Messia.
  18. Gesù è la risurrezione (cf. 5,21). I termini “risuscitare/risurrezione” non hanno a che fare con la debolezza, ma con la vita definitiva; “risuscitare” è il contrario di “perdersi” (cf. 6,39) che significa morire per sempre. La risurrezione consiste nel superamento della morte fisica e in una continuità di vita che non si può distruggere. La risurrezione non ripara una distruzione del corpo o l’indebolimento della salute perché l’uomo che ha ricevuto lo Spirito la possiede già. Sia nel caso di Lazzaro (cf. 11,43), che in quello del figlio dell’ufficiale è sufficiente l’affermazione di Gesù «tuo figlio vive» (4,50). In entrambi i casi viene messa in risalto la fede dell’interessato o dei circostanti, fede in Gesù che ha il potere di risuscitare i morti (cf. 4,50; 11,40.45). Per Gesù i morti in realtà non sono morti, ma dormono (cf. Mc 5,39; Gv 11,11). Tutti i vangeli alludono al fatto che la morte non può nulla davanti a lui, anzi la vita che scaturisce da Cristo svuota di ogni potere la morte come afferma perentoriamente rispondendo a Marta: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno» (11,25-26).
  19. Gesù è il pane che da la vita (cf. 6,35.48). La narrazione del miracolo con cui Gesù con un po’ di pane e pochi pesci sfamò una folla di 5.000 persone (cf. Mt 14,13-21 e parall.) o di 4.000 (cf. Mt 15,32-39 e parall.) viene ripetuta – con poche varianti – complessivamente sei volte. In Giovanni poi, al racconto del miracolo dei pani, segue un lungo discorso in sinagoga a Cafarnao in cui Gesù afferma con singolare insistenza di essere «il pane della vita». Dietro l’idea del pane della vita sta l’antica e universale aspirazione a un cibo che comunichi una vita che non viene meno e, forse di più, il richiamo al tempo dell’esodo, alla manna, pane leggero del pellegrinaggio verso la terra promessa. Gesù afferma che è lui il pane per il nuovo ed ultimo pellegrinaggio, il pane che darà a quanti vanno a lui. Esiste una sola possibilità per dare la vita al mondo: «il pane di Dio è il Rivelatore che viene dal cielo e da la vita al mondo» (Bultmann).
  20. Gesù è il santo di Dio (cf. 6,69). Lo dice Pietro al termine del discorso sul pane della vita, un discorso che sconcerta e scandalizza per la sua novità e intransigenza. Anche i Dodici, spiazzati, sono invitati dal Signore a fare una scelta. Se vogliono stare con lui devono accettare quell’insegnamento e Pietro reagisce: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio». Non è facile interpretare “santo di Dio” perché appare solo qui. È notevole che Pietro traduca qui a modo suo chi sia per lui Gesù e forse lo fa richiamando il Sal 16, l’unico testo in cui si trova l’espressione “il tuo santo” (cf. At 2,27). Questo salmo canta la profonda intimità tra Dio e l’orante; Pietro pensa forse a quella di Gesù con Dio che ha proclamato la sua unione col Padre (cf. 5,19-30) e che più avanti dirà che è stato «santificato da Dio» (10,36; 17,19). L’appellativo “santo di Dio” supera ampiamente quello di Messia, ma raggiunge quello di «Figlio di Dio» confessato da Simon Pietro in Mt 16,16.
  21. Gesù è il testimone (cf. 8,28). Il testimone è colui che dichiara, attesta qualcosa a favore o contro qualcuno (cf. 5,31ss.; 7,7; 10,25) esponendo un’esperienza personale e diretta; il testimone è colui che, presente, ha visto, conosce i fatti e per questo va ascoltato. Così Gesù da testimonianza «di ciò che ha visto e udito» (3,11.32). Uno dei modi per descrivere la sua missione come Messia è «rendere testimonianza alla verità»: nella sua persona e attività egli manifesta la verità di Dio, il suo amore incondizionato per l’uomo, l’opera d’amore di Dio che realizza in lui il suo progetto creatore. Le opere di Gesù realizzate in favore dell’uomo (cf. 5,36; 10,25) sono la sua testimonianza ultima e decisiva perché sono testimonianza del Padre stesso (cf. 5,37).
  22. Gesù, figlio dell’uomo (cf. 8,28). L’espressione “Figlio dell’uomo” deriva da Daniele profeta (cf. 7,13-14) che rappresenta così il popolo d’Israele contrapposto agli imperi persecutori simboleggiati da mostri terribili. Questo “figlio dell’uomo”/popolo-d’Israele viene poi elevato in cielo e trionfa sulle potenze nemiche. È un titolo collettivo che poi è stato ripreso, così da diventare quello di un singolo, dall’autore del libro apocrifo di Enoch – piuttosto conosciuto – in cui è un personaggio celeste il cui mistero sarà svelato alla fine dei tempi. La qualifica di Gesù come “figlio dell’uomo” è la tradizione più antica: compare 12 volte in Giovanni e 70 negli altri evangelisti . Gesù lo usa per parlare di sé (cf. Lc 6,22; Mt 9,6-8), viene associato alla sua passione, morte e risurrezione (cf. Mc 8,31; 9,31; 10,32) ed è collegato al suo ritorno alla fine dei tempi (cf. Mc 13,26; Mt 24,30; ecc.). Questo titolo sembra essere il più preferito da Gesù rispetto ad altri titoli, ad es. quello di Messia.
  23. Gesù è il buon pastore (cf. 10,1ss.). Tanto “pastore” quanto il verbo “pascolare” appartenevano al linguaggio tradizionale che designava i capi e le loro funzioni rispetto al popolo. Nell’Antico Testamento “pastore” è riferito a Dio (cf. Gen 48,15; Sal 23,1; Is 40,10; ecc.). Designava in modo particolare il re Davide (cf. Sal 78,70s.) e il futuro re che Dio avrebbe inviato per prendersi cura del gregge d’Israele. Celebre è il testo di Ez 34 contro i falsi pastori e che annunzia il coinvolgimento diretto di Dio. “Pastore” è un modo per indicare il Messia e come il termine “re” anche quello di “buon pastore” un contenuto diverso da quello tradizionale. Infatti entra dalla porta dell’ovile perché è un suo diritto farlo (cf. 10,2), le pecore gli appartengono (cf. 10,3.12) e si consegna per loro dando la vita (cf. 10,11-12). Gesù è il pastore per eccellenza, il modello di pastore (cf. 10,11.14) perché si dona per le pecore e per il vincolo d’intimità che le unisce tra loro e con lui. Proclamandosi “buon pastore” Gesù sta dunque affermando di essere il Messia, il nuovo Davide promesso (cf. Ez 34,23s.; 37,24; Ger 23,5; 30,9) e segnalando l’eccellenza della sua missione rispetto a quella dei personaggi del passato.
  24. Gesù è la porta (cf. 10,2.7). Non è tanto la porta o il cancelletto del recinto, ma il varco, il punto di passaggio, la porta per le pecore quando entrano o escono dall’ovile. Il senso potrebbe essere che solo Gesù concede la possibilità di far parte della comunità messianica e ricevere i beni ad essa connessi purché lo si segua, lui che dopo essere entrato esce: «se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo» (10,9). La “salvezza” ottenuta da colui che passa attraverso il Figlio è descritta attraverso immagini: una deriva dalla metafora della porta, l’altra dalla vita pastorale. I pascoli sono un simbolo della vita opulenta e preparano la sovrabbondanza con cui si chiude il vers. 10 in cui si può cogliere un’eco del Sal 23. Attraverso quella porta si passa dal mondo ebraico, dal tempo della Legge alla pienezza manifesta del mondo della grazia.
  25. Gesù è l’“Io sono” (8,58). “Io sono” è un nome. Il nome nella Bibbia esprime qualcosa della persona stessa: ricorda la circostanza della sua nascita (cf. Gen 29,31-35; 1Sam 4,21-22), la sua origine (cf. Gen 2,7) o annuncia la sua missione (cf. Mt 1,21). Con questo nome Dio si presenta a Mosè nel roveto quando lo manda dagli israeliti: «Dio disse a Mosè: “Io sono colui che sono!”. E aggiunse: “Così dirai agli Israeliti: Io-Sono mi ha mandato a voi”». (Es 3,14). Questo significa che il Dio d’Israele è il solo vero Dio (cf. Dt 32,39). Gesù usa questo nome per sé quando rispondendo ai Giudei disse: «In verità, in verità io vi dico: prima che Abramo fosse, Io Sono» (8,58). E in una precedente polemica coi Giudei dichiarò «se infatti non credete che Io Sono, morirete nei vostri peccati» (8,24; cf. 13,19). Gesù ha anche affermato «Credete a me: io sono nel Padre e il Padre è in me», «Io e il Padre siamo uno» (10,30).
  26. Gesù è l’inviato (cf. 12,44). “Inviato” traduce letteralmente in italiano il termine “apostolo” che, in realtà, è un calco del greco. L’“inviato”, secondo la terminologia giuridica giudaica, rappresenta a tutti gli effetti l’inviante, ne ha l’autorità e la dignità. A questo proposito è sufficiente citare questo brano del quarto Vangelo: «Gesù allora esclamò: “Chi crede in me, non crede in me ma in colui che mi ha mandato; chi vede me, vede colui che mi ha mandato… Chi mi rifiuta e non accoglie le mie parole, ha chi lo condanna: la parola che ho detto lo condannerà nell’ultimo giorno. Perché io non ho parlato da me stesso, ma il Padre, che mi ha mandato, mi ha ordinato lui di che cosa parlare e che cosa devo dire. E io so che il suo comandamento è vita eterna. Le cose dunque che io dico, le dico così come il Padre le ha dette a me» (12,44.47-50).
  27. Gesù è la via (cf. Gv 14,6). “Via” è un modo per indicare l’agire di Dio e «le sue vie» sono incomparabilmente superiori all’agire degli uomini (cf. Is 55,6-9). Le vie di Dio sono “sante” (Sal 77,20), inimmaginabili e l’uomo non coglie neppure le tracce di questi passaggi misteriosi (cf. Is 8,21.23-29). Gesù è l’unica via che ci può condurre a Dio (cf. 14,6) e grazie a lui, al dono della sua vita, è aperta la via verso il santuario celeste (cf. Eb 10,19-20).
  28. Gesù è la verità (cf. 14,6). La verità nel mondo semita non ha nulla a che fare con l’astrazione o la teoria, ma è di ordine pratico: non è frutto di speculazione, ma di esperienza. Ad es. l’espressione “uomo di verità” (Es 18,21) vuol dire un uomo solido, affidabile, fedele. “La verità” designa anzitutto la realtà divina in quanto si manifesta e può essere conosciuta dall’uomo. Di essa l’evangelista percepisce un amore senza limiti: «Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (3,16). Questo amore è la verità di Dio. Ma è sulla croce, nella sua morte volontaria, che ha luogo la sua rivelazione piena. Il Padre ama gratuitamente fino all’estremo l’uomo e il Figlio è capace, come il Padre, di un amore gratuito e fedele fino al limite, dare la vita (cf. 15,13). La verità è la fedeltà dell’amore, essa è fermezza e sicurezza della fedeltà di Dio che splende nella morte di Gesù.
  29. Gesù è la vita (cf. 14,6). La vita ha origine da Dio (cf. Gen 1,1-2,25) e si trova in Dio (cf. Gv 5,26; 6,57). Gesù che riceve la pienezza dello Spirito (cf. 1,32s.) possiede la pienezza della vita divina e ne dispone come il Padre (cf. 5,21.26; 17,2). La sua missione è comunicare la vita all’uomo, vita sovrabbondante (cf. 10,10) e definitiva (cf. 10,28; 17,2). Per questo Gesù è la vita perché la possiede in pienezza e può comunicarla.
  30. Gesù è la vite (cf. 15,1). Il profeta Osea, per primo, ha paragonato Israele a una vite fertile (cf. 10,1). Dopo di lui riprendono il tema Geremia (cf. 2,21; 8,13) ed Ezechiele (cf. 17,1-10). Nel Cantico dei Cantici la vigna può indicare la sposa (cf. 1,14; 2,15; 6,11; ecc.). La vigna d’Israele deve la propria esistenza a Dio, come canta il Sal 80: «Hai sradicato una vite dall’Egitto,
    hai scacciato le genti e l’hai trapiantata. Le hai preparato il terreno, hai affondato le sue radici
    ed essa ha riempito la terra [d’Israele]» (80,9-12). È una storia di elezione e di alleanza che via via diventa sempre meno collettiva (cf. Ez 17,2-10) tanto da precisarsi in Gesù, vite vera che darà frutto. Le parole «Io sono la vera vite e il Padre mio è l’agricoltore» mostrano chiaramente che Gesù si identificava alla vite di cui parlavano i profeti, vite piantata un tempo da Dio e oggetto del suo amore; l vite vera, cioè che non deluderà come era stato per Israele (cf. Is 5,4-6).
  31. Gesù è il paraclito (cf. 14,16). “Paraclito” è un termine greco non tradotto e che vuol dire “avvocato/difensore/intercessore”. Gesù è stato il “paraclito” verso i suoi discepoli nel corso della sua missione pubblica; non li lascerà indifesi (cf. 22,35-36) e promette un altro “paraclito”; quando sta per lasciarli dice: «io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito della verità» (14,16-17), lo Spirito Santo. Lo Spirito Santo che «proviene dal Padre», ma è «inviato da Gesù» insegnerà loro ogni cosa «ricordando tutto quello che Gesù ha detto loro» (14,16). Così egli testimonierà nel cuore dei discepoli la verità di Gesù in modo che anche i discepoli possano testimoniarla davanti al mondo (cf. 15,26-27).
  32. Gesù è il Signore (cf. 13,16). Anche questo è un nome di Dio: nella versione greca dell’Antico Testamento (la LXX) tutti i nomi ebraici di Dio sono tradotti così. “Signore” poi è un titolo regale e si conviene al Messia. “Signore” nel mondo profano è colui che possiede ricchezza, libertà e indipendenza assolute, che non è soggetto a un altro, ma è padrone di sé e del suo destino. Gesù rovescia la sua signoria in servizio. Nella lavanda dei piedi Gesù mettendosi al servizio dei suoi, conferisce loro la condizione di “signori”, vale a dire di uomini liberi e indipendenti, innalzandoli al suo livello (cf. 13,4ss.). Il titolo appare ancora dopo la risurrezione. Davanti all’esperienza di Gesù vivo e presente, il discepolo incredulo fa una professione di fede che riassume quella di tutta la comunità: «Mio Signore e mio Dio!» (20,28). In quella circostanza, alitando lo Spirito, li rende partecipi della sua regalità. Gesù è Signore a partire dalla sua umanità; è l’uomo compiuto che, rispondendo fino alla fine alla sua consacrazione nello Spirito, ha realizzato la piena potenzialità dell’uomo.

Tutte le domeniche, durante l’Eucaristia, recitiamo il Credo e, non so se ve ne siate accorti, anche in questo caso il suo centro è Gesù Cristo (cf. CCC 426). Nelle diverse stesure del Credo, la formulazione del mistero di Gesù occupa oltre la metà del testo. Nel Catechismo della Chiesa Cattolica (CCC) pubblicato nel 1992 oltre la metà della seconda sezione, ben 260 numeri sono dedicati a Cristo (CCC 422-682), rispetto a 156 dedicati a Dio Padre (CCC 198-354) e ai 64 allo Spirito Santo (CCC 683-747). La presentazione del CCC del mistero dell’incarnazione elenca solo quattro nomi: Gesù, Cristo, Figlio unigenito di Dio e Signore (429-455), che confermano questa riflessione e disegnano una linea storico-narrativa progressiva suggerendo un itinerario catechistico in ascesa che, partendo dal titolo più umano “Gesù”, giunge al più divino “Signore”. E i cristiani attendono il compimento di questa signoria. S. Paolo ha scritto: «Voi infatti siete morti – morti al mondo, al peccato – e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio! Quando Cristo, vostra vita, sarà manifestato, allora anche voi apparirete con lui nella gloria» (Col 3,3). Infatti «ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è» (1Gv 3,2). Attendiamo quest’ultima opera del Cristo mentre siamo pellegrini, «camminiamo infatti nella fede e non nella visione» (2Cor 2,7). Per dirla con le parole, non recenti ma vere, del filosofo, teologo e pedagogista austriaco naturalizzato israeliano M. Buber, viviamo nel mondo di oggi «un offuscamento della suprema luce, in una notte dell’esistenza priva di rivelazioni. È la notte di un’attesa: non di una vaga speranza, ma di un’attesa. Attendiamo una teofania di cui non conosciamo che il luogo e il luogo si chiama comunità» (Il principio dialogico, Milano 1959, 114). Per noi cristiani quest’attesa è rischiarata dal Messia che è già venuto «via nuova e vivente che egli ha inaugurato per noi attraverso il velo, cioè la sua carne» (Eb 10,20).