Non ami tuo fratello? Non presumere di amare Dio!

Germogli

germogli” è una collanina, nata quasi per caso, dopo una riunione nella quale mi era stato chiesto di proporre una breve meditazione;

germogli” è una cosa piccolissima, debole, un timido inizio, niente di ambizioso;

germogli” ha la pretesa di mettere in comune qualche passo nel cammino di fede guardando alla Scrittura e sapendo che «né chi pianta è qualcosa, né lo è chi irriga, ma è Dio che fa crescere» (1Cor 3,7).

Alberto Bigarelli

di Alberto bigarelli

Allo scriba che lo interroga su quale sia il primo di tutti i comandamenti, Gesù risponde dicendo: «Il primo è: “Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza”. Il secondo è questo: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Non c e altro comandamento più grande di questi» (Mc 12,29-31).

Il passo è arcinoto e anzi è spesso considerato come una sintesi dell’intero insegnamento evangelico. Eppure nello stesso Nuovo Testamento ci sono altri importanti elementi di approfondimento di questa connessione. Basti pensare a due altri celeberrimi passi tra i molti che si potrebbero scegliere. Il primo è il giudizio universale di Mt 25,31-46. In esso l’amore per i «fratelli più piccoli» di Gesù diventa il criterio dell’amore autentico; quello che salva non in virtù della confessione di fede più o meno esplicita o del’appartenenza religiosa che neppure appare nel testo, ma in virtù semplicemente della relazione che esso è capace di instaurare con coloro che sono più disagiati e sofferenti. Questo è così importante che sottrarvisi vuol dire escludersi anche dalla relazione stessa con Dio.

Un altro brano estremamente utile è nel capitolo quarto della Prima lettera di Giovanni: «Noi amiamo perché egli ci ha amati per primo. Se uno dice: “Io amo Dio” e odia suo fratello, è un bugiardo. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. E questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche suo fratello» (1Gv 4,19-21). In esso viene anzitutto riaffermata la precedenza dell’amore di Dio su ogni amore dell’uomo: l’amore è possibile agli uomini perché Dio ci ha amati per primo. Il nostro amore ha sempre il carattere di una risposta alla preveniente e misericordiosa iniziativa di Dio. Inoltre il brano esplicita la reciproca priorità dell’amore verso Dio e dell’amore verso i fratelli. Da una parte l’amore del fratello sembra essere una conseguenza una manifestazione necessaria dell’amore verso Dio: «E questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche suo fratello». Dall’altra viene affermato un elemento decisivo di discernimento: non si può presumere di amare Dio, che non si vede, senza l’amore per il fratello che si vede.

Il collegamento tra l’amore di Dio e l’amore del prossimo che questi brani neotestamentari stabiliscono non può essere ovviamente ridotto a un semplice collegamento esterno superficiale, accidentale, ma esprime una strettissima connessione che rende realmente intrecciati in modo inscindibile i due comandamenti. E l’espressione «chi ama Dio, ami anche suo fratello» (1Gv 4,21) ripete la stessa cosa. Allora è decisivo riconoscere l’altro come fratello; occorre un  riconoscimento intersoggettivo, un’accettazione dell’alterità che è allo stesso tempo diversità.

Riconoscendo, accettando se stesso insieme alla diversità dell’altro la persona diventa più autocosciente e quindi più libera. Coscienza di sé e libertà, appaiono dunque fin dall’inizio contrassegnate da uno spirito che contrasta profondamente con il solipsismo e l’autoreferenzialità che hanno caratterizzato buona parte dell’evoluzione del pensiero moderno. Al cuore dell’esistenza umana c’è la relazione, e al cuore della relazione c’è il riconoscimento e l’accettazione dell’altro. Il riconoscimento della mia piena soggettività e il riconoscimento della piena soggettività dell’altro stanno e cadono insieme. Essere legati da una relazione di riconoscimento implica tanto l’ “essere insieme con” l’altro, quanto l’essere distinti dall’altro: il riconoscimento unisce nella differenza e differenzia nell’unità. Il compimento del processo di riconoscimento si raggiunge quando non solo ci si sente dire dall’altro, ma si arriva anche a dirgli: «E cosa buona e bella che tu esista, tu devi esistere!». La gioia del riconoscimento è inseparabilmente gioia per la propria esistenza e gioia per l’esistenza dell’altro. Questo perché il riconoscimento esclude ogni forma di narcisistica autosufficienza: nessuno può essere se stesso da solo. Ma nello stesso tempo viene anche esclusa ogni forma di appropriazione violenta: non solo, infatti, non posso darmi da me il riconoscimento dell’altro, ma non posso neanche impadronirmene con la forza. Un riconoscimento costretto non è ancora un vero riconoscimento: solo nella verità e nella libertà e quindi nella forma del dono si può parlare di riconoscimento in senso autentico. Il riconoscimento esige dunque fondamentalmente accettare un legame, che comporta ricevere e dare allo stesso tempo. La reciprocità del riconoscimento chiede dunque di accettare tanto di dare, quanto di ricevere: posso accedere a me stesso solo ricevendo in dono il riconoscimento dell’altro e solo offrendo in dono il riconoscimento all’altro. Non è solo il riconoscimento che ricevo dall’altro che mi costituisce, ma è anche il riconoscimento che dono all’altro che mi fa essere me stesso. E nel dono reciproco delle libertà, che riconoscono all’altro la stessa qualità di soggetto. Esso, infatti, è sempre «attesa di una relazione come «grazia»: grazia che l’altro mi riconosca; grazia di poter riconoscere l’altro (cf. P. Sequeri, L’umano alla prova, Milano 2002, 13). La reciprocità che c’è nel riconoscimento consente di mettere in luce la positività del desiderio umano, spesso non considerata come originaria: bisogna invece affermare con forza che la disposizione a offrire è altrettanto originaria della disposizione a ricevere.

La disposizione a donare è altrettanto originaria della disposizione a ricevere, e il desiderio di donare è sempre in fondo desiderio di donarsi, desiderio di donazione che trova espressione simbolica nelle diverse forme che il dono può assumere all’interno della relazione. Dono è il riconoscimento che noi offriamo all’altro, dono è il riconoscimento che noi riceviamo dall’altro. A questo dono è estranea la logica mercantile di dominio dell’uno sull’altro, o del dispotismo che attraverso un dono debordante e senza possibilità di reale contropartita schiaccia e asservisce l’altro in uno stato di debito e dipendenza permanenti.

 Il dono non deve dunque essere annullamento di sé, ma espressione di sé a favore dell’altro che consenta all’altro di essere se stesso. Persino l’amore cristiano per il nemico è interno a tale struttura. Il nemico, da un punto di vista cristiano, va infatti amato, perché se ne può fare – se ne vuoI fare – un amico. Pur senza essere confuse, la dedizione e la reciprocità debbano essere sempre presenti insieme. Inoltre, in questa prospettiva, agape non è più contrapposta a eros, ma anzi ne indica il buono e giusto compimento.

 Si può dire allora che il riconoscimento dice il fine del dono (che per l’appunto non è fine a se stesso, ma crea legame, comunione), ma il dono dice il criterio di verità del riconoscimento, perché un riconoscimento che non abbia la forma del dono non può essere capace di venire pienamente incontro al desiderio dell’uomo. Libertà del dono e il comandamento dell’amore si mostrano nella loro correlatività che ne esclude ogni alternativa: per essere libero devo obbedire al comandamento, per obbedire al comandamenco devo essere libero. Il comandamento esige la libertà a favore di se stessi e dell’altro e la libertà si compie nell’obbedienza al comandamento a favore di se stessi e dell’altro. La dedizione e la reciprocità devono essere sempre presenti insieme.

A partire dal celebre testo già del 1936 del teologo luterano A. Nygren, eros e agape sono stati spesso contrapposti tra loro, quasi indicassero due registri totalmente incompatibili, con l’effetto perverso di dividere ancora una volta l’umanità dell’uomo e di snaturare il loro stesso significato. Eros, infatti, diventa l’amore possessivo, autocentrato, che orienta la ricerca e l’incontro con l’altro al proprio appagamento. Agape, viceversa, diventa l’amore come dedizione, dono particolarmente pieno e disinteressato. Si tratta allora di superare l’antinomia per pensare a una riqualificazione dell’ eros per mezzo di agape. In questa circolarità di dono e riconoscimento, il dono del riconoscimento apre al riconoscimento del dono e, in questo modo, a una vita vissuta nella riconoscenza, che può a sua volta farsi “ridondanza” del riconoscimento e del dono a favore di altri. È questa la dinamica diffusiva dell’amore, particolarmente significativa nel caso di quei doni che non potranno mai essere pienamente contraccambiati, come il dono della vita, ricevuto dai genitori, o come tutti i doni di Dio che ci superano infinitamente.

Questa dimensione di trascendenza che è oltre l’io e il tu, eppure non è raggiungibile al di là o al di fuori di questa relazione orizzontale, operando l’unità dell’uno e dell’altro, opera contemporaneamente la differenza dell’uno e dell’altro, contro ogni logica di sopraffazione, di fusione, di isolamento, di mortificazione della persona. In questo modo la circolarità disegnata dalla relazione di riconoscimento tra amore del prossimo in senso soggettivo e oggettivo non solo costituisce la destinazione della relazionalità umana, ma la porta anche a compimento, aprendola al di là del rapporto orizzontale interumana a quella trascendenza che, proprio in quella relazione, ha la propria immagine.

Questa relazione appare allora come il luogo della rivelazione perché in essa Dio stesso può manifestarsi gratuitamente e storicamente, ma è anche il luogo della fede, perché il desiderio di riconoscimento dell’altro giunge a compimento solo nell’affidarsi insieme a quello stesso Dio accettato come origine, grembo e destinazione di tutti i legami che consentono la realizzazione della promessa inscritta nel desiderio e nella costituzione interpersonale della coscienza dell’uomo.

Nel cristianesimo ha la forma di un interlocutore umano, Gesù di Nazareth, che offre e chiede relazioni di riconoscimento. E che consente a chi lo incontra di accedere al mistero di quella trascendenza di cui lui solo, in quanto Figlio, ha la chiave: la sua totale e gratuita benevolenza, infatti scrive la 1Gv «Noi abbiamo conosciuto e creduto l’amore che Dio ha in noi. Dio è amore» (4,16). È l’alterià dell’Abbà di Gesù, di un Padre che ama e che fa essere, un Dio che non vuole essere passivamente subito, ma attivamente e liberamente riconosciuto nel suo desiderio e nella sua volontà di comunione degli uomini tra di loro e di tutti gli uomini con Dio è riconosciuto proprio dall’interno di quei legami nei quali vive e pulsa il nucleo più profondo ed essenziale dell’esistenza umana. Su questa base allora forse diventa più comprensibile l’intreccio tra i due comandamenti da cui siamo partiti. «Da questo sappiamo di averlo conosciuto: se osserviamo i suoi comandamenti. […] Chi dice di essere nella luce e odia suo fratello, è ancora nelle tenebre. Chi ama suo fratello, rimane nella luce e non vi è in lui occasione di inciampo. Ma chi odia suo fratello, è nelle tenebre, cammina nelle tenebre e non sa dove va, perché le tenebre hanno accecato i suoi occhi» (lGv 2,3.9-11). Non si può amare Dio che non si vede se non si ama il prossimo che si vede, perché è dall’interno della relazione di riconoscimento interpersonale che si apre l’accesso al mistero di Dio. Chi non ama il prossimo che vede, chi non stabilisce con lui una relazione di libero e gratuito riconoscimento, letteralmente non può aprirsi e accogliere l’amore di Dio. «Non può esserci alcuna “conoscenza di Dio” a prescindere dalla relazione con gli uomini» (E. Levinas, La totalità e l’infinito. Saggio sull’alterità, Milano 1990,76-77). Insomma, «all’amore tra noi, Dio non si aggiunge, vi si manifesta» (M. Ballet, La unga veglia 1934-2002, Servitium 2004, 257)

Essere per e con l’altro è il compimento del riconoscimento e anche forse il compimento dell’amore che manifesta l’amore stesso di Dio. «Riconoscersi riconosciuti, reciprocamente: questo è l’ideale, il punto culminante dell’amore. Sapersi riconosciuti dall’altro che sa che io lo riconosco: questo è il campo ellittico dell’amore. Viviamo nella fecondità dell’amore che non distrugge il distacco, che non tende verso un’appiattimento o verso l’annullamento delle differenze, ma rispetta lo spazio di libertà altrui, anzi vuole che l’altro sia altro da me, non un’imitazione di me. In un rapporto signorile, generoso, ci riconosciamo a vicenda la vita e l’amore, lasciamo che l’altro sia diverso» (E. Salmann, Il respiro della benedizione, Spiragli per un ministero visibile, Assisi 2010, 63-64)

Ora un mondo senza Dio è un mondo senza amore, un mondo in cui l’impossibilità del riconoscimento lascia gli uomini prigionieri di logiche di dominio, di sopraffazione, di assoggettamento, di violenza. «Per millenni, un doppio comandamento ha retto la morale ebraico-cristiana: ama Dio e ama il prossimo tuo come te stesso. Alla fine dell’Ottocento, Nietzsche ha annunciato: Dio è morto. Passato anche il Novecento, non è tempo di dire quel che tutti vediamo? È morto anche il prossimo» (L. Zoja, La morte del prossimo, Torino 2009, 3). Escludere Dio dall’esistenza umana conduce inevitabilmente a dimenticare o a rifiutare anche il prossimo.

É vero, sappiamo bene, che a partire dal già citato brano del giudizio universale di Mt 25, si può amare Dio senza averne consapevolezza esplicita e, viceversa, che una esplicita confessione di fede non corrisponde necessariamente a un reale incontro con il Signore. E tuttavia è così: senza Dio non c’è amore. Senza Dio il mondo diventa il regno degli idoli che asserviscono, divorano e distruggono l’uomo, come la tradizione biblica non si stanca di ricordarci. Solo a Dio ci si può e ci si deve arrendere, consegnare con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente e con tutta la forza (Dt 6,4): questo spetta solo a lui, perché lui solo è la sorgente, il custode e la destinazione dell’amore; il prossimo deve essere amato invece solo come se stessi o, meglio, come lo ha amato colui che a noi e per noi si è fatto prossimo e ci ha amati, fino alla morte e alla morte di croce. E non l’ha fatto per annullare se stesso, ma per esprimere una volontà di riconoscimento dell’altro capace di non arrendersi neanche davanti al rifiuto, all’odio e alla violenza assassina: in questo sta l’ordine dell’amore. Perché per la fede cristiana è nell’incontro con l’umanità di Gesù che si dischiude in modo radicale e al riparo da qualsiasi genere di ambiguità il mistero stesso di Dio: «l’esserci-per-altri di Gesù è l’esperienza della trascendenza» scrive D. Bonhoeffer in Resistenza e resa (Cinisello Balsamo 1985, 462).

E forse è per questo che il comandamento nuovo di Gesù «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri» (Gv 13,34), non contiene esplicitamente un richiamo a Dio: chi ama come lui ha amato, lo può fare perché ha riconosciuto l’ordine dell’amore e sa, dunque, anche se magari solo implicitamente, che si può amare il prossimo come se stesso, solo se si ama Dio con tutto se stesso. Troviamo ancora in Giovanni «Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanere nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena. Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando» (15,9-14). È nell’obbedire al comandamento di Gesù che si possono sperimentare in pienezza la libertà e la gioia, e dunque si può fare l’esperienza di come «è magnifico essere uomini» (Kierkegaard, nel titolo di un suo libro) perché è lì e solo lì che si sperimenta l’amore del Padre, che si viene riconosciuti e ci si riconosce nella nostra verità ultima come suoi figli, e che si rimane per sempre nel suo amore.

Ma se è vero che un’umanità senza Dio è un’umanità senza amore, dobbiamo anche dire che un’umanità senza amore del prossimo è un’umanità senza Dio. Senza il riconoscimento dell’altro, nel duplice senso di genitivo oggettivo e soggettivo, ci priviamo infatti di quella che è l’esperienza decisiva per l’incontro con la trascendenza di Dio. Davvero «chi non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1Gv 4,20).

L’amore che si ripiega e si chiude su di sé, è stato giustamente considerato nella letteratura spirituale, dai padri del deserto in poi, come origine di tutti i mali, in sé quanto da esso scaturisce ogni falso amore che si contrappone all’agape di Dio. Ma l’ amore di sé è davvero così negativo? Sì, perché non lascia al primo posto quell’amore che spetta solo a Dio. Solo a Dio e a nessun altro ci si può arrendere totalmente, solo a Dio e a nessun altro ci si può consegnare con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente e con tutta la forza. Ma ogni amore egoistico, narcisistico, autistico, di sé è sciagurato, perverso e mortifero. E tuttavia non è forse vero quanto scriveva Bernanos al termine del Diario di un curato di campagna: «Odiarsi è più facile di quanto si creda. La grazia consiste nel dimenticarsi. Ma se in noi fosse morto ogni orgoglio, la grazia delle grazie sarebbe di amare umilmente se stessi, allo stesso modo di qualunque altro membro sofferente di Gesù Cristo»? (Milano 1990, 242). Non è forse anzi lo stesso secondo comandamento proposto da Gesù che apre uno spazio non assoluto né sovrano, ma non per questo meno reale a questo amore? «Amerai il tuo prossimo come te stesso» sottintende infatti «ama il tuo prossimo come ami te stesso». Si può rendere anche così: per poter riconoscere l’altro si deve essere se stessi, e per poter essere se stessi si deve riconoscere l’altro, così come per poter essere riconosciuti dall’altro si deve essere se stessi e per poter essere se stessi ci si deve lasciar riconoscere dall’altro. Il rinnegamento di sé a più riprese chiesto dall’evangelo (es. Mt 10,37-39; Mc 8,34-38; Lc 14,25-27; Gv 12,23-26, ecc.) esclude ogni forma di esistenza che sia un essere per se stessi, e chiede di essere invece per il Signore e per il suo vangelo, ma non vuole affatto mortificare l’attuazione di sé o l’espressione di sé. Anzi, il vangelo desidera che ogni uomo possa accedere alla propria identità più vera e sviluppare tutte le straordinarie potenzialità del suo essere a immagine di Dio, ma nella sua sapienza sa che questo è possibile solo in una vita vissuta nell’esistere per qualcuno.

Si è se stessi solo essendo per l’altro, ma si può essere veramente per l’altro solo essendo se stessi. Si attua la persona donando se stessi, ma ci si dona veramente all’altro solo attuando se stessi. Il dono di sé deve essere non solo dono, ma dono di sé e questo chiede di non rinunciare né alla stima di sé, né alla cura di sé (certo intese in senso non narcisistico): l’immagine di Dio che ogni uomo è non deve essere distrutta, ma deve portare molto frutto (cf Gv 15,8), deve essere fatta splendere nella sua bellezza, che, come la croce di Gesù ci insegna, risplende nella sua luminosità più pura nel gesto di donare la vita. La stima di sé, la cura di sé, l’espressione di sé hanno senso solo se sono per il dono e per la relazione di riconoscimento con l’altro, ma una relazione che non includa stima, cura ed espressione di sé, sarebbe altrettanto insensata: l’altro si troverebbe davanti non una persona da riconoscere, ma solo un suo simulacro. Ed è precisamente in questa stima, cura ed espressione di sé che si attuano nel dono di sé, che si colloca a nostro parere lo spazio di un amore di sé evangelico, a immagine di Gesù che è stato se stesso donando pienamente se stesso e ha donato se stesso essendo pienamente se stesso. La gioia dell’amore nella sua ampiezza sconfinata è anche la gioia del riconoscimento che è la gioia di essere per e con l’altro essendo se stessi o la gioia di essere se stessi essendo per e con l’altro. La gioia dell’essere l’uno per l’altro.

È la stessa Parola di Dio che dal Primo al Nuovo Testamento ci invita a percorrere questa strada attraverso molteplici formule di reciprocità che proprio a quella relazione vengono applicate. Solo qualche esempio, pensiamo alla reciprocità dell’alleanza: «Voi sarete il mio popolo e io sarò il vostro Dio» (Ez 36,28); o alla reciprocità dell’appartenenza nell’amore sponsale, figura del rapporto di Dio con ogni uomo: «Il mio amato è mio e io sono sua» (Ct 2,16); o ancora alla reciprocità dell’amicizia che lega Gesù e i suoi: «Rimanete in me e io in voi» (Gv 15,4); o, infine, al sedersi a mensa e mangiare insieme: «Ecco: sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (Ap 3,20). In questo senso «il mistero di Dio si rivela come volontà di rispecchiamento nella creatura, o piuttosto come volontà di trovare in essa un riscontro che gli corrisponda. È Dio che vuole – per così dire – riceversi dalla creatura, come suggerisce P. Stancari nel suo commento al Cantico dei Cantici (Genova 2006, 67). Il Dio della Bibbia, il Dio cristiano, è un Dio che vuole riconoscere i suoi figli, ma che vuole anche essere riconosciuto dai suoi figli e riconoscersi nei suoi figli. Nell’amore di Dio, in modo del tutto particolare, il dono gratuito e incondizionato precede ogni reciprocità, ma nello stesso tempo la fonda poiché a essa è destinato.

La dissimmerria tra infinito e finito non esclude la reciprocità del riconoscimento, perché è lo stesso infinito, lo stesso Dio-Amore a desiderarla: «Perché tutti siano una cosa sola, come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi», Gv 17,21) e ricorda ancora l’evangelista «Io sono nel Padre e il Padre è in me», Gv 14,11). Il rapporto tra Gesù e il credente reduplica il rapporto fontale tra il Padre e il Figlio. Solo così il cristianesimo testimonia la novità di rapporti davvero fraterni. Ma mi potrei spingere ancora più in là: il riconoscimento è così decisivo perché il mistero stesso di Dio è anche relazione di riconoscimento tra il Padre e il Figlio nello Spirito Santo. «Nella Trinità – scrive E. Salmann – abbiamo una circolarirà del riconoscersi riconosciuti […] questa è la vita trinitaria, uno spazio ellittico nel quale il Padre è quello che comunica la vita e il Figlio la riceve, senza che però ci sia una dipendenza umiliante, ma un riconoscimento reciproco. […] Dio è in sé processo di riconoscimento, scioltezza, spazio, paesaggio multipolare» (Il respiro della benedizione, Assisi 2010, 63-64).

conclusione di questo percorso ci possono star bene alcuni celebri versetti del poeta, incisore e pittore inglese londinese W. Blake (175-1827) che ben sintetizzano il percorso delineato:

                                         
«Ho cercato la mia anima
e non l’ho trovata.
Ho cercato Dio
e non l’ho trovato.
Ho cercato mio fratello
e li ho trovati tutti e tre».

Adattamento dell’articolo di F. Ceragioli, Sull’unità dei due comandamenti (Mc 12,31), RdT 2(2016).