Che fine a fatto la Parola di Dio?

Germogli

germogli” è una collanina, nata quasi per caso, dopo una riunione nella quale mi era stato chiesto di proporre una breve meditazione;

germogli” è una cosa piccolissima, debole, un timido inizio, niente di ambizioso;

germogli” ha la pretesa di mettere in comune qualche passo nel cammino di fede guardando alla Scrittura e sapendo che «né chi pianta è qualcosa, né lo è chi irriga, ma è Dio che fa crescere» (1Cor 3,7).

Alberto Bigarelli

di Alberto bigarelli

Nell’ottobre del 2008 si è celebrato, su convocazione di Benedetto XVI, il Sinodo dedicato a «La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa» a cui poi ha fatto seguito l’Esortazione Apostolica post-sinodale Verbum Domini (30 settembre 2010). Già nel documento preparatorio (Instrumentum laboris) era emersa la necessità di affermare la sacramentalità della Parola di Dio e l’esigenza di un’«esegesi liturgica». Nell’Instrumentum laboris tale istanza veniva espressa, in negativo: «Il popolo di Dio non è veramente introdotto alla teologia della Parola di Dio nella liturgia, la vive ancora passivamente, non avvertendone il carattere sacramentale» (n. 33). È una verità sacrosanta. Durante il Sinodo si tornò sull’argomento, come mostra una delle pro­posizioni finali: «I padri sinodali si augurano che possa essere promos­sa una riflessione teologica sulla sacramentalità della Parola di Dio» (n.7: Unità tra Parola di Dio ed Eucaristia). È questa proposizione che ha ispirato a Benedetto XVI un intero paragrafo della Verbum Domini, così che, per la prima volta, nel magistero pontificio, appare l’espressione «sacramentalità della Parola» e parla del suo carattere performativo.

Nella versione latina di questo testo, per tradurre l’espressione «sacra­mentalità della Parola» che è stata concordemente valutata come un’«affermazione teologica centrale», «un’autentica novità nei testi del magistero cattolico» «una delle grandi acquisizioni teologiche, […] audace, veramente nuova, perché assente dal magistero anteriore e dalla stessa Dei Verbum» (G. Lorizio, La sacramentalità della Parola dalla Dei Verbum alla Verbum domini…. Città del Vaticano, 2011, 153). «Dopo un secolare esilio, la Parola di Dio ha ritrovato la sua centra­lità nella vita della Chiesa cattolica» scriveva nel 1985, E.Bianchi (La centralità della Parola di Dio, in G. Alberigo e J.P. Jossua, Il Vaticano II e la Chiesa, Brescia)

Il concetto di sacramentalità è uno dei cardini centrali della fede cri­stiana e, per quanto riguarda la sua declinazione cattolica. Questa visione della sacramentalità, in realtà già presente nei padri della Chiesa, dopo un lungo ‘imprigionamento liturgico’, è riapparsa nella seconda metà del XX secolo, si è attestata con il Vaticano II e ora conosce un notevole sviluppo, soprattutto dopo la Verbum Domini. E stato Henri de Lubac il primo a riportare in auge questo concetto, ap­plicandolo a Cristo stesso: «Gesù Cristo è per noi, nella sua umanità, il sacramento di Dio» (Meditazioni sulla Chiesa, Milano 1975, 249). In seguito Edward Schillebeeckx, nel suo ormai classico saggio Cristo, sacramento dell’incontro con Dio, ha riportato il discorso della sacramentalità alla sua origine: Cristo è il vero sacra­mento, la Chiesa è sacramento di Cristo e i sacramenti sono dunque ‘esercizi’ della sacramentalità della Chiesa. Per il teologo belga ‘sacramento’ significa dono divino di salvezza in e attraverso una forma esteriormente tangibile, constatabile, che concretizza il dono. […] L’uomo Gesù, manifestazione terrestre personale della grazia salvifica divina, è il sacramento, il sacramento primordiale, perché quest’uomo, Figlio di Dio, è voluto dal Padre come l’unica via di accesso alla realtà della salvezza (Roma 1981, 28-29).

Qualche decennio più tardi E. Jüngel, da parte riformata, parlerà addirittura di un sacramento unico: Gesù Cristo, il sacramento di Dio ed asserisce ancora più efficacemente che «Gesù Cristo è l’unico sacramento non solo della Chiesa, m di tutta l’umanità. Nella persona di Gesù Cristo che è identica alla sua storia, si è storicamente compiuta, rivelata e attuata la decisione originaria, presa dall’eterno consiglio di Dio, di essere qui per tutti gli uomini e di voler cvivere insieme a tutti gli uomini» (Essere sacramentale in prospettiva evangelica, Assisi-Roma 2006, 151.153)

Anche nel documento conciliare Sacrosantum conci­lium 5 è presente la medesima espressione: «De latere Christi in cruce dormientis ortum est totius ecclesiae mirabile sacramentum». Più in generale, quanto ai padri della Chiesa, non si deve dimenticare che il termine sacramentum viene riferito non tanto a gesti liturgici, quanto soprattutto alle parole della Scrittura. Girolamo af­ferma: «Ogni parola contiene un sacramentum, tante parole altrettanti mysteria» (Tractatus de psalmo 82,2). E per Agostino sacramentum è «una qualunque espressio­ne della santa Scrittura» (Epistulae 5521,28). Non a caso Lutero, profondamente ispira­to da Girolamo e Agostino, conierà la sentenza: «Le sante Scritture hanno un solo sacramento, che è il Cristo Signore» (Disputatio de fide infusa et acquisita 18). La sacramentalità è il modo in cui «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito» (Gv 3,16). Partendo dal settenario, non si riusciva ad approdare alla sacramentalità talità della Parola. Ma una volta affermato il sacramento fontale che è Gesù Cristo, allora si comprende la sacramentalità della Chiesa in riferimento a Cristo stesso, di cui la Chiesa è il corpo nella storia; e si può anche comprendere la sacramentalità della Parola, incarnazione storica della volontà e dell’agape di Cristo. In lui «la Parola si è fatta carne e ha posto la sua tenda tra di noi» (Gv 1,14).

Innanzitutto la Parola di Dio è il Verbo eterno, il Figlio unigenito generato dal Padre nella potenza dello Spirito santo: tutta la rivela­zione di Dio all’umanità trova in Gesù Cristo il suo fine (télos), ed è qui che cominciamo a comprendere la sacramentalità della Parola. La Dei Verbum lo afferma quando attesta: «Piacque a Dio […] manifestare il mistero della sua volontà (cf. Ef 1,9)», (DV 2). E la rivelazione è sempre avvenuta sacramentalmente, dall’ “In principio” (cf. Gen 1,1), alla chiamata di Abramo (cf. Gen 12,1-3), al parlare di Dio ai padri, ai profeti, ai sapienti… fino alla sua manifesta­zione definitiva nel Figlio. La migliore sintesi di questo lungo rivelarsi all’umanità da parte di Dio si trova nel proemio della Lettera agli Ebrei: «Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti, in questi giorni, che sono gli ultimi, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha stabilito erede di tutte le cose e mediante il quale ha fatto anche il mondo (1,1-2).

Sì, il Verbo eterno, il Figlio di Dio, il Lògos, è creatore, è «factum est Verbum Dei» (Lc 3,2) sui padri, sui profeti, sui sapienti. In definitiva, è il «E il Verbo su fece carne» (Gv 1,14): la Parola di Dio venne su…, venne su…, venne su…, e infine venne tra di noi in Gesù Cristo! Ma non dobbiamo disgiungere questo dall’ “In principio” dall’efficacia sacramentale della Parola di Dio che si svela a partire dalla creazione per mezzo del Verbo («Dio disse»: Gen 1,3.6.9.11.14.20.24.26.29), sicché il Verbo mostra una dimensione cosmica di rivelazione e tutta la realtà appare una creatura del Verbo. È lui, il Figlio, il primogenito di tutta la creazione, perché in lui furono create tutte le cose nei cieli e sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili … .1. Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui. Egli è prima di tutte le cose e tutte in lui sussistono (Col 1,15-17).

La sacramentalità della Parola si realizza nella sua efficacia storico-salvifica attraverso azioni/eventi e parole intimamente connessi, perché la Parola di Dio ha un carattere performativo: nella rivelazione non c’è separazione tra dire e fare, perché «la Parola di Dio è viva ed efficace» (Eb 4,12; cf. anche Is 55,10-11), è parola-evento, come esprime l’ebraico dabàr. Questa efficacia, attestata da tutte le Scritture dell’Antico e del Nuovo Testamento, è sempre operante attraverso modalità sacramentali, per­ché è operante nel tempo, nello spazio, percepibile in tutte le situazioni umane, e così discernibile nella fede dai credenti. Come si sa la rivelazione è molto più ampia delle Scritture, ma queste sono l’attestazione che essa è avvenuta, sono una cristallizza­zione, un precipitato del parlare di Dio al suo popolo. Per dirla con la rara efficacia di— Louis-Marie Chauvet, le Scritture sono «il primo tabernacolo» o «il primo sacra­mento della Parola di Dio» (Parole et sacrement, in RdSR 91/2 2003, 212). Parola che è Gesù Cristo diventa parola umana, nella lingua umana, nella cultura umana, nel­la finitudine e nella fragilità umane. E vera parola umana che contie­ne la Parola di Dio, come afferma un altro passo mirabile della Dei Verbum: Le sacre Scritture contengono la parola di Dio e, perché ispirate, sono veramente parola di Dio, (DV 24). Possiamo accostarvi la sintesi di Gaudenzio da Brescia: «L’intero corpo della divina Scrittura, sia dell’Antico che del Nuovo Testamento, contiene il Figlio di Dio» (Sermo II, De exodi lectione secundus). La Scrittura nel suo insieme è dunque un grande ‘sacramento’ che contiene, come in un involucro sensibile, il mistero della salvezza incentrato in Cristo (Agostino, Enarrationes in psalmos 30/2,2,9)..

Come il Verbo fatto carne ha mostrato la sua debolezza e la sua finitudine  fino a essere «rivestito di debolezza» (cf. Eb 5,2), ha mostrato la sua caducità di «figlio di Maria» (Mc 6,3) ed è stato causa di scandalo (cf. Mc 6,3; Mt 13,57), così la Scrittura si presenta a noi nella sua povertà e fragilità, capace di scandalizzare la sapienza degli intellettuali e la ricerca di miracoli degli uomini religiosi (cf. 1Cor 1,22-24). E come Gesù, Verbo incarnato, ha sempre avuto quale compagno inseparabile lo Spirito santo così le Scritture sono parole di Dio in quanto segni ispirati dallo Spirito.

Chiarito que­sto, occorre però ribadire che il cristianesimo non è una religione del libro, come affermava già Bernardo di Clairvaux: la nostra non è la religione di «una parola scritta è muta, ma [della] Parola incarnata e vivente» (Homiliae super missus est 4,1). La lettera senza lo Spirito è morta (cf. 2Cor 3,6), perciò la sacramentalità delle Scritture, per esplicarsi in tutte le sue potenzialità, deve sempre tenere presente la necessità della potenza dello Spirito santo «risuscita la Parola» contenuta nelle Scritture, quando queste sono proclamate in assemblea e all’assemblea (cfr. Ap 1,1-3).

La tradizione patristica e medievale ha utilizzato un’espressione suggestiva: il Verbo si è abbreviato. «I Padri della Chiesa, nella loro traduzione greca dell’Antico Testamento, trovavano una parola del profeta Isaia, che anche san Paolo cita per mostrare come le vie nuove di Dio fossero già preannunciate nell’Antico Testamento. Lì si leggeva: “Dio ha reso breve la sua Parola, l’ha abbreviata” (Is 10,23; Rm 9,28). Il Figlio stesso è la Parola, è il L6gos: la Parola eterna si è fatta piccola, così piccola da entrare in una mangiatoia. Si è fatta bambino, affinché la Parola diventi per noi afferrabile (Benedetto XVI, Omelia nella solennità della Natività del Signore, 2006). Adesso, la Parola non solo è udibile, non soìo possiede una voce, ora la Parola ha un volto, che dunque possiamo vedere: Gesù di Nazaret (VD 12).

Un antichissimo principio della tradizione cristiana, messo in rilievo dalla tradizione protestante, afferma: La scrittura è interprete di se stessa. Alla luce di quanto visto lo capiamo ancora meglio. Proprio perché Cristo, Parola fatta carne, è il centro e l’interprete delle Scritture questo il sen­so profondo delle parole del Risorto secondo Luca 24: «Cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui E…]. Sono queste le parole che io vi dissi quando ero an­cora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi» (vv. 27 e 44).

«La sacramentalità della Parola si lascia comprendere» anche «in analogia alla presenza reale di Cristo sotto le specie del pane e del vino santificati» (VD 56). Questa analogia appartiene alla grande tradizione della Chiesa (fin da Ignazio di Antiochia, poi Tertulliano, Origene, ecc.), anche se apparve nuova ai padri del Vaticano Il i quali, ignoran­do la teologia patristica in merito, in un primo momento si opposero alla sua inserzione nei testi conciiari. Solo quando ricevettero l’assicu­razione che tale analogia era fondata su Gv 6 il cosiddetto «discorso sul pane della vita» e che era stata sviluppata e ripresa in tutta la tradizione, fino ad apparire anche nell’Imitazione di Cristo (IV,1 1), accettarono che se ne parlasse nella Dei Verbum41.

Nei testi conciliari l’analogia Eucharistiae viene espressa soprattutto attraverso la necessaria venerazione che la Chiesa attribuisce sia alle Scritture sia al corpo e al sangue eucaristici. Emerge su tutti un famoso testo della Dei Verbum: «La Chiesa ha sempre venerato le divine Scritture come ha fatto per il corpo stesso del Signore, non mancando mai, soprattutto nella sacra liturgia, di nutrirsi del pane di vita dalla tavola sia della Parola di Dio che del corpo di Cristo, e di porgerlo ai fedeli» (DV21).

L’analogia è affermata, in particolare, mediante l’espressione «pane della vita» (Gv 6,35.48; cf. 6,33.51), nutrimento spirituale che la Chiesa venera e che prende dalla tavola della Parola e dalla tavola eucaristica. Anche nella frase conclusiva della costituzione conciliare si ribadisce: «Come la Chiesa riceve una crescita di vita attraverso l’esperienza assidua del mistero eucaristico, così si può sperare che scaturirà un rinnovamento di vita spirituale dalla venerazione crescente della Parola di Dio, che «rimane in eterno» (Is 40,8; cf. lPt 1,23-25) (DV 26).

Si potrebbe compiere anche un itinerario liturgico, trovando altri paralleli a sostegno dell’analogia con l’Eucaristia. Primo tra tutti quello riguardante l’unica azione dello Spirito santo che, sceso sui doni, trasforma il pane e il vino nel corpo e nel sangue di Cristo, così come, sceso sull’assemblea e sul lettore delle sante Scritture, risuscita la Parola a partire dalla testimonianza del libro che giace sull’ambone: come la Parola di Dio viene a noi nel corpo di Cristo, nel corpo eucaristico e nel corpo delle Scritture mediante l’azione dello Spirito santo, così essa può essere accolta e compresa veramente solo grazie al medesimo Spirito (VD 16). È lo Spirito santo invocato dall’epiclesi che compie la medesima ope­razione di trasfigurazione della materia – il pane e il vino, così come le sante Scritture (il libro) – in presenza viva del Signore Gesù Cristo, che pone la sua dimora nel cristiano (cf. Gv 14,23; 2Cor 13,5; Gal 2,20). Perciò, «Cristo, realmente presente nelle specie del pane e del vino, è presente, [in modo analogo] anche nella Parola proclamata nella liturgia» (Ib. 56).

Questa dinamica che opera lo Spirito si attua anche nell’ambito della sola li­turgia della Parola, la quale è sempre un atto liturgico capace di provoca­re la presenza del Signore. Come osserva François Cassingena Trévedy: «un atto liturgico che non comportasse una liturgia della Parola, un ascolto della Parola, una fondazione nella Parola, sarebbe una mostruosità e (purché si abbia un minimo di senso teologico e liturgico) dovrebbe a colpo sicuro apparirci come tale» (La Parole en son royaume. Une approche liturgique, Paris 2016, 78).

Sempre nella Verbum Domini Benedetto XVI sottolinea: «quanto sia significativa la testimonianza che troviamo riguardo alla relazione tra lo Spirito santo e la Scrittura nei testi liturgici, dove la Parola di Dio viene proclamata, ascoltata e spiegata ai fedeli. È il caso di antiche preghiere che in forma di epiclesi invocano lo Spirito prima della proclamazione delle letture: “Manda il tuo santo Spirito Paraclito nelle nostre anime e facci comprendere le Scritture da lui ispirate; e concedi a me di interpretarle in maniera degna, perché i fedeli qui radunati ne traggano profitto». Allo stesso modo, troviamo preghiere che, al termine dell’omelia, di nuovo invocano Dio per il dono dello Spirito sui fedeli: “Dio salvatore […] t’imploriamo per questo popolo: manda su di esso lo Spirito santo; il Signore Gesù venga a visitarlo, parli alle menti di tutti e disponga i cuori alla fede e conduca a te le nostre anime, Dio delle misericordie» (VD 16).

Il Cristo Signore si fa presente dove due o tre sono riumiti nel suo nome (cfr. Mt 18,20), e il rac­conto dei discepoli di Emmaus (cfr. Lc 23,13-35) ci dà un esempio di come questo farsi presente può accadere: nell’apertura/spiegazione delle Scritture (vv. 27 e 32) e nella frazione del pane (vv. 32 e 35).

«Cristo è sempre presente nella sua Chiesa, e in modo speciale nelle azioni liturgiche. E presente nel sacrificio della messa, sia nella persona del ministro, […] sia soprattutto sotto le specie eucaristiche. È presente con la sua potenza nei sacramenti, al punto che quando uno battezza è Cristo stesso che battezza. E presente nella sua parola, giacché è lui che parla quando nella Chiesa si leggono le sante Scritture. E presente infine quando la Chiesa prega e canta i salmi» (SC 7).

Allo stesso modo Paolo VI nell’Enciclica Mysterium fidei, subito pri­ma di parlare della presenza reale di Cristo nell’Eucaristia, affermava con chiarezza che in altro modo, ma verissimo anch’esso, egli è presente alla sua Chiesa che predica, essendo il Vangelo che essa annunzia Parola di Dio, che viene annunciata in nome e per autorità di Cristo Verbo di Dio incarnato» (46).

Si può affermare affermare con forza che tutta l’azione liturgica è abitata dalla presenza di Cristo, il Kyrios risorto e vivente, che ren­de la Chiesa da lui radunata il suo corpo reale nella storia. Per que­sto la Presentazione generale del Messale Romano (Institutio generalis Missalis romani) insiste che «Cristo stesso è presente per mezzo della sua Parola, tra i suoi fedeli» (III, n.33) radunati per la liturgia. E parallelamente una preziosa sottolineatura presente nelle premesse all’Ordinamento delle letture della messa (1981), esprime così uno dei compiti di chi presiede la liturgia:

«[Egli] alimenta la fede dei presenti per ciò che riguarda quella Parola che nella celebrazione, sotto l’azione dello Spirito santo, si fa sacra­mento» (41). Origene nelle omelie su Geremia afferma: «Ecco come devi comprendere le Scritture […] come il corpo perfetto del Verbo» (Frammenti citati nella Filocalia II,2). Nonostante tutto questo non si può negare che il popolo di Dio non si è ancora sufficientemente abbe­verato alle fonti, alle indicazioni della riforma liturgica e agli approfon­dimenti teologici odierni, in modo da vedere nella liturgia eucaristica un unico atto di culto: in esso Cristo è presente realmente ed è il Kyrios che regna sull’assemblea, la quale lo acclama Signore perché è lui che così appare, quale è «colui che viene» (cf. Sal 117 [1181,26; Mc 11,9 e par.; Ap 1,4.8; 4,8), il Veniente alla sua Chiesa, quale sacramento del Dio-­con-noi, l’“Immanu’el” (Is 7,14; 8,8.10; cf. Mt 1,23). Si ricordi l’espres­sione paolina: «Cristo ha amato la Chiesa e ha consegnato se stesso per lei, […] avendola purificata con. il lavacro dell’acqua nella parola» (Ef 5,25-26).

Benedetto XVI nell’Esortazione post-sinodale, così conclude il paragrafo 7: «Come hanno affermato i padri sinodali, realmente ci troviamo di fronte ad un uso analogico dell’espressione “Parola di Dio”, di cui dobbiamo essere consapevoli. Occorre pertanto che i fedeli vengano maggiormente educati a cogliere i suoi diversi significati e a comprenderne il senso unitario. Anche dal punto di vista teologico è necessario che si approfondisca l’articolazione dei differenti significati di questa espressione perché risplenda meglio l’unità del piano divino e la centralità in esso della persona di Cristo».

Parola ed Eucaristia in­dicano due modalità della presenza reale del Signore, accessibile solo attraverso l’amore dello Spirito santo effuso nei nostri cuori (cf. Rm 5,5); visibile solo agli occhi della fede, grazie a un’operazione terapeu­tica che solo il Signore può compiere, aprendo la nostra mente (cf. Lc 24,45) alla realtà della presenza del Signore e della co­munione con lui, che è il senso della realtà finché non vedremo il Signore faccia a faccia. —Infatti, «ora vediamo come in uno specchio [antico], in maniera confusa, ma allora vedremo a faccia a faccia» (1Cor 13,12) e che sarà sempre velata sotto la specie delle Scritture e sotto le specie del pane e del vino.