Desiderare humanum est

1° Incontro Claudio Arletti Vai
2° Incontro Luca Mazzinghi – Vai
3° Incontro Maurizio Marcheselli – Vai

Claudio Arletti

1. C. Arletti  Desiderare contro Dio «La donna vide che il frutto era desiderabile» (Gn 3,6)

Nella Bibbia il significato più pieno del termine “conoscenza” è “entrare in relazione con”. Ecco allora «l’albero della relazione col bene e col male». L’albero del bene e del male richiama ad una esperienza totalitaria (tutto è compreso tra il bene e il male), che però è unicamente per Dio. Invece l’uomo è “infinito meno 1”: l’uomo può spaziare quasi ovunque. L’albero del bene e del male indica che l’uomo non è totalità, bensì è il finito che, tuttavia, è chiamato a percorrere la via dell’infinito. Questo albero spalanca all’uomo la relazione, svelando che l’uomo non è totalità: infatti ecco la donna, un aiuto che lo limita, lo confina: ella è un invito alla relazione, a cercare l’altro da sé. Così il limite non fa più problema, se è vissuto in modo comunionale. Pertanto “Desiderare contro Dio” è uscire dalla logica di comunione; è il limite inteso come un luogo di chiusura, al fine di competere e di distanziarsi dagli altri. Però tutto ciò è fuori dal patto di alleanza che Dio ha voluto con l’uomo.

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DESIDERARE CONTRO DIO

«La donna vide che il frutto era desiderabile» (Gen 3,6)[1]

  1. L’uomo e il limite

Quelli di Gen 2-3 sono capitoli ben conosciuti, dove si trova il primo pesante divieto che Dio consegna alla libertà dell’uomo. Fin da subito, nella storia biblica, il desiderio della persona rischia di volgersi contro il proprio Creatore.

Leggiamo in Gen 2,15-17 questa proibizione: «Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse. Il Signore Dio diede questo comando all’uomo: ‘Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, nel giorno in cui tu ne mangerai, certamente dovrai morire’».

Tale divieto ha sempre profondamente offeso la sensibilità occidentale per il suo carattere apparentemente limitante e senza evidenti ragioni. Gen 2 presenta infatti Dio che pone Adamo nel giardino di Eden e gli offre una varietà praticamente sconfinata di alberi a cui accedere. Poi il racconto narra di una doppia presenza: al centro del giardino stanno l’albero «della vita» e l’albero «della conoscenza del bene e male» (2,9). E, dopo l’invito a spaziare e quindi ad assaggiare e a gustare tutti gli alberi del giardino, arriva il divieto, che non è immediatamente comprensibile. Infatti sembra che questo Dio geloso (infatti è tale l’immagine che il serpente ne darà nel capitolo successivo) voglia, in qualche modo, tenere qualcosa per sé. Per fare un paragone semplice: è come se, immaginando di essere ospiti a casa di qualcuno, il padrone di casa spalancasse il frigorifero e offrisse ogni cibo contenutovi, tranne uno, perché quello è assolutamente suo! Così l’ospitalità verrebbe ad essere come sfigurata e compromessa da una incomprensibile mania di possesso. Allo stesso modo, sembra che Dio, il quale colloca Adamo nel giardino affinché lo coltivi e lo custodisca, voglia rimarcare ciò che è suo e che l’uomo non può avvicinare né gustare.

Il divieto è ancora più imbarazzante se si pensa che questo è l’albero «della conoscenza del bene e del male». Nella Bibbia distinguere il bene e il male è la facoltà caratteristica dell’adulto, maturo e consapevole. Invece qui sembra che YHWH vieti alla prima coppia proprio l’albero, che permetterebbe proprio all’umanità di diventare “maggiorenne”.

Si può bene immaginare quanto l’ateismo contemporaneo occidentale sia stato alimentato da tale interdetto, che parrebbe mostrare proprio questo: il Dio della Bibbia vuole un uomo “minorenne”, uno “scodinzolatore” obbediente, che segue i precetti, che sta assolutamente sottomesso, e che non utilizza appieno la propria intelligenza. L’Illuminismo ha presentato e continua a presentare la fede cristiana come oscurantista, perché mantiene l’uomo in una condizione di minorità, quindi di subalternità. È un Dio che vuole un uomo semplicemente vassallo che non ambisca ad una conoscenza reale e integrale.

Per comprendere a fondo il senso del divieto bisogna chiarire alcuni elementi.

Quando si parla di «albero della conoscenza del bene e del male» bisogna riferirsi ad un concetto di conoscenza assai diverso da quello che abbiamo noi occidentali. Ad esempio, nella Bibbia il termine “conoscenza” è usato anche per le relazioni sessuali. Quindi evidentemente non è una conoscenza di carattere intellettuale. Nella Bibbia “conoscere” significa “coinvolgersi con”, “entrare in relazione con”. Pertanto si potrebbe ritradurre: «L’albero dell’esperienza del bene e del male». Non bisogna pensare ad una conoscenza astratta e libresca, che indichi solamente cosa è lecito fare e cosa no. Invece si parla di coinvolgimento, di relazione. Nella Bibbia “conoscere” è coinvolgersi con colui che conosco. Quindi «l’albero della conoscenza del bene e del male» fa riferimento all’esperienza della vita umana, in quanto conosce un estremo ed il suo opposto e dunque la sua interezza.

Questo divieto è, per noi, particolarmente imbarazzante, poiché l’uomo della società occidentale – probabilmente l’uomo in sé – si pone come colui che vuole varcare e oltrepassare qualunque tipo di limite. Lo scrittore Remo Bodei, nel suo volume “Limite” (2016), discute il fatto che l’Occidente e l’umanità intera sembrano forgiati apposta per oltrepassare qualsiasi tipo di confine. Bodei cita un filosofo tedesco, che dice: «L’uomo è l’essere confinario che non ha confini, perché, proprio nel trovarli, per lo più li supera». Il filosofo francese Serge Latouche, in un testo intitolato pure “Limite” (2012), scrive: «Il paradosso occidentale sta nel fatto che l’Occidente, in un certo senso, costituisce una cultura dell’illimitatezza». Sia Bodei che Latouche fanno una lunga carrellata delle semplici scoperte geografiche dell’uomo: c’è l’impulso ad oltrepassare ed andare oltre, anche a costo della vita. Ci sono tante persone che hanno un desiderio incontenibile di oltrepassare il limite, di andare oltre.

D’altronde, che l’uomo sia fatto così lo ha voluto il Creatore stesso: noi siamo fatti «a immagine e somiglianza di Dio» (cf. Gen 1,26). Ciò che esiste sulla terra di più somigliante a Dio senza esserlo, è proprio l’uomo.

Dunque nell’uomo si trova una costante spinta fino all’infinito. Ad esempio, si può pensare alla figura di Ulisse e al suo desiderio di esperire, di conoscere, anche di rischiare per ascoltare il canto delle sirene. Pur con qualche precauzione salubre, c’è sostanzialmente l’impulso a non precludersi nessun tipo di esperienza. È “vietato vietare” un’esperienza, che possa arricchire l’uomo di qualcosa che faccia proseguire il suo slancio.

Bodei ricorda G. Leopardi (1798-1837): nella nota poesia “L’infinito” la sfida, la tensione, la pulsione sta nel fatto che una parte dell’orizzonte è preclusa; e proprio la parte che è preclusa attira l’uomo in un modo irrefrenabile. Bodei cita un testo dello “Zibaldone”: «Qualunque cosa ci richiama l’idea dell’infinito è piacevole per questo, quand’anche non per altro. Così un filare, un viale di alberi di cui arriviamo a scoprire il fine». Qui si coglie la genesi de “L’infinito”. «Questo effetto è come quello della grandezza, ma tanto maggiore quanto questa è determinata e quella si può considerare come una grandezza incircoscritta». Leopardi tornerà ancora sul tema dell’infinito come vocazione dell’uomo.

Dunque l’uomo è chiamato ad auto-trascendersi, ad andare sempre oltre a sé; ed è un dinamismo che, in qualche modo, Dio stesso ha posto nel suo cuore. Pertanto si può affermare che, se l’essere umano non fosse insoddisfatto dentro ai propri limiti, non sarebbe più sé stesso.

A questo essere, spinto verso l’infinito e che ha tale cultura dell’illimitato, ecc., Dio pone un divieto, che sembra il classico divieto posto per provocare l’adolescente! Pertanto ci si trova davanti ad un divieto apparentemente incomprensibile. Anche perché questo Dio della vita e dell’abbondanza sembra compiere un gesto gretto, di avarizia, chiedendo all’uomo di non toccare quello che è il suo “gioiellino”. E il divieto non fa altro che aizzare il desiderio! È proprio ciò che anche Paolo scriverà: la Legge giudaica sembra fatta apposta per scatenare nell’uomo il desiderio del proibito. Ed è esattamente ciò che accade.

[1] Trascrizione della conferenza tenuta a Carpi il 24-01-2016, rivista dall’autore.

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Luca Mazzinghi

2. Desiderare Dio «Ha sete di te l’anima mia, desidera Te la mia carne» (Sal 63,2)

Svariati sono i desideri che vengono espressi nel Salterio. Si va dal desiderio del malvagio (che brama solamente per sé, ma spesso è destinato al fallimento) al desiderio di Dio (che sceglie il monte Sion come luogo della sua dimora). Vi è poi il desiderio di Dio da parte dell’uomo giusto (voler stare con Lui, soprattutto quando all’orante Dio sembra lontano oppure nei momenti di grande difficoltà) e c’è pure l’ascoltare i desideri dell’uomo da parte di Dio, il quale ascolta il povero, fino ad accogliere i desideri dell’intera creazione. Comunque, è solamente se l’uomo desidera Dio, ovvero l’Infinito, che anche il desiderio del finito acquista significato.

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IL DESIDERIO NEI SALMI[1]

  1. Introduzione

Ci occuperemo qui del tema del desiderio nel libro dei Salmi. Chiariamo subito che il desiderio non è il tema principale del Salterio. Ci sono senz’altro diversi testi salmici che parlano, come vedremo, del desiderio, ma non sono così numerosi.

I due grandi protagonisti del salterio sono Dio e l’uomo, in dialogo tra loro. Tra questi due protagonisti si insinua sempre un terzo incomodo: il nemico, che spesso assume la figura personale del malvagio, dell’empio, oppure quella impersonale ma altrettanto concreta del peccato, della morte.

In questo schema di fondo tipico del Salterio il desiderio si inserisce come uno degli elementi che mettono l’uomo in relazione con Dio: ecco allora l’uomo che desidera Dio, oppure l’uomo che non lo desidera.

Val la pena di ricordare che il Salterio, nella sua forma definitiva, risale probabilmente al II secolo a.C., ovvero all’epoca dei Maccabei, e viene completato probabilmente nella diaspora: se la maggioranza dei singoli salmi è stata scritta in terra di Israele, la raccolta finale dei 150 salmi è stata realizzata invece fuori dalla Terra santa. Tanto che, ad esempio, il Tempio non è così importante nel complesso dell’intero Salterio come lo sono invece la Legge e il re-Messia, ovvero ciò che gli Israeliti continuavano ad avere fuori dalla terra di Israele: la Torah mosaica, appunto (cf. il Sal 1), e la speranza nel re-Messia che Dio avrebbe inviato a salvare il suo popolo (cf. il Sal 2). Il Salterio è così il libro di preghiere di un Ebreo nella diaspora: di un povero che ha come unica gioia la Legge del Signore (Sal 1,1-2) e che trova il suo rifugio nella speranza messianica (Sal 2,12):

«Beato l’uomo che non entra nel consiglio dei malvagi, (…)

nella legge del Signore trova la sua gioia,

la sua legge medita giorno e notte» (Sal 1,1-2).

«Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato» (Sal 2,7).

Tornando al nostro tema, quello del desiderio, notiamo ancora come per la Bibbia, nel suo complesso, il desiderio non è qualcosa di negativo in sé: lo diventa però quando l’oggetto del desiderio è errato. L’ultima parola del Decalogo è: «Non desiderare» (cf. Es 20,17). Non si proibisce qui il desiderio in quanto tale, bensì viene proibito un orientamento sbagliato del desiderio: desiderare tutto ciò che appartiene al tuo prossimo. E tuttavia ancora oggi è presente l’idea che il cristianesimo sia una religione che tarpa le ali ai desideri umani: «Non desiderare», come se il desiderare fosse sbagliato in sé e il cristiano dovesse essere necessariamente un asceta. Ma la Bibbia non è su questa linea.

Affronteremo adesso diversi aspetti del desiderio così come sono presenti all’interno del salterio; li ordineremo per quattro temi e, insieme, anche secondo l’ordine di successione dei salmi all’interno del libro.

Un’ultima premessa, da un punto di vista terminologico: è necessario ricordare, anche solo di passaggio, i termini che, in ebraico, indicano il “desiderio” che sono fondamentalmente due: chamàd e ’avàh. Questi due verbi hanno un significato molto vicino: il primo indica il desiderio visto più sotto l’aspetto soggettivo (dunque il desiderio inteso come una carenza che si deve colmare); il secondo indica piuttosto il desiderio inteso sotto l’aspetto oggettivo (ovvero l’oggetto del desiderio, del quale ci si vuole impossessare; nella Bibbia CEI spesso il verbo ’avàh è tradotto con “bramare”). Sono tuttavia fondamentalmente sinonimi e sono senz’altro i verbi principali coi quali la Bibbia ebraica descrive il desiderio.

  1. Il malvagio: colui che desidera per sé e solo per sé

Il primo aspetto che affrontiamo circa il tema del desiderio nei salmi è un aspetto di per sé negativo: leggiamo adesso alcuni testi nei quali si parla del desiderio del malvagio, ossia del desiderio errato dell’uomo. Quasi all’inizio del salterio, al Sal 10, si trova una bella descrizione del malvagio descritto proprio in relazione al desiderare:

«Il malvagio si vanta dei suoi desideri,

l’avido benedice sé stesso» (Sal 10,3).

Il malvagio è qui presentato come un uomo tutto ripiegato su sé stesso, un uomo che «benedice sé stesso». È bella questa frase, e sorprendente, in quanto di solito la benedizione è fatta per gli altri: si benedice Dio, si benedicono le altre persone alle quali si augura il bene. Invece il malvagio benedice sé stesso: «Come mi è andata bene! Come sono bravo! Come mi è riuscito bene questo affare! Quanto ho guadagnato!». Dunque «il malvagio si vanta dei suoi desideri» e «benedice sé stesso» per ciò che ha realizzato, e non per ciò che Dio gli ha concesso: «benedice sé stesso» per i propri desideri, realizzati in forza delle sue attività. Non a caso, egli è paragonato all’avido: «malvagio» e «avido» sono da questo punto di vista la stessa cosa. Il malvagio vive nella dimensione dell’appagamento, del possesso, non in quella del dono. Si potrebbe dire che i desideri del malvagio sono, in realtà, bisogni non soddisfatti. C’è infatti una differenza profonda tra “desiderio” e “bisogno”. Il desiderio fa crescere e apre l’uomo agli altri; il bisogno chiude l’uomo in sé stesso e lo fa inaridire.

Andando avanti nella lettura, verso la metà del salterio, all’interno del terzo libro dei salmi (ricordiamo di passaggio che il salterio è diviso in cinque libri), si trova un esempio tratto dalla storia di Israele. Il Sal 78 è un lungo poema, nel quale il salmista riflette sul peccato di Israele nel deserto. È come una sorta di riflessione poetica sul peccato di Israele nel corso del cammino dell’esodo. Il popolo, nel deserto, ha desiderio di mangiare, di bere e quindi di tornare in Egitto; perciò si lamenta, quasi volesse dire: «Era meglio quando si stava peggio!». Il presente non ci soddisfa mai e ci sembra sempre meschino, rispetto a un passato apparentemente ideale. Israele si lamenta che mancano sia l’acqua che la pentola della carne che mangiava in Egitto; mentre il popolo si dimentica troppo facilmente che in Egitto era schiavo del faraone. Tuttavia la gente spesso preferisce – allora come oggi – essere schiava, ma con la pancia piena, piuttosto che libera, ma con la pancia vuota. La libertà è davvero pericolosa e troppo spesso faticosa; molto meglio una schiavitù dorata, purché non manchi il cibo.

Venendo al tema del desiderio, così leggiamo nel Sal 78:

«Mangiarono fino a saziarsi

ed egli appagò il loro desiderio.

Il loro desiderio non era ancora scomparso,

avevano ancora il cibo in bocca…» (Sal 78,29-30),

[1] Trascrizione della conferenza tenuta al C.I.B. di Carpi il 06-03-2016, rivista dall’autore; si è conservato il tono orale del testo.

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Maurizio Marcheselli

3. Desideri in conflitto «La carne e lo spirito hanno desideri contrari» (Gal 5,17)

Nella persona sono diversi bisogni e desideri. Nella sua riflessione Paolo contrappone i “desideri della carne” ai “desideri dello Spirito”, in quanto l’essere umano è dominato dal Peccato (“hamartía”), una Potenza che lo induce a desiderare ed agire diversamente da come chiede Dio. E la Legge data a Israele non può aiutare, poiché hamartía fa travisare all’uomo il comando di Dio come vuole lui. L’unica via di salvezza può venire da Cristo, morto affinché nessuno fosse più sotto il dominio del Peccato. Allora la libertà dell’uomo risiede proprio nel scegliere continuamente chi seguire: Dio o hamartía.

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DESIDERI IN CONFLITTO

«La carne e lo spirito hanno desideri contrari» (Gal 5,17)[1]

Il nostro tema è “Desideri in conflitto” e, come sottotitolo, abbiamo un versetto della lettera ai Galati: «La carne e lo spirito hanno desideri contrari». Dunque Paolo è la voce prevalente.

Inizieremo con due premesse: una sul lessico che il Nuovo Testamento (NT) usa per indicare l’ambito del “desiderio”; la seconda premessa sarà una riflessione generale di tipo antropologico, che svilupperemo proprio in rapporto a qualche versetto del NT.

  1. Prima premessa: il lessico neotestamentario del Desiderio

Senza operare un’indagine lessicale esaustiva, ci soffermiamo solamente sulle due parole principali con le quali il NT esprime ciò che in italiano traduciamo con “desiderare” o che, comunque, attiene a tale sfera. I due verbi greci sono: “epithymeô” e “thelô”. Il primo di norma è tradotto con “desiderare”, ma talvolta anche con “bramare”, “concupire”. Il secondo è un verbo di portata più ampia, che significa “volere”; e questa “voglia” è quella che, di fatto, si intende con “desiderio”. Dunque questi sono i due verbi principali.

Hanno la caratteristica di essere ambigui, in particolare epithymeô. Non sono termini univoci, e già questo è un motivo di riflessione.

Il verbo epithymeô, col suo sostantivo epithymia, può essere impiegato per tutte le sfumature del desiderio. Quindi può avere una connotazione assolutamente neutra; può avere anche una connotazione positiva, quella di un desiderio buono; infine può avere una connotazione negativa, per cui più volte è tradotto con “brama” egoistica o con “concupiscenza”. Solitamente il termine epithymia sta dietro alla parola “concupiscenza”, quando la si trova nel NT.

Ripetiamo che già questo è un elemento interessante: la natura ambigua del desiderio. È solamente il contesto che decide della sfumatura: il termine in sé può esprimere tutta la gamma del desiderio. Non è la parola che decide la sfumatura del desiderio, bensì è il contesto.

Lo stesso si può dire del verbo thelô, che indica “volere”. Ha una portata più ampia; la volontà non è sempre collegata a ciò che noi intendiamo in senso stretto con “desiderio”. Però in diversi casi c’è una certa incidenza di questo tipo di sfumatura. E vale pure qui il discorso appena fatto. Infatti questa voglia, espressa col verbo thelô, può avere tutte le sfumature possibili: può essere una voglia egoistica, di possesso; ma può essere anche una tensione positiva verso qualcosa di buono.

Quindi, già a livello della formulazione linguistica, il desiderio si presenta come ambiguo.

Aggiungiamo un’altra considerazione: nell’antropologia biblica il cuore è l’organo centrale della persona umana. Quella biblica è essenzialmente un’antropologia olistica, unitaria. Da tale punto di vista il cuore è molto più di ciò che è il cuore nelle lingue moderne. Nella Bibbia il cuore è un organo estremamente sintetico, che raccoglie molte funzioni che noi moderni tendenzialmente dividiamo, assegnandone un po’ al cuore, un po’ alla mente, un po’ alla coscienza. Abbiamo “appaltato” una serie di funzioni ad organi diversificati.

Invece nella Bibbia il cuore (in greco: “kardìa”; in ebraico: “lév”) assomma in sé tutte queste caratteristiche, quindi è la sede degli affetti ed anche dell’intelligenza, del ragionamento; dunque è lo strumento con cui si discerne. È anche l’organo con cui si decide: è la sede della volontà. Nella Bibbia questo organo così complesso è percepito come intrinsecamente ambiguo: essendo la sede della volontà, e pertanto orientandola, è proprio un organo essenzialmente ed intrinsecamente ambiguo. Nel libro del profeta Geremia si legge: «Niente è più infido del cuore e difficilmente guarisce. Chi lo può conoscere? Io, il Signore, scruto la mente e saggio i cuori, per dare a ciascuno secondo la sua condotta, secondo il frutto delle sue azioni» (Ger 17,9-10). È una constatazione della radicale ed intrinseca ambiguità che c’è in questo organo centrale della persona umana. Il cuore è veramente il centro della persona; ma è un centro intrinsecamente ambiguo. Ed è – lo ripetiamo – l’organo col quale si discerne e si prendono le decisioni, si orienta la volontà.

Questa è una prima premessa che pone la base per i testi che rapidamente commenteremo.

[1] Trascrizione della conferenza tenuta a Carpi il 08-02-2015, rivista dall’autore.

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