Letture festive – 64. Tradizione – Natale del Signore – Messa dell’aurora

Briciole dalla tavola. Vangelo per senza Dio

di Alberto Ganzerli

Natale del Signore – Messa dell’aurora – 25 dicembre 2022
Dal libro del profeta Isaìa – Is 62,11-12
Dalla lettera di san Paolo apostolo a Tito – Tt 3,4-7
Dal Vangelo secondo Luca – Lc 2,15-20


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letture festive 64

Le celebrazioni delle feste natalizie hanno da sempre un forte legame con la tradizione e con le tradizioni, come quella dello scambio di regali o quella del festeggiare riuniti in famiglia. Si tratta di tradizioni precristiane, come quella dell’accensione delle luci nei vari luoghi e sull’albero, ma anche di tradizioni tipicamente cristiane. Abbiamo infatti la tradizione del presepe – una geniale invenzione francescana – e quella delle musiche e dei canti di Natale, originariamente religiosi ma più recentemente anche laici, benché collegati a tematiche natalizie. Il profeta Isaia richiama elementi importanti di ogni tradizione quando proclama che il Signore fa sentire qualcosa (e qualcosa di importante: l’arrivo di un salvatore, di un premio, di una ricompensa) e quando richiama un essere non abbandonati ma, al contrario, un essere cercati amorevolmente. Di ogni tradizione rilevante si dice che è sentita, perché il sentire – che si tratti dei diversi sensi fisici o delle emozioni e dei sentimenti più personali e nascosti – ne costituisce una componente antropologica fondamentale. Una tradizione, infatti, tanto per i con Dio quanto per i senza Dio, è sentita quando riesce a coinvolgere personalmente attivando emozioni e affetti e questa esperienza, quando è positiva, diventa una sorta di esperienza di salvezza, nella quale il premio e la ricompensa di cui parla Isaia diventano il dono dello stesso sentirsi in qualche modo salvati e custoditi nel bene. Una tradizione non sentita, al contrario, finisce per diventare una tradizione estranea, che ha perso il suo valore e il suo significato, diventando vuota e inutilmente ripetitiva. Ma il sentire qualcosa, in particolare nel caso di una tradizione, è condizionato da diversi fattori, alcuni individuali e occasionali ma altri fortemente caratterizzati sul piano sociale e culturale. Se è vero, infatti, che alcune tradizioni sono comuni e trasversali a diverse società e culture, molte altre tradizioni, invece, sono sentite e vissute autenticamente solo in uno specifico contesto sociale e culturale, mentre chi appartiene ad altri contesti non riesce a sentirle e talvolta nemmeno a comprenderle.

L’autore della lettera a Tito presenta due elementi tra loro collegati che si possono ben collocare al centro della tradizione e delle tradizioni natalizie: l’apparire e il manifestarsi, in una vera e propria epifania, di qualcosa di centrale e fondamentale: la bontà e l’amore per gli esseri umani, che nel testo della lettera viene chiamato, con termine greco, filantropia. Qualcosa che non appare e non si manifesta in alcun modo visibile non può costituire una tradizione, così come non può esservi tradizione cristiana – e nemmeno tradizione natalizia – senza un radicamento nella bontà e nella filantropia, nell’amore per gli esseri umani. Si tratta di due aspetti che potrebbero sembrare in contraddizione, anche in base a quanto leggiamo nelle pagine evangeliche che condannano l’ipocrisia e il voler apparire buoni, quasi a suggerire che il manifestarsi visibilmente e l’apparire siano incompatibili con una sincera volontà di operare il bene animati da uno spirito autenticamente filantropico. Se certamente esistono pagine neotestamentarie che – con ottime ragioni – vanno in questa direzione, ne esistono però anche altre che evidenziano aspetti diversi, a partire dall’immagine della lampada che va accesa e collocata in alt o perché tutti vedano la luce. La festa e le tradizioni del Natale si pongono in questa seconda prospettiva, per cui vi è, insieme all’umiltà e al nascondimento nel fare il bene, anche l’esigenza che il bene e la filantropia siano manifestate e appaiano pubblicamente, tanto quelle operate dai con Dio quanto quelle operate dai senza Dio. Ciò è quanto effettivamente avviene in molti casi, anche attraverso le tante forme delle tradizioni natalizie, nonostante ciò che di inautentico, consumistico e poco evangelico troviamo talvolta mescolato in queste tradizioni.

Il testo evangelico, che ci presenta il quadro della natività e dei pastori, arricchisce ulteriormente il nostro sguardo sulle tradizioni natalizie ma anche su ciò che nel cristianesimo e nella vita della chiesa viene chiamata Tradizione vivente, quella scritta con la T maiuscola. Si tratta, paradossalmente, di qualcosa che non è mai perfettamente definibile nei suoi limiti precisi ma, allo stesso tempo, è assolutamente fondamentale. La Tradizione vivente, infatti, si potrebbe intendere come tutto ciò che nella vita delle chiese cristiane viene trasmesso e tramandato (a questo fa riferimento il termine tradizione) come un patrimonio prezioso, perché queste stesse comunità ecclesiali siano il contesto e l’ambiente nei quali la fede cristiana dei singoli possa nascere, crescere ed essere sperimentata. Se la fede che ogni singolo cristiano vive non è trasmissibile come tale da persona a persona, nella sua dimensione di libera scelta, l’insieme di quanto concretamente costituisce l’ambiente dove fare esperienza di chiesa si può e si deve invece trasferire da una generazione all’altra, come un patrimonio che si lascia e si riceve in eredità. Ciò tuttavia non è mai garantito, soprattutto nei cambiamenti d’epoca come quello nel quale siamo immersi, dove le cesure e le discontinuità culturali sembrano rendere obsoleti e inservibili – perché non più sentiti né comunicativi – molti aspetti tramandati della tradizione religiosa, cristiana e cattolica, mettendo a rischio in questo modo il contesto in cui potrebbe nascere e crescere la fede dei singoli. La tradizione del Natale sembra invece mantenere una forza comunicativa che troviamo anche nella potente e ricca simbologia di questo passo evangelico. L’evangelista Luca – che nei versetti precedenti ha raccontato come gli angeli siano apparsi ai pastori, annunciando loro la nascita di un salvatore e il segno di un neonato in una mangiatoia – in questo testo descrive il cammino verso Betlemme dei pastori, intenzionati a vedere l’avvenimento che è stato fatto loro conoscere. Ma questa narrazione evangelica del Natale potrebbe essere interpretata anche come una triplice rappresentazione di ciò che la Tradizione vivente dovrebbe essere, per i con Dio e per i senza Dio: anzitutto un tempo nel quale qualcuno che ha ricevuto un messaggio di salvezza da un altrove – i pastori – s’incammina, per trasmetterlo a propria volta e per cercare dove i segni trovino riscontro in una realtà che suscita stupore e gratitudine; poi un luogo, il cuore di una persona – Maria – qui rappresentata come il prototipo di ogni credente, che custodisce e medita quanto ascoltato da un annuncio esterno, per cogliere la ricchezza di ciò che ha partorito dopo averlo portato lungamente dentro di sé; ma, infine, anche il simbolo di un nutrimento – la mangiatoia che contiene il neonato Gesù Salvatore – mangiatoia che l’evangelista colloca a Betlemme, il cui nome ebraico significa “casa del pane” e quindi con un forte rimando a tutto ciò che può essere un’esperienza spiritualmente nutriente e salvifica, come quella che vorremmo si realizzasse per noi e per tutti a Natale …e ovviamente non solo a Natale.