Letture festive – 76. Distaccarsi – 2a domenica di Quaresima – Anno A

Briciole dalla tavola. Vangelo per senza Dio

di Alberto Ganzerli

2a domenica di Quaresima Anno A – 5 marzo 2023
Dal libro della Gènesi – Gn 12,1-4a
Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo a Timòteo – 2 Tm 1,8b-10
Dal Vangelo secondo Matteo – Mt 17,1-9


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letture festive 76

Nel testo di Genesi la richiesta di distaccarsi sta all’origine del cammino di Abram e si tratta certamente di un momento fondamentale per il popolo che lo riconoscerà come patriarca, cioè come iniziatore e padre della lunga catena di tradizione biblica ed ebraica. È interessante notare che il primo ordine divino al patriarca che diventerà padre del suo popolo riguarda il distaccarsi dalla casa del proprio padre, così come dalla propria terra e dalla propria parentela. Si tratta quindi della richiesta di distaccarsi da tutto ciò che costituisce e rappresenta un legame forte e originario. Ciò che viene prospettato ad Abram è una parola di bene, che lo renderà a sua volta come un parola di bene per altri, unita a una promessa di accrescimento, l’essere reso grande del suo nome e il diventare una grande nazione. Ma per essere padre e diventare un patriarca che dà inizio a un popolo, Abram deve anzitutto distaccarsi dal proprio padre. Per collocarsi all’inizio di una tradizione Abram deve in qualche modo rompere con la tradizione dalla quale proviene. Principio e condizione di crescita e moltiplicazione diventa qui il distaccarsi da ciò che ci precede, da cui proveniamo e che ci ha cresciuti. Da tutto ciò ci si deve distaccare per consentire l’avvio di una nuova storia, per diventare capaci di parole di bene, per essere agli inizi di qualcosa che diventerà grande. E questo è vero tanto per i con Dio quanto per i senza Dio. Si tratta di quella che Michel De Certeau avrebbe chiamato una frattura instauratrice, una rottura, una cesura, un distaccarsi che crea le premesse necessarie per l’instaurarsi di qualcosa di nuovo, di produttivo e di fecondo.

Anche nel passo della seconda lettera a Timoteo, il distaccarsi si collega a una chiamata alla fede che comporta un certo grado di sofferenza. La sofferenza è anzitutto quella causata dai persecutori, una sofferenza che si è disposti ad affrontare insieme, come credenti, per restare fedeli al Vangelo. Ma in realtà vi è anche una sofferenza meno evidente, ma non meno significativa: quella che si produce quando si accetta la chiamata del Vangelo. Questa chiamata, infatti, non avviene in base alle nostre opere, dalle quali invece ci viene chiesto di distaccarci, ma in base a una gratuità che non è conquistata da noi e che procede, invece, secondo un progetto di cui non abbiamo il pieno controllo. Se la sofferenza prodotta dai persecutori è per lo più evidente, visibile e può cessare quando termina la persecuzione, la sofferenza prodotta dal distaccarsi richiesto dalla fede presenta invece caratteristiche diverse. Si tratta di una sofferenza interiore, prodotta e alimentata dal nostro ricorrente tentativo di prendere e mantenere il controllo sulla nostra esistenza. Questo è, infatti, ciò che cerchiamo di fare attraverso lo svolgimento di buona parte delle opere nelle quali quotidianamente ci impegniamo. Ma precisamente da queste opere, da questo impegno, da questo fare operoso e magari lodevole perché a favore di altri, siamo chiamati a distaccarci, non nel senso di rimanere inoperosi e pigri, ma nel senso di non cercare attraverso questa operosità la salvezza della nostra vita. Il richiamo alla figura del Cristo Gesù morto e risorto, che il testo della lettera a Timoteo colloca insieme nell’eternità e come figura rivelata ora per noi, ha precisamente questo obiettivo: ricordare a tutti, con Dio e senza Dio, che solo chi rinuncia a salvarsi da sé – distaccandosi in questo senso da opere che pure vanno compiute – si pone nella condizione di sperimentare la salvezza per la propria vita. Una vita che risulterà infine salvata, perché avrà assunto – nel percorrere il tempo che le è concesso – i tratti di un progetto riuscito e sostenuto dalla gratuità.

L’episodio evangelico della cosiddetta trasfigurazione, raccontato da Matteo, potrebbe essere letto come un succedersi di movimenti prodotti dal ripetuto distaccarsi – da qualcuno o da qualcosa – dei tre discepoli Pietro, Giacomo e Giovanni. All’inizio abbiamo infatti il loro distaccarsi dal gruppo degli altri discepoli, per essere condotti da Gesù sul monte. Qui non vorrebbero più distaccarsi da quella che si presenta in un primo tempo come l’esperienza luminosa, bella e gratificante del contemplare la conversazione di Gesù con Mosè ed Elia. Ma da questa condizione di beatitudine vengono bruscamente distaccati dalla voce che completa la teofania, provenendo da una nube che oscura la luce iniziale. L’invito all’ascolto del Figlio amato proveniente dalla voce celeste produce sui tre discepoli un effetto paralizzante, che li fa cadere con la faccia a terra – quindi senza vedere più nulla – e pieni di timore. A distaccarli da questa condizione sono il tocco e la parola di Gesù, che li riporta a una normalità nella quale sembra non sia accaduto nulla. Ma nello scendere dal monte Gesù richiede ai tre discepoli un ultimo distaccarsi: quello dalla tentazione di parlare con qualcuno della loro esperienza visionaria prima della resurrezione dai morti del Figlio dell’uomo. Come i tre discepoli del racconto evangelico anche noi, con Dio o senza Dio, possiamo fare esperienze singolari che in qualche caso ci distaccano dagli altri, esperienze che si rivelano così gratificanti che non vorremmo più distaccarcene. Ma anche in questi casi rimaniamo esposti al possibile subentrare di qualcosa di nuovo che ci distacca bruscamente dalla nostra temporanea beatitudine: un appello ad ascoltare davvero qualcuno che prima ci eravamo limitati a contemplare come in uno spettacolo, l’oscurarsi improvviso di un cielo che prima era luminoso, il ritrovarci improvvisamente atterrati e atterriti, senza poter vedere più nulla. Da questo stato di prostrazione e di timore possono però distaccarci il tocco e la parola di Gesù, tocco e parola capaci di rialzarci, tocco e parola ai quali possiamo scegliere di esporci ogni volta che ci poniamo in ascolto dei Vangeli. Perché forse possiamo immaginare che ciò di cui Mosè ed Elia parlano con Gesù sul monte sia l’esperienza del distaccarsi: attraverso l’esodo per Mosé e attraverso il rapimento in cielo per Elia. In questo senso l’ammonimento finale di Gesù vale anche per noi: possiamo parlare delle nostre esperienze di fede – perché le abbiamo in qualche modo comprese – solo dopo aver letto e riletto i Vangeli fino in fondo e fino alla fine, perché in fondo e alla fine anche Gesù finisce per distaccarsi e somigliare così a un Mosé che compie il suo esodo e a un Elia che viene rapito in cielo.