“Ascolta Israele!”, alla scuola del Deuteronomio

Germogli

germogli” è una collanina, nata quasi per caso, dopo una riunione nella quale mi era stato chiesto di proporre una breve meditazione;

germogli” è una cosa piccolissima, debole, un timido inizio, niente di ambizioso;

germogli” ha la pretesa di mettere in comune qualche passo nel cammino di fede guardando alla Scrittura e sapendo che «né chi pianta è qualcosa, né lo è chi irriga, ma è Dio che fa crescere» (1Cor 3,7).

Alberto Bigarelli

di Alberto bigarelli

Riporto con pochi aggiustamenti l’articolo di Pietro Bovati S.J., Beati coloro che ascotano la Parola di Dio – Alla scuola del Deuteronomio, La Civiltà Cattolica, 4042, 2018, 313-324

  1. «Ascolta, Israele» – Questo è l’imperativo che contraddistingue il libro del Deuteronomio, il quinto del Pentateuco: non solo introduce in Dt 6,4 uno dei passi più importanti di tutta la tradizione religiosa di Israele (il celebre Shemà Israel), ma funge da leitmotiv introduttivo per le principali sezioni della parte esortativa del libro (Dt 4,1; 5,1; 6,4; 9,1). Il verbo shama («ascoltare»), d’altra parte, ricorre ben 86 volte nel Deuteronomio, con grande rilevanza teologica, avendo per oggetto il Signore e/o la sua Legge. L’invito ad ascoltare va dunque ritenuto un motivo tematico capace di riassumere l’intero messaggio del Deuteronomio; e poiché questo libro raccoglie il testamento spirituale di Mosè, possiamo affermare che in esso risuona l’appello della più autorevole voce dell’Antico Testamento, quale via che porta alla vita (Dt 30,19-20).

   Il comando di ascoltare venne trasmesso di generazione in generazione, fino a giungere a noi, lettori odierni della divina Scrittura, eredi del patrimonio spirituale dei nostri «padri», e si coniuga con il monito evangelico a essere attenti e intelligenti quando ci parla il Signore: «Chi ha orecchi, ascolti!» (Mt 13,43); «Fate attenzione a come ascoltate; perché a chi ha, sarà dato, ma a chi non ha, sarà tolto anche ciò che crede di avere» (Lc 8,18). In un mondo come il nostro, distratto e superficiale, in una società divenuta incapace di apprezzare parole impegnative, l’imperativo dell’ascolto risulta particolarmente opportuno. Ed è in atteggiamento di preghiera che davvero si presta orecchio al Signore.

  1. L’appello ad ascoltare – Ci fu un tempo, dice il racconto biblico, in cui tutto Israele udì la voce stessa di Dio, che parlò con fragore di tuono, in mezzo al fuoco, dalla montagna santa (Es 19,16-19; 20,22; Dt 4,12; 5,4.22). Fu un momento di breve durata, privilegiato e unico, che marcò gli inizi storici del popolo dell’alleanza, quando il Signore si manifestò direttamente ai «padri» (Dt 4,32-33; 5,3-4.24), così che tutti imparassero a «temere» Dio (Es 19,20), a entrare cioè in una riverente e riconoscente relazione con l’invisibile Origine della vita.

   Ci fu poi un altro tempo, concomitante con il primo, ma da chiaramente disgiunto, un periodo assai più lungo, in cui la Parola del Signore fu comunicata solo a Mosè, e da questi trasmessa oralmente al popolo (Es 19,16-21; Dt 5,23-31). Il solo modo di nutrirsi di ciò che «esce dalla bocca» di Dio (Dt 8,3) era dunque quello di ascoltare ciò che diceva il profeta (dapprima Mosè e, in seguito, qualcuno simile a Mosè: Dt 18,15), sulle cui labbra il Signore poneva le sue parole (Dt 18,18; Ger 1,9). La voce di Dio che risuona nella voce del suo messaggero diventa umile, persino fragile e balbettante (Es 4,10-12; Ger 1,5-7; 2 Cor 10,10). Si richiede allora un «cuore» più perfetto nel «timore del Signore» (Dt 5,29), quando la presenza gloriosa dell’Altissimo si nasconde, anche se traspare nell’irraggiamento del volto del suo «servo» (Es 34,29-35; Mt 17,2; At 6,15) e nei segni e prodigi operati dalla sua mano (Dt 34,11-12; Mc 16,20; At 2,22). Ma, se non si lascia la santa montagna della teofania, se non si accetta cioè la storia con le mediazioni umane che essa comporta, non si diventa rispettosi del modo con cui Dio chiede che lo si ascolti.

E c’è poi un terzo momento nella storia biblica, il più lungo di tutti, simbolicamente iniziato con la morte di Mosè e sigillato definitivamente con la fine della profezia canonica. È questa l’era millenaria dello scritto sacro e dei suoi lettori. È questo il nostro tempo, tempo della parola di Dio silenziosa, del Verbo che si è fatto scrittura, della Voce che ci è consegnata nel libro affidato ai custodi della Parola: «Mosè scrisse questa legge e la diede ai sacerdoti figli di Levi, che portavano l’arca dell’alleanza del Signore, e a tutti gli anziani d’Israele» (a 31,9). È il lettore a diventare adesso protagonista nella storia della rivelazione; è lui il corpo parlante che, ripieno Spirito, fa sgorgare dalle sue labbra le sillabe contemplate con gli occhi, e comprese nell’assidua meditazione del cuore (Dt 6,6). Dalla voce potente del Sinai al silenzio dello scritto sacro si disegna una parabola che descrive il compimento perfetto della rivelazione di Dio; perché l’eterno progressivamente si ritira, allo scopo di promuovere l’uomo nella sua libertà e nella sua creativa capacità espressiva, per una vita di autentica gioia: «Ascolta, o Israele, bada di mettere in pratica i comandamenti, perché tu sia felice», (Dt 6,3; 30,8-10).

C’è il rischio tuttavia che il libro sacro, a motivo del suo silenzio e della sua stessa natura manipolabile, venga sepolto, magari sotto altri libri ritenuti più utili o più attuali, oppure vada finire fra i ruderi di una cultura giudicata obsoleta, o venga dimenticato perché relegato in luoghi non più frequentati. Così avvenne per il libro della Legge del Signore, secondo quanto ci riferisce 2Re 22, in un racconto che, più che biasimare i responsabili dell’abbandono del testo sacro, celebra la gioia stupefatta della sua scoperta. Quasi per caso, durante i lavori di restauro del tempio di Gerusalemme, venne infatti ritrovato il rotolo della Legge mosaica. Quasi per caso, ma in realtà per un dono mirabile di Dio, scavando con intento religioso si scopre un tesoro, ci si imbatte in una perla d’inestimabile valore, per la quale vale la pena di vendere tutto, così da acquisirla e portare a compimento la propria gioia (Mt 13,44-46). Questa «scoperta» si realizza in verità ogni volta che la Parola di Dio rivela alla nostra coscienza la sua verità, ogni volta che davvero la ascoltiamo.

Parlando dell’ascolto e delle sue esigenze, si possono evidenziare le condizioni di silenzio, esteriore e interiore, indispensabili perché la Parola penetri nel cuore e lo vivifichi (come è suggerito dalla parabola del seme: Mt 13,3-23). Si può anche sottolineare la forza creatrice della Parola di Dio che, uscita dalla sua bocca, non ritorna a lui senza aver realizzato ciò per cui l’ha inviata (Is 55,11); il lettore attento sperimenta davvero quanto essa sia «viva ed efficace», capace di penetrare nelle profondità della coscienza, rivelando i segreti del cuore (Eb 4,12-13). E da queste considerazioni promana perciò l’invito ad assumere radicalmente, nell’atto della lettura, la condizione di spirituale passività: l’atto dell’ascolto è infatti docilità (Is 50,4-5), è piena ricettività, è quella disposizione dell’animo che si lascia plasmare dalla soave forza del Creatore, perché è lui che, parlando nell’intimo, suscita in noi il sentire e l’agire. Una tale modalità d’intendere l’ascolto è fondamentale, non se ne potrà mai sminuire il valore, né si dovrà scordarla nella pratica: è così che si esprime la fede, è questo il luogo nel quale si radica un’umile condotta obbediente ai comandamenti, priva di qualsiasi compiacimento, tutta protesa al canto di lode.

Il racconto della scoperta del libro della Legge in 2Re 22 – evocato poc’anzi – ci invita però a modulare l’imperativo dell’ascolto prospettandone piuttosto la dinamica attiva, per la quale l’uomo, pur riconoscendo pienamente che è lo Spirito di Dio a operare, assume consapevolmente e diligentemente tutte le sue personali risorse, così da «obbedire» a Dio «con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze» (Dt 6,5). L’impegno e il travaglio operativo dello spirito umano nell’ascolto obbediente vengono espressi, nella narrazione di 2Re 22, dal fatto che alla riscoperta e alla valorizzazione del libro della Legge collaborarono concordemente i rappresentanti delle tre istituzioni fondamentali del popolo d’Israele: il sacerdote, il re e il profeta.

Infatti, fu il sacerdote Chelkia a ritrovare il libro, in occasione dei lavori di restauro del santuario di Gerusalemme (2Re 22,8): una riforma liturgica, indirizzata a favorire una migliore preghiera, produsse il rinvenimento di una parola divina dimenticata da tempo immemorabile. Il sacerdote poi mobilitò immediatamente il re Giosia e i suoi ministri (vv. 9-10); venne così coinvolta l’istanza sapienziale, che, assumendo il dovere di un intervento pianificato e sistematico, predispose e attuò la demolizione di tutti i luoghi idolatrici, in modo che venisse concretamente promossa l’adorazione dell’unico vero Dio, che è il Signore (2Re 23,1-25). A sua volta, il re richiese e ordinò il ricorso al profila – in questo caso, la profetessa Culda -, a cui venne demandato il compito di confermare curie divino il testo ritrovato, e di attestare, mediante l’urgenza dei provvedimenti da attuare, tutte le valenze di minaccia e di speranza insite nella Parola di Dio (2Re 22,14-20).

Ebbene, le tre figure istituzionali che, nel racconto del Libro dei Re, collaborarono nella scoperta e nella valorizzazione del libro sacro sono in realtà il simbolo delle tre dimensioni spirituali che definiscono lo statuto del figlio di Dio, chiamato a obbedire al Padre. Il credente – che sa di essere, per il battesimo nel Cristo, sacerdote, re e profeta – metterà in atto la sua natura profonda, quando attiverà le sue tre costitutive dimensioni interiori, per un ascolto del Signore che raggiunga la sua perfezione.

  1. La dimensione sacerdotale dell’ascolto – Il sacerdote rappresenta la memoria religiosa d’Israele; lo attesta Ml 2,7, come pure Dt 31,97,13. Quest’ultimo brano ci ricorda che lo scritto sacro, riposto nell’arca dell’alleanza (cf. Dt 10,5; 31,26), venne consegnato ai leviti, «portatori» dell’arca stessa (Dt 10,5.8), venne cioè affidato ai testimoni e ai custodi del patto con Dio. «Custodire il libro» non significa solo possederlo materialmente: con questo verbo l’autore sacro indica piuttosto la scrupolosa vigilanza, la difesa appassionata e la convinta responsabilità nell’appropriazione del tesoro affidato. L’arca, in realtà, è la figura del corpo (di ogni israelita) che conserva nel suo cuore la memoria gioiosa della comunione con il suo Signore; e tale tesoro è principio di intelligente interpretazione di ogni realtà (Dt 4,9-10). La custodia dello scritto rende inoltre possibile la lettura pubblica, che fa udire la voce di Dio «agli orecchi di tutti» (Dt 31,11), anche a coloro che ancora non la conoscono (v. 13), così che ognuno viva della Parola. L’atto rituale della lettura assembleare, presieduto e realizzato dal sacerdote, è segno sacramentale del «servizio divino», che rende presenti, vive e attuali le antiche parole. Così si attua la «diaconia della Parola» (At 6,4). Chi, come fedele ministro del Signore, custodisce nel suo intimo i suoi comandamenti (Gv 14,23), diventa mediatore di bene, nell’atto di comunicare ai fratelli la ricchezza del messaggio divino. Senza custodia, senza una personale appropriazione, senza grande familiarità con le Sante Scritture non ci potrà essere né culto autentico, né efficace predicazione.
  2. Il luogo sacro – La lettura del libro di Dio avviene nel Tempio, «davanti al Signore, tuo Dio», nel «luogo che il Signore avrà scelto» (Dt 31,11). La sacralità dell’edificio, che è «casa di preghiera» (Is 56,7), e la particolarità della lettura liturgica, che evoca e attualizza la presenza del Signore, concorrono a favorire un ascolto adorante. In questa sacra azione rituale, l’intento non è quello di sviluppare delle conoscenze in materia religiosa, né di produrre eventuali convergenze ideologiche: si vuole piuttosto facilitare l’atto di sottomissione della mente e del cuore alla benevola manifestazione del volere salvifico di Dio. È la lettura della Parola di Dio nel «santuario» che fa cadere in ginocchio, che induce a prostrarsi con la faccia a terra, dicendo: «Amen, amen», come fecero gli israeliti ascoltando i brani della Legge proclamati da Esdra (Nee 8,5-6).

Il momento della lettura. Secondo l’indicazione di Dt 31,10, la solenne proclamazione della Legge venne prescritta con scadenza settennale. Ciò non significa però che la lettura del testo sacro debba essere limitata a occasioni così dilatate nel tempo; la pratica sinagogale comprova di fatto l’impegno costante della comunità giudaica nell’assimilare la Parola. In realtà Mosè, con la sua precisazione legale, fa coincidere la lettura solenne della Tórah con «l’anno della remissione» (Dt 31,10), con il momento cioè in cui veniva proclamata la liberazione degli schiavi e attuato il condono dei debiti (Dt 15,1-2). Questa coincidenza fa capire che la Parola di Dio è sempre portatrice dell’annuncio gioioso dell’«anno di grazia» (Lc 4,19); essa è rivelazione della divina generosità che accorda la libertà ai prigionieri e il perdono ai peccatori (Is 61,1-3); e, al tempo stesso, la medesima Parola chiama l’intera comunità alla remissione dei debiti, sollecita ad abolire ogni forma di schiavitù, invita alla sincera ricomposizione dei conflitti. Il sacerdote, custode del libro sacro, è il garante istituzionale che l’ascolto della Parola operi realmente questo effetto di universale riconciliazione e di nobile promozione della dignità umana.

  1. In povertà – Sempre secondo Dt 31,10, la lettura del sacro testo avviene il giorno della festa delle Capanne, quando si celebra la gioia del raccolto, al termine del ciclo annuale. Ancora una volta, sarebbe errato limitare a una sola occasione il dovere di far udire, attingendo al memoriale antico, la voce imperativa di Dio. È importante capire che in tale circostanza, quando il contadino si rallegra «per il prodotto dell’aia e del torchio» (Dt 16,13-14), il sacerdote ricorda a ognuno dei circostanti che tutto ciò che possiede è dono: il raccolto viene sì dalla terra coltivata dall’uomo, ma è frutto della benedizione del Signore (Dt 16,17). Il celebrante, mediante la lettura del testo sacro, evocando la storia dell’esodo e risalendo fino alla creazione, fa comprendere quale sia l’origine di ogni bene goduto dall’israelita; fa così intendere ai figli di Giacobbe che il vero e supremo dono non è il suolo arato e seminato, non è il pane e il vino, l’olio e il fico, ma il Signore stesso, da cui proviene ogni elemento vitale. E può testimoniarlo, con limpidezza credente, perché, secondo la Legge divina, il sacerdote non possiede nessun campo, e non trae quindi dalla terra il suo alimento, ma vive di Dio.

   I membri della tribù di Levi infatti, al momento della spartizione della terra di Canaan, vennero esclusi dal possesso perpetuo di terreni coltivabili (Gs 13,14.33). Da qui lo statuto religioso che li caratterizza, come segno della fede in Dio: «I sacerdoti leviti – dice Dt 18,1-2 – […] non avranno parte né eredità insieme con Israele […]; [il sacerdote] non avrà alcuna eredità tra i suoi fratelli: il Signore è la sua eredità, come gli ha promesso» (cf. anche Nm 18,20-24; Dt 10,9; Ez 44,28-29;

Sal 16,5). Il sacerdote ha Dio come possesso permanente; è questa la sua ricchezza, è questa la fonte della sua vita. L’ascolto perfetto della Parola si realizza allora come ascolto «in povertà», quando il credente rinuncia a ogni ricchezza materiale, per gustare di quell’unico bene che è Dio, il solo a dare vita e a saziare il cuore (Dt 8,3; Gv 6,63).

  1. La dimensione regale dell’ascolto – L’aspetto regale dell’ascolto si dispiega come l’attivazione di significative operazioni sapienziali. Il sacerdote, abbiamo detto, costituisce la memoria adorante del dono divino; il re invece rappresenta il travaglio dell’intelligenza, unita all’operosità che trasforma il mondo, rendendolo vitale. Anche questa modalità dell’ascolto è essenziale, in quanto mostra come la Parola comunichi energia e consacri l’umana attività.

  2. Lettura quotidiana – Il primo dovere del sovrano viene descritto da Dt 17,18-19 in questi termini: «Quando si insedierà sul trono regale, scriverà per suo uso in un libro una copia di questa legge, secondo l’esemplare dei sacerdoti leviti. Essa sarà con lui ed egli la leggerà tutti i giorni della sua vita, per imparare a temere il Signore, suo Dio, e a osservare tutte le parole di questa legge e di questi statuti». La lettura prescritta dalla Tòrah non è più collegata a solenni ricorrenze, ma diventa pratica quotidiana; non è più affidata al ministro che la custodisce in un luogo sacro, ma è consegnata a un laico che ne dispone come possesso personale. Viene così suggerito il dovere dell’ascolto continuo della Parola: ascolto che permea ogni istante, ogni comportamento, ogni luogo dell’esistere; la sapienza infatti è autentica ed efficace se «penetra in ogni cosa» (Sap 7,24). Come dice Dt 6,7-9, le parole poste sul cuore (Dt 6,6) «le ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando ti troverai in casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai. Te le legherai alla mano come un segno, ti saranno come un pendaglio tra gli occhi, e le scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte». Lo spirito di ascolto deve essere permanente e pervasivo, in modo che l’agire regale dell’uomo, ricco in iniziativa e dotato di benefico potere, possa esprimere sempre un’umile obbedienza a Dio (Dt 17,20).

  3. Intelligente creatività – Il re non inventa la Legge: egli deve trascriverla «secondo l’esemplare dei sacerdoti leviti» (Dt 17,18); egli deve dunque conformarsi a ciò che è conservato dalla memoria sacerdotale, custode della fedeltà al volere divino. Ma, al tempo stesso, al re non viene consegnato un testo preconfezionato; al contrario, è lui che deve scrivere la Legge, e scriverla «per suo uso», così da servire nell’esercizio della sua regalità. Con questa semplice annotazione il Deuteronomio fa riferimento al fatto che – come d’altronde avveniva per i sovrani nel Vicino Oriente Antico – il re d’Israele è chiamato ad adattare, attualizzare, migliorare la normativa, tenendo conto delle nuove esigenze storiche, del progresso culturale, delle necessità concrete del suo popolo. La Legge di Dio è sempre la stessa, eppure essa deve subire un costante fenomeno di «riscrittura», se non vuole perpetuare precetti anacronistici o inutili, e se non vuole peccare di omissione, mancando di indicare nuovi doveri e nuove responsabilità. È così allora, in questo processo interpretativo e applicativo, che si dimostra la qualità sapienziale del sovrano, capace di assumere l’antico e il nuovo, in modo da farne oggetto di rinnovata obbedienza.

L’ascolto regale comporta dunque un’acuta capacità sapienziale, che interpreti la norma in modo creativo, così da attuare una piena sottomissione alla volontà di Dio, cogliendo nella lettera il senso che la legge intendeva promuovere. L’ascolto sapienziale non relativizza, ma esalta ciò che Dio ha comandato. Tale ascolto è costituito perciò da due componenti. La prima consiste in un atto personale di intelligenza, che afferra lo spirito della Legge: invece dunque di prospettare un’esecuzione che rispetti (solamente) la lettera, l’uomo coglie l’esigenza autentica del precetto divino, applicandolo alla sua storia, facendo proprio l’intento del legislatore con un’obbedienza matura. La seconda componente è l’autorevolezza, che sa tradurre in prassi, per sé e per gli altri, il comando del Signore. L’ascolto produce gesti, azioni, comportamenti che costituiscono una concreta attuazione del regno di Dio, regno di libertà e di grazia, regno in cui il volere del Signore diventa perfetto in questa terra così come lo è in cielo. Un ascolto senza tale qualità spirituale sarebbe meschino; sarebbe l’ascolto del servo che non capisce la volontà del suo padrone (Gv 15,15) e confonde un’obbedienza fedele con una pedissequa esecuzione. Gesù ci ha insegnato questa alta qualità regale a proposito della legge del sabato, affermando che «il Figlio dell’uomo è signore anche del sabato» (Mc 2,28).

  1. L’ascolto come profezia – Quale caratteristica peculiare riveste l’ascolto profetico? Un’importante indicazione in proposito ci viene dal racconto di Dt 9,11-14. Mosè – il più grande dei profeti secondo Dt 34,10 – è salito sul monte per ricevere la parola scritta del Signore, nella quale Egli rivela la sua volontà salvifica. Ora, nel momento della consegna del Decalogo, il Signore dice a Mosè: «Alzati, scendi in fretta di qui, perché il tuo popolo, che hai fatto uscire dall’Egitto, si è traviato; si sono presto allontanati dalla via che avevo loro indicata: si sono fatti un idolo di metallo fuso Ecco, è un popolo di dura cervice […], io li distruggerò e cancellerò il loro nome sotto i cieli» (vv. 12-14). L’ascolto profetico è quello che accoglie la Legge come rivelazione del peccato (Rm 1,20; 5,20; 7,7) presente nella storia, e per questa ragione percepisce la minaccia mortale che pesa sull’intera comunità. In modo identico reagì la profetessa Culda, interrogata a nome del re Giosia, al momento del ritrovamento del libro della Legge; queste le sue parole: «Così dice il Signore: “Ecco, io farò venire una sciagura su questo luogo e sui suoi abitanti perché hanno abbandonato me e hanno bruciato incenso ad altri dèi”» (2Re 22,16-17).

  2. Conoscere il peccato – Conoscenza della trasgressione e percezione della minaccia costituiscono il binomio che qualifica la recezione profetica della Legge, sia come lettura in profondità dell’ambigua situazione sociale, sia come rivelazione che fa luce sul proprio indegno vissuto personale. Non si tratta di credere all’astratto assioma teologico dell’universale peccaminosità umana: chi ascolta in verità la Parola accoglierà l’indicazione del Signore come una dolorosa ma salutare scoperta del peccato nel concreto della propria storia. Ora, la trasgressione è costantemente intesa dalla tradizione profetica come abbandono del Signore e come stolta sostituzione del Dio vivo, unico e salvatore con immagini degradate e insignificanti (Ger 2,11-13.27; Sap 13,10; Rm 1,22-23), atto, questo, che conduce alla morte (Ger 2,5). Nel cuore del profeta nasce così l’orrore per il peccato, quale realtà disgustosa e infamante, a cui si unisce un più acuto sentimento di timore, a motivo delle conseguenze drammatiche in cui tutti vengono coinvolti.

Ma in che senso l’ascolto profetico è un autentico percorso spirituale, e non un rassegnato pessimismo nei confronti della natura umana? Come riconoscere che è lo Spirito di Dio a parlare in noi, e non una deplorevole forma depressiva?

  1. Caratteristica profetica – Due, a nostro avviso, sono i segni dell’ascolto profetico, che sa vedere il male e ne avverte la disastrosa minaccia. Il primo è che questa visione – frutto di un’illuminazione conseguente alla lettura del testo sacro – non porta a separarsi dalla razza malvagia degli uomini, a distinguersi orgogliosamente dai cattivi (Lc 18,9-12), abbandonandoli al loro destino di morte. Al contrario, il profeta sviluppa, per la solidarietà con i peccatori, una più intensa compassione; questa non è indulgente accettazione di un male inevitabile, né compiacente bonarietà nei confronti dei deboli. L’umiltà del profeta, che sa di essere simile ai suoi fratelli, diventa attivo combattimento per aiutare a sgominare ciò che fa del male a tutti. Dall’ascolto sgorga una parola, dura e sapiente, coraggiosa e tenace, che ammonisce, corregge, converte il peccatore. A partire da sé stessi, si intraprende il processo rieducativo. Il lettore, reso profeta dalla Parola, non ha intenti di condanna (Gv 3,17; 12,47), ma è totalmente intriso del sentimento di misericordia divina, del desiderio divino di perdono e di riconciliazione; così diventa intercessore a favore dei peccatori (Dt 9,13-29; Is 53,12; Ger 15,11).

Ecco allora delinearsi il secondo segno dello spirito profetico all’opera nell’ascolto della Parola di Dio, quello cioè che, da un lato, riconosce la gravità del male e quindi la giusta reazione della collera divina, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla quarta generazione (Dt 5,9), ma, dall’altro lato, conosce anche la sovrabbondanza della grazia (Rm 5,20), che si estende fino a mille generazioni (Dt 5,10). Il profeta vede anzi, con occhi spirituali, che Dio interviene circoncidendo il cuore ribelle dell’uomo, così che, per miracolo, questi possa davvero amare il Signore con tutto il cuore (Dt 30,6), attuando una rinnovata e perenne comunione con Lui (Ger 31,33-34; Ez 36,25-27). L’ascolto profetico si caratterizza allora per la sua inaudita speranza, che non è ottimismo facile e spensierato, ma apertura del cuore a un’azione divina che realizzerà nella storia il bene da tutti desiderato, da tutti atteso. Il Regno di Dio è vicino, sta germinando (Is 43,19), anche se pochi lo perseguono con fedele operosità. È questo il miracolo del Creatore, impossibile agli uomini (Ger 32,27; Zc 8,6), incredibile, talmente è meraviglioso.

  1. Conclusione – Al termine di questo percorso sul libro del Deuteronomio come libro dell’ascolto, è importante ribadire la nostra beatitudine, quella di essere stati chiamati e messi in grado di leggere e accogliere la Parola di Dio (Pr 8,34): «Beato chi legge e beati coloro che ascoltano le parole di questa profezia e custodiscono le cose che vi sono scritte» (Ap 1,3). Non abbiamo altra così limpida sorgente a cui abbeverarci; guai a chi aggiunge o toglie qualcosa allo scritto divino (Dt 4,2; 13,1; Ap 22,18-19). Il comando del Signore – dice uno dei brani conclusivi del Deuteronomio (Dt 30,11-14) – è alla nostra portata: «non è troppo alto per te, né troppo lontano da te» (Dt 30,11): Dio infatti si è fatto vicino all’uomo (Dt 4,7), ha attraversato il cielo per incarnarsi e rivelare in parole di uomo il meraviglioso progetto di Dio. «Questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica» (Dt 30,14). È tua questa parola, perché tu ne viva, perché ti renda felice. Prossimità, anzi intimità della Parola vitale (Rm 10,5-13), in noi incarnata a motivo della discesa del Verbo nella nostra carne: questo è ciò che velatamente annunciava il Deuteronomio, questo è ciò che si è compiuto con il mistero di Cristo, che noi adoriamo come Salvatore.