Letture festive – 78. Vedere – 4a domenica di Quaresima – Anno A

Briciole dalla tavola. Vangelo per senza Dio

di Alberto Ganzerli

4a domenica di Quaresima Anno A – 19 marzo 2023
Dal primo libro di Samuèle – 1Sam 16,1b.4.6-7.10-13
Dalla lettera di san Paolo apostolo agli Efesìni – Ef 5,8-14
Dal Vangelo secondo Giovanni – Gv 9,1-41


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letture festive 78

Vedere sembrerebbe un’azione che si può compiere con molta facilità: basta aprire gli occhi e tutto avviene da sé. In realtà il primo libro di Samuele racconta di una difficoltà a vedere persino da parte di un profeta, e quindi di uomo di Dio: quel Samuele abituato fin da giovane ad ascoltare la voce di Dio e a eseguirne gli ordini. Il compito che Dio gli affida è di quelli importanti: riconoscere – vedendolo – colui che Dio ha già scelto come re del suo popolo: uno tra i figli di Iesse di Betlemme. La missione affidata a Samuele richiederebbe perciò alla sua capacità di visione di allinearsi in qualche modo alla capacità di visione di Dio. Proprio in questo allineamento di visione, però, il profeta fallisce, come del resto fallisce anche Iesse, il padre del designato, che fa passare davanti a Samuele i propri sette figli, perché il profeta possa vedere e riconoscere colui che Dio ha scelto: dal primo, di cui Samuele apprezza l’aspetto e l’alta statura, fino all’ultimo dei sette figli di Iesse. Ma Dio dice di averli tutti scartati, perché non conta quello che vede l’uomo: infatti l’uomo vede l’apparenza, ma il Signore vede il cuore. Pur essendo arrivati a quello che di solito è il numero del compimento, il numero sette, il profeta e il padre non hanno ancora visto colui che Dio invece ha visto. Il profeta e il padre devono chiedersi se vi sia un resto, qualcuno rimasto fuori dalla lista dei possibili candidati e dal raggio della loro visione. Rimane in effetti un candidato inatteso e lontano da ciò che il profeta e il padre possono vedere: il più piccolo dei figli, che ora sta a pascolare il gregge. Quando lo si fa arrivare, lo scrittore biblico lo descrive come biondo-rossiccio di capelli, con begli occhi e di bell’aspetto. Sono requisiti piuttosto particolari per un candidato a diventare re: molto giovane, con un colore di capelli forse non molto comune, bello di occhi e di aspetto ma non imponente. E tuttavia sarà proprio questo giovane Davide quello che tutti, compresi i lettori con Dio e senza Dio del testo biblico, attraverso una duplice conversione sono invitati a vedere e riconoscere come il re designato: colui che, abituato a pascolare il gregge, dovrà imparare a pascolare il popolo per conto di Dio, colui del quale ciò che conta davvero, più che l’aspetto – che pure è bello – è il cuore, cioè quel centro della persona che è effettivamente molto difficile da vedere.

Nel testo della lettera ai cristiani di Efeso il vedere viene presentato in relazione al tema della luce, che è anzitutto la condizione fondamentale perché si possa vedere qualcosa. Ma qui sono gli stessi cristiani a essere definiti come luce, dopo essere stati un tempo tenebra; sono gli stessi cristiani a doversi comportare come figli della luce, che producono i frutti della luce; sono gli stessi cristiani invitati a esporsi alla luce, una luce che rivela anche i comportamenti che sono da condannare, una luce che proviene dal Cristo che illumina. Sembra quasi che, secondo la lettera agli Efesini, ciò che consente ai cristiani con Dio e senza Dio di vedere davvero la realtà sia la stessa esperienza cristiana, compresa la sua pratica vissuta sul piano etico. Si tratta inoltre di un vedere la realtà in modo nuovo, come risultato del risvegliarsi di colui che si è addormentato e che viene invece invitato a risorgere dai morti, venendo così illuminato da Cristo. Si potrebbe dire perciò che la vita cristiana si realizza e si manifesta nella convergenza e nella relazione reciproca fra tre tipi di esperienza: il vedere sempre meglio, il diventare in qualche modo capaci di gettare luce sulla realtà anche con il proprio impegno etico, il risvegliarsi dal sonno come un risorgere dalla morte ed essere illuminati dalla figura di Cristo.

Il vedere e il non vedere, la cecità del non poter vedere e la cecità del non voler vedere costituiscono i temi principali dello straordinario testo del vangelo di Giovanni che l’autore costruisce in modo raffinatissimo. Possiamo infatti vedere come il cosiddetto episodio del cieco nato si presenti come attraversato e sostenuto da due racconti che si intrecciano: un primo racconto è quello che presenta Gesù come l’autore di una nuova creazione e dei segni che la richiamano; il secondo racconto è quello di un processo intentato da una sorta di santa inquisizione religiosa, che ha già scritto un verdetto di scomunica, che però viene infine rovesciato in un giudizio emesso da Gesù nei confronti degli stessi inquisitori. Al primo racconto, che presenta Gesù come nuovo creatore, appartengono diversi elementi che richiamano il racconto di Genesi: terra, acqua, fango, luce, ma anche il peccato che sta all’origine e spiega il male del mondo e la cecità dell’uomo: elementi primordiali che vengono combinati per far venire alla luce – o meglio si dovrebbe dire: per far tornare alla luce – un uomo nuovo, finalmente in grado di vedere: qualcosa che da che mondo è mondo, cioè dagli inizi della creazione, non si era mai sentito dire, e neppure – potremmo aggiungere – si era mai è visto. Il secondo racconto, quello del processo, vede i giudei come inquisitori interessati solo a trovare elementi che giustifichino un verdetto di scomunica che hanno già deciso di emettere. Ciò che anima la loro indagine è la convinzione di saper vedere, di trovarsi dalla parte giusta, quella di Mosé e quindi quella di Dio, e di possedere perciò la verità, vedendola chiaramente. Di fronte a questa certezza religiosa di vedere già adeguatamente ciò che è necessario vedere, a nulla valgono le obiezioni, anche quelle di semplice buon senso, avanzate dal cieco divenuto vedente, così come non vengono accettate le risposte date dai suoi genitori. Il paradosso evangelico si concretizza qui nella cecità religiosa di chi presume di vedere, ma chiudendo gli occhi non vuole e perciò alla fine non può vedere. Al contrario, il cieco divenuto vedente diventa figura del credente, un credente che consapevole della propria originaria condizione di cecità, viene restituito alla luce e al vedere, viene nuovamente creato e, nonostante la scomunica religiosa inflitta dalla cecità dei suoi inquisitori, messo in condizione di riemergere alla vita e di incontrare e vedere Gesù. Il processo era stato introdotto dalla domanda dei discepoli su chi avesse peccato perché quell’uomo fosse nato cieco e gli inquisitori avevano infine scomunicato il cieco, in fondo proprio a causa del suo essere diventato vedente, quasi che la cecità fosse un tragico requisito per poter appartenere alla comunità religiosa. La domanda iniziale sul rapporto tra cecità e peccato viene alla fine riformulata da Gesù in un monito rivolto a tutti i lettori del vangelo, con Dio o senza Dio: Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: “Noi vediamo”, il vostro peccato rimane. E così la vera conclusione del processo è quella che si basa sul giudizio per il quale Gesù afferma di essere venuto: quello che smaschera la cecità dei sedicenti vedenti – con Dio o senza Dio – e che rende vedenti – con Dio o senza Dio – i ciechi consapevoli di esserlo.