Letture festive – 79. Resurrezioni – 5a domenica di Quaresima – Anno A

Briciole dalla tavola. Vangelo per senza Dio

di Alberto Ganzerli

5a domenica di Quaresima Anno A – 26 marzo 2023
Dal libro del profeta Ezechièle – Ez 37,12-14
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani – Rm 8,8-11
Dal Vangelo secondo Giovanni – Gv 11,1-45


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letture festive 79

La parola resurrezione sembra evocare qualcosa di unico, che si colloca – sul piano temporale – dopo la morte, in una vita che – sul piano spaziale – appartiene a un mondo altro. Ma in realtà il profeta Ezechiele collega l’apertura dai sepolcri e l’uscire dalle tombe del popolo a un essere ricondotti nella nativa terra di Israele. Lo spirito divino che entra in coloro che erano morti e sepolti consente di riposare nella propria terra, ma non si tratta del riposo eterno, del riposo della morte, sotto la terra che copre un cadavere, ma di un riposo che avviene stando sopra la terra e in una condizione di vita, una vita piena e restituita a chi si trovava in una condizione di morte. Lo stesso riconoscimento dell’identità di colui che si presenta come il Signore dipende da questo evento e da questa esperienza, del vedere scoperchiata la tomba nella quale ci si trovava chiusi e dell’essere fatti uscire dal sepolcro. Da questo punto di vista, ogni volta in cui, in questo tempo e in questo mondo, come con Dio o come senza Dio, ci troviamo in una condizione di morte, di chiusura, di costrizione che ci priva della possibilità di vivere, di muoverci e di respirare, ci troviamo nella condizione di poter sperimentare, in prima persona, una pluralità e una successione di resurrezioni. Ogni esperienza e ogni evento, ogni persona e ogni cosa che in un qualche modo ci riconduce e ci riapre alla vita, ci fa uscire e ci libera, ci consente nuovamente di muoverci e ci ridà fiato e respiro può farci sperimentare e diventare per noi, una delle nostre tante resurrezioni su questa terra, in questo tempo e in questo mondo.

Anche Paolo, quando scrive di resurrezione ai cristiani di Roma, non sembra concentrato tanto su una vita dopo la morte e in un mondo altro, ma su una vita credente che in questo mondo e in questo tempo è abitata dallo Spirito del Cristo risorto. L’opposizione tra carne e Spirito – intesi come principi che dominano o possiedono, abitano e determinano un’appartenenza – riguarda già e principalmente questo mondo, questo tempo e questa vita, anzitutto per i destinatari della lettera, considerati come corpi viventi seppure mortali. In questo testo la parola carne viene usata da Paolo per definire un’esistenza umana e cristiana il cui principio vitale si corrompe e si decompone a causa di quel veleno di morte che il peccato porta con sé. Al contrario, la parola Spirito qui definisce ciò che, quando abita un’esistenza e un corpo mortale, conferisce una nuova vitalità, condivisa con l’esperienza che Paolo chiama l’essere risuscitato dai morti di Gesù. Questa vita per la giustizia che secondo Paolo è lo Spirito e questa vita, promessa anche ai corpi mortali per mezzo dello Spirito, che abita nei destinatari della lettera, è una resurrezione che può e deve essere sperimentata, da parte di con Dio e da parte di senza Dio, già ora e già qui, in questo mondo, in questo tempo e in questa esistenza.

Il passo giovanneo della resurrezione di Lazzaro costituisce uno dei vertici del Quarto Vangelo, nel quale convergono i principali temi e i molteplici piani di uno stile narrativo straordinario e inconfondibile. Il racconto si presenta a una prima lettura o a un primo ascolto come un puzzle incoerente, un racconto irrealistico, contraddittorio e quasi incomprensibile, fino a quando non si accetta di comprenderlo come costituito dalla sovrapposizione dinamica di una molteplicità di registri narrativi, di piani e di temi. Abbiamo infatti il tema della sofferenza e della morte di una persona cara: qui si tratta di Lazzaro che è fratello e amico; questo tema viene trattato utilizzando il registro e il vocabolario emotivo e affettivo, ma anche fisico e sensoriale, là dove si parla di commozione e di amore, ma anche di pianto e di fetore emanato da un cadavere: siamo sul piano reale e concretissimo di ciò che sperimentiamo come vissuti dolorosi e sconvolgenti e come relazioni di affetto che ci legano profondamente ad alcune persone. A questo tema della morte di Lazzaro si collega il tema della imminente morte di Gesù per mano dei Giudei, tema richiamato per invitare a un discepolato e a una sequela fedele e coraggiosa, camminando dietro a Gesù fino a quando vi è luce e vita, prima che le tenebre impediscano ogni movimento. Uno degli elementi più spiazzanti del testo è, invece, il racconto – del tutto irrealistico – dell’azione simbolico-dimostrativa che Gesù compie, quasi fosse un profeta veterotestamentario: l’azione di indugiare di proposito prima di raggiungere un Lazzaro gravemente ammalato, proprio per arrivare solo a morte già avvenuta e poter così compiere l’azione simbolico-dimostrativa del farlo uscire dal sepolcro. Attraverso questa sorta di performance teatrale, in forma di azione simbolica, tipica del linguaggio profetico, l’evangelista Giovanni comunica ai suoi lettori e ascoltatori, il messaggio che gli sta a cuore, e che Marta e Maria hanno già anticipato con le loro parole: lontano da Gesù vi è soltanto morte, mentre dove c’è Gesù c’è vita e c’è resurrezione. Ma questo racconto del gesto profetico di Gesù serve all’autore evangelico soprattutto per arrivare al centro del racconto, cioè al dialogo tra Gesù e Marta sui temi decisivi della vita e della morte, del credere e della resurrezione, anzi delle resurrezioni. In modo inatteso e sorprendente, infatti, nel dialogo entrano due resurrezioni: da una parte, quella dell’ultimo giorno, che Marta dichiara come una propria credenza, data per scontata – in quanto convinzione comune negli ambienti farisaici – ma qui presentata come poco rilevante e, dall’altra parte, la resurrezione che Gesù stesso dichiara di essere. Lo spostamento è notevole: la resurrezione che in questo passo di Giovanni conta davvero, quella nella quale si è invitati a credere, non è quella della fine dei tempi – sulla quale con Dio e senza Dio potranno anche avere convinzioni diverse – ma quella che è rappresentata dalla figura stessa di Gesù e dal rapporto che con essa si stabilisce nella fede: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi questo?». Le parole che Giovanni mette in bocca a Gesù provocano a prendere posizione non solo i personaggi del racconto, Marta e i Giudei, ma soprattutto noi lettori e ascoltatori del suo Vangelo. Si tratta, infatti, di scegliere se riconoscersi nella domanda di coloro che chiedono: «Lui, che ha aperto gli occhi al cieco, non poteva anche far sì che costui non morisse?». Oppure si tratta, al contrario, di accettare che la resurrezione non sia una soluzione al problema del dolore e della morte delle persone care, ma un modo di affrontare la vita e la morte, il dolore e il discepolato, credendo che nella figura di Gesù e nelle parole del Vangelo possiamo trovare vita anche se moriamo, possiamo trovare una vita che non ci fa morire, possiamo, come Lazzaro, uscire da dove siamo stati rinchiusi, quasi fossimo morti, possiamo essere liberati da ciò che ci impedisce di muoverci e di respirare. Questo invito al coinvolgimento attivo del lettore e ascoltatore – insieme al tema dell’incomprensione e del fraintendimento così frequente in Giovanni – ci vogliono ricordare come questo straordinario brano evangelico non si presenti per nulla come chiaro, compiuto e definito nei suoi esiti. Quella sovrapposizione dinamica di una molteplicità di registri narrativi, di piani e di temi, di cui si diceva all’inizio, diventa qui ciò che contribuisce a creare uno spazio, narrativo, affettivo e vitale. Precisamente in questo spazio ciascuno di noi lettori e ascoltatori, con Dio e senza Dio, è invitato – in modo analogo a quanto avviene con le parabole – a entrare, ascoltare, sostare e infine rispondere alla domanda evangelica – «Credi questo?» – domanda che riguarda quella specifica forma di resurrezione che è – in sé e per noi – la figura stessa di Gesù.