Letture festive – 102. Potenti – 21a domenica del Tempo ordinario – Anno A

Briciole dalla tavola. Vangelo per senza Dio

di Alberto Ganzerli

21a domenica del Tempo ordinario – Anno A – 27 agosto 2023
Dal libro del profeta Isaìa – Is 22,19-23
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani – Rm 11,33-36
Dal Vangelo secondo Matteo – Mt 16,13-20


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letture festive 102

Questo passo del profeta Isaia descrive bene uno dei problemi principali che i potenti, con Dio o senza Dio, devono affrontare, cioè il carattere limitato ed effimero del loro potere, che può avere fine in modo improvviso o inatteso, anche prima del previsto. Qui è il Signore stesso che preannuncia al potente di turno, un alto funzionario chiamato Sebna, la sua imminente destituzione e sostituzione con un altro potente, Eliakìm, una sostituzione motivata dalla speranza che quest’ultimo possa svolgere il proprio dovere nei confronti degli abitanti di Gerusalemme meglio di quanto abbia fatto il predecessore. Il potere – da cui deriva la responsabilità politica che dovrà essere esercitata dal nuovo potente – viene descritto con la metafora di una chiave che apre ciò che altri non possono chiudere e, nello stesso tempo, di una chiave che chiude dove altri non possono aprire. La solidità e l’utilità del nuovo potente viene espressa da una ulteriore metafora, quella di un piolo piantato in modo resistente, in modo che chi ne ha necessità vi si possa aggrappare. Questa rappresentazione dell’avvicendamento tra potenti può suggerire a con Dio e a senza Dio almeno tre elementi che caratterizzano ogni potente: il primo è il suo trovarsi esposto, anche prima del previsto, a rovesciamenti improvvisi e inattesi, condizione che – nella misura in cui se ne è consapevoli – dovrebbe costituire un antidoto ad ogni eventuale delirio di onnipotenza o invulnerabilità; il secondo elemento è il carattere reale ed effettivo del potere – e quindi della responsabilità – che ogni potente ha, per cui in certi casi da lui e da lui solo dipende l’aprirsi o il chiudersi di determinate situazioni; il terzo elemento è la tentazione, alla quale ogni potente si trova esposto, di volgere a proprio vantaggio i primi due elementi. I potenti con Dio o senza Dio possono infatti decidere di cogliere l’attimo presente non come un kairòs – un tempo opportuno donato per essere generosamente dedicato agli altri – ma come un crònos – uno scivolare via del tempo a disposizione che consuma e divora, rendendo perciò avidamente ed egoisticamente voraci. Quando questo avviene i potenti con Dio o senza Dio, nei quali si dovrebbe poter trovare un appiglio solido, falliscono tragicamente la loro missione e, nel diventare un appiglio solo per i propri interessi, finiscono per pervertire l’uso che del potere dovrebbe essere fatto a favore degli altri.

Il potente di cui parla Paolo scrivendo ai Romani è Dio stesso: il potente per eccellenza, anzi l’onnipotente cui si deve dare gloria nei secoli. Le sue caratteristiche sono infatti quelle dei potenti elevate al massimo grado possibile: i suoi giudizi sono insondabili, le sue vie inaccessibili e i suoi pensieri inconoscibili; nessuno può essere consigliere del potente che è Dio, così come nessuno può dargli qualcosa pensando di poter poi esigere qualcosa in cambio. La formula quasi liturgica che afferma l’essere di tutte le cose da lui e per mezzo di lui lo fa riconoscere come creatore che governa il mondo, ma l’ultimo elemento – l’essere di tutte le cose per lui – lo fa somigliare pericolosamente a una figura divina egoista e autoreferenziale. Questa non è certamente l’intenzione di Paolo – il quale spesso parla di un Dio che ama gratuitamente – ma l’ambivalenza e ambiguità di certe categorie religiose e teologiche deve rendere prudenti tutti noi, con Dio o senza Dio, nell’attribuirle troppo frettolosamente o superficialmente a realtà che vorremmo onorare. Per questo ai con Dio è richiesto di sottoporre a discernimento critico il linguaggio utilizzato per parlare di Dio, mantenendolo libero da ciò che potrebbe farlo somigliare troppo a un onnipotente prepotente e perverso. Ai senza Dio, invece, è richiesto di sottoporre a discernimento critico tutti i tentativi di sostituire a quel Dio onnipotente – che si ritiene non esistere – qualcosa o qualcuno che occupi in modo indebito il vuoto di potere che appare con il venir meno di ogni potenza divina, reale o presunta. Si tratta di un vuoto che i senza Dio rischiano – più facilmente dei con Dio – di lasciar occupare da realtà che si rivelano a volte controfigure sbiadite del divino. Con Dio e senza Dio che si trovino ad essere i potenti di turno – tanto nella società quanto nella chiesa – dovrebbero invece coltivare incessantemente tanto un realistico senso del limite quanto un vigile senso di responsabilità. Ciò dovrebbe consentire di esercitare il potere ricevuto, piccolo o grande che sia, per il tempo concesso, lungo o breve che sia, evitando possibili deliri di onnipotenza, opportunismi egoistici e disonesti, superficialità nell’esercizio di un potere che comunque produce effetti sugli altri.

In Matteo il racconto del dialogo tra Gesù e Pietro riguardo all’identità messianica dello stesso Gesù si presenta a ben vedere come un dialogo tra potenti. La domanda sull’identità di un Gesù, accreditato dai più come una figura profetica, riceve da Pietro una risposta che sposta il discorso sul piano qualitativamente diverso dell’identità messianica. Il Cristo, traduzione greca dell’ebraico Messia, cioè il re consacrato con l’unzione divina, indica infatti la figura regale dell’atteso inviato da Dio per la salvezza del popolo. Pietro confessa perciò in Gesù quel potente liberatore e salvatore regale inviato da Dio e tanto ardentemente atteso da ogni ebreo del primo secolo. Gesù, senza rifiutare questo riconoscimento della sua identità messianica – una identità potente per definizione – sembra voler innalzare lo stesso Pietro al ruolo di potente nella comunità, un potente che l’evangelista Matteo descrive utilizzando due metafore: la prima metafora è quella di una pietra su cui si può costruire la nuova comunità, pietra talmente solida che neppure le porte spalancate degli inferi potrebbero inghiottirla; la seconda metafora riprende da Isaia l’immagine delle chiavi come rappresentative di un potere capace di aprire e chiudere in modo irreversibile, con un’efficacia trasversale a dimensioni diverse e lontane come lo è la terra dal cielo. Nella storia del cristianesimo si è ritenuto di poter fare riferimento a questo testo e ad alcune sue specifiche interpretazioni per definire chi dovessero essere i potenti nella chiesa, legittimandoli così anche su base scritturistica, con conseguenze molto rilevanti, sia sul piano teologico che su quello della configurazione concreta delle realtà ecclesiali. Si è consolidata così nella teologia e nella prassi ecclesiale la centralità di un clero esclusivamente maschile, in una struttura di chiesa rigidamente gerarchica, culminante nell’attribuzione ai papi, in quanto vescovi di Roma ritenuti successori di Pietro, di un potere delle chiavi dai tratti assoluti e di fatto assolutistici. Tutto ciò ha contribuito, oltre che al prodursi delle storiche divisioni tra confessioni cristiane, al diffondersi pervasivo nel cattolicesimo di ciò che lo stesso papa Francesco chiama clericalismo. La sociologa francese Danièle Hervieu-Léger vede questo clericalismo come intrinsecamente collegato a quello che definisce sistema romano, un sistema appunto clericale, sacrale, gerarchico, patriarcale, esclusivamente maschile e quindi maschilista, edificato dal Concilio di Trento in poi per difendersi dalle minacce esterne. Si tratta oggi, secondo la sociologa francese, di un vero e proprio veleno per il cattolicesimo stesso, che rischia di risultare mortale tanto per i potenti quanto per i sottoposti al loro potere. Ma a questo veleno il passo evangelico di Matteo offre un possibile antidoto che dovremmo essere tutti interessati a utilizzare, in quanto con Dio o senza Dio cui sta a cuore il presente e il futuro della comunità ecclesiale. Si tratta di un antidoto suggerito in tre passaggi dalle parole che il Gesù di Matteo rivolge a Pietro e che – attraverso il collegamento alla passione, morte e resurrezione dello stesso Gesù – ribalta e quindi trasforma radicalmente il modo di intendere che cosa significhi, nella società e nella chiesa, essere potenti. Quando infatti Pietro viene chiamato da Gesù figlio di Giona, dovrebbe cogliere il rimando profetico, presente nei capitoli precedenti di Matteo, ai tre giorni di Giona nel ventre del pesce, come richiamo al sepolcro al quale è destinato questo messia, prima di essere restituito alla vita; quando si sottolinea che la rivelazione a Pietro non può venire dalla carne e dal sangue, si lascia intendere un modo diverso, alternativo e non mondano di essere potenti; quando si ordina ai discepoli di non dire a nessuno che Gesù è il Cristo, si suggerisce che questo titolo messianico di potenza applicato a Gesù possa condurre a radicali incomprensioni. Così probabilmente è avvenuto nel corso dei secoli e avviene ancora oggi da parte di molti lettori cristiani con Dio o senza Dio: tanto per la figura di Gesù quanto per la figura di Pietro e per ogni altra figura che abbia potere nella chiesa, l’essere potenti viene identificato con figure di potere paradossalmente troppo mondane e viziate da un clericalismo velenoso. Serve l’antidoto per evitare l’avvelenamento della comunità ecclesiale e perché chi in essa è chiamato a essere pietra e a gestire chiavi lo possa fare in modo alternativo a quello troppo mondano dei potenti di turno, con Dio o senza Dio. Questo antidoto c’è e si può trovare tra le righe della medesima pagina evangelica: dovrebbero diventare potenti nella chiesa solo coloro che sono già passati attraverso la medesima esperienza trasformatrice di Giona.

Riferimenti:

Andrea Lebra, Clericalismo, articolo pubblicato il 24 settembre 2020
sul sito www.settimananews.it

Video-intervista – su YouTube – di Franco Garelli a Danièle Hervieu-Legèr
a partire dal libro: Vers l’implosion? Entretiens sur le présent et l’avenir du catholicisme, Seuil, Parigi 2022.