Letture festive – 104. Ammonire – 23a domenica del Tempo ordinario – Anno A

Briciole dalla tavola. Vangelo per senza Dio

di Alberto Ganzerli

23a domenica del Tempo ordinario – Anno A – 10 settembre 2023
Dal libro del profeta Ezechièle – Ez 33,1.7-9
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani – Rm 13,8-10
Dal Vangelo secondo Matteo – Mt 18,15-20


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letture festive 104

Ammonire è una pratica di parola che in certe situazioni sarebbe doverosa e necessaria, tanto per i con Dio quanto per i senza Dio, ma è anche una pratica di parola che in queste stesse situazioni risulta non gradita e faticosa, non soltanto per colui che dovrebbe essere ammonito ma anche per chi lo dovrebbe ammonire. Si tratta, perciò, di una pratica di parola non molto esercitata, forse anche perché il suo esercizio adeguato richiederebbe una sufficiente conoscenza di che cosa sia censurabile e che cosa sia giusto nel comportamento altrui. Ciò non toglie che, anche secondo le Scritture bibliche, ammonire rimanga una pratica talvolta doverosa e necessaria, come testimonia il profeta Ezechiele, che la sperimenta e la descrive come un comandamento divino, nei termini di una parola proveniente appunto da Dio e che deve raggiungere – tramite la parola del profeta-sentinella – il suo destinatario, cioè colui che viene indicato come malvagio. La pratica dell’ammonire si collega in questa pagina biblica al tema di una vigilanza esercitata in modo attivo e responsabile, tanto nell’individuare condotte sbagliate e pericolose quanto nell’avvertire tempestivamente chi deve desistere da queste condotte. Il modo particolare in cui questa pagina profetica presenta la pratica dell’ammonire potrebbe richiamarci due contesti molto specifici: potremmo pensare anzitutto a una sorta di gioco di ruolo o di libro-game, nel quale vengono prefigurati gli esiti possibili e alternativi del comportamento che il giocatore o lettore si trova a dover scegliere. Potremmo, però, anche leggere questo testo come la pagina di un codice giuridico penale, che prefigura comportamenti e conseguenze, pene e attenuanti, di un determinato comportamento rilevante, appunto, sul piano della giustizia penale. Si tratta di analogie che – anche se in modo ovviamente diverso – consentono tuttavia di cogliere quattro elementi centrali nella pratica di parola dell’ammonire: l’assunzione di responsabilità, richiesta e presupposta tanto in chi ammonisce quanto in chi viene ammonito; la libertà che i diversi soggetti coinvolti mantengono comunque nello scegliere come comportarsi; l’intrecciarsi dei comportamenti che fanno seguito a un avvenuto o mancato ammonimento e a un avvenuto o mancato ascolto dell’eventuale ammonimento; gli effetti e le conseguenze, reali e talvolta molto gravi, di questo intrecciarsi di comportamenti dei singoli soggetti coinvolti. Ciò che però le analogie del gioco di ruolo, del libro-game e del codice giuridico penale rischiano di non evidenziare a sufficienza sono la motivazione principale e l’obiettivo finale che la pratica di parola dell’ammonire dovrebbe avere, per con Dio e per senza Dio. Motivazione e obiettivo, infatti, dovrebbero essere non tanto la salvezza o la dichiarazione di innocenza di chi è chiamato ad ammonire colui che viene definito malvagio, ma l’avere a cuore e farsi carico della responsabilità per la salvezza di questo cosiddetto malvagio e il suo desistere da condotte che possono condurre a una qualche forma di morte lui e altri con lui.

Per Paolo ammonire i cristiani di Roma significa scrivere loro di non essere debitori di nulla a nessuno, se non di quel particolarissimo – e in realtà impegnativo – debito che consiste nella pratica dell’amore vicendevole. E questo perché solo l’amore per l’altro dà compimento e adempimento alla Legge, una legge formulata, a ben vedere, in termini che potremmo collegare alla pratica dell’ammonire: non commetterai… non ucciderai… non ruberai… non desidererai… Anche per Paolo, quindi, principio e fondamento di ogni pratica di parola che intende ammonire dovrebbe essere l’amore e l’amore vicendevole. Precisamente questo nascere di ogni ammonimento da una carità, che ispira e dà compimento alla Legge, e da un amore vicendevole dovrebbe garantire che l’ammonire non faccia male al prossimo che viene ammonito. Si tratta, però, dei due elementi più delicati e difficili di ogni pratica di parola che si proponga di ammonire secondo l’insegnamento biblico: un ammonimento che non faccia male e una relazione che rimanga di amore vicendevole tra chi ammonisce e chi viene ammonito. Tutti noi, infatti, con Dio o senza Dio sappiamo, magari anche per averlo sperimentato in prima persona, che – quando sono in gioco aspetti importanti per gli interlocutori – ammonire o essere ammoniti senza una qualche sofferenza che faccia male è davvero difficile. Tutti noi, con Dio o senza Dio sappiamo che in chi ammonisce si può annidare la tentazione del giudizio, dell’autocompiacimento e della rivalsa sull’altro, come pure il rischio dell’errore nella valutazione e nel discernimento su ciò che l’altro dovrebbe o non dovrebbe fare. Tutti noi, con Dio o senza Dio sappiamo che mantenere dopo un pesante ammonimento la medesima qualità del rapporto interpersonale tra chi ammonisce e chi viene ammonito è esperienza straordinariamente rara. E tuttavia ciò non deve impedire di coltivare una pratica di parola che in certe situazioni può essere l’unico modo rimasto per cercare di evitare il male e per cercare di fare il bene.

Nei casi di colpe e colpevoli che si trovino all’interno della comunità ecclesiale, la pratica dell’ammonire viene disciplinata dal vangelo di Matteo secondo una precisa procedura di parole di ammonimento che devono partire da un incontro privato con la singola persona da ammonire e che, solo in caso di fallimento di questo tentativo, si allargano a coinvolgere una o due persone e poi, in caso di ulteriore fallimento, arrivano fino alla comunità nel suo insieme. Un eventuale ulteriore fallimento anche del tentativo comunitario evidenzia una sorta di estraneità di fatto della persona rispetto alla comunità stessa e alle possibilità, da parte di questa stessa comunità, di intervenire in modo efficace. Ciò rende la persona – in questo senso e per questo motivo – simile ai pagani e ai pubblicani non appartenenti alla comunità. Ma questa procedura disciplinata di ammonimento, che moltiplica gradualmente i soggetti coinvolti, non va intesa come una crescente ed esponenziale denigrazione pubblica del colpevole, ma piuttosto come la ricerca di persone e contesti di aiuto in situazioni conflittuali, e per questo il trattare qualcuno come pagano e pubblicano significa non che lo si deve abbandonare al suo destino di colpevole, ma che si devono cercare altre vie e strumenti diversi da quello della comunità dei discepoli. Ciò che collega le diverse parti di questo testo sembra essere la sottolineatura di questa dimensione comunitaria e non solitaria come di una dimensione decisiva nell’esperienza credente dei discepoli. Il Gesù di Matteo, infatti, ammonisce noi discepoli, con Dio o senza Dio, perché diventiamo consapevoli del carattere non individualistico della esperienza credente cui siamo chiamati, un’esperienza credente che, invece, per essere autenticamente evangelica deve riconoscere e coltivare la rete di relazioni e di responsabilità nella quale si trova inserita. In questo senso il fatto che terra e cielo non vadano visti come estremità opposte e separate tra loro ma come luoghi diversi ma non separabili di una realtà unica e tutta collegata, viene esplicitato da Matteo in due modi: in primo luogo quando sottolinea la responsabilità dei discepoli, con Dio o senza Dio, rispetto agli effetti prodotti dal loro legare e dal loro sciogliere, cioè dal loro modo di gestire le relazioni e i legami, nella prospettiva di quello che potremmo chiamare bene comune; in secondo luogo quando Matteo collega l’efficacia della preghiera e del realizzarsi dei desideri profondi a un agire concorde e “sinfonico” tra i discepoli stessi, con Dio o senza Dio: l’esaudimento della preghiera che in cielo chiede qualcosa viene a coincidere con ciò che in terra la comunità orante è capace nei fatti di ricercare e di raggiungere, con desiderio perseverante e in modo concorde. Così pare doversi interpretare il testo di Matteo, dal momento che non sembra trovare riscontri nell’esperienza umana e cristiana ordinaria l’interpretazione per cui sarebbe sufficiente accordarsi sul contenuto di una preghiera di richiesta al Dio nei cieli per essere esauditi in termini concreti e visibili su questa terra. La presenza di Gesù tra i due o tre riuniti nel suo nome va intesa, invece, come attestazione dello spessore credente e cristiano di comunità pur piccole o anche di semplici coppie di persone con Dio o senza Dio che consapevolmente ricerchino tra loro, in quanto discepoli, un agire concorde e “sinfonico” ispirato al vangelo.