Letture festive – 106. Retribuzione – 25a domenica del Tempo ordinario – Anno A

Briciole dalla tavola. Vangelo per senza Dio

di Alberto Ganzerli

25a domenica del Tempo ordinario – Anno A – 24 settembre 2023
Dal libro del profeta Isaia – Is 55,6-9
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Filippesi – Fil 1,20c-24.27a
Dal Vangelo secondo Matteo – Mt 20,1-16


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letture festive 106

Noi spesso colleghiamo troppo facilmente l’idea di retribuzione a Dio, alla giustizia divina e a ciò che Dio prepara per gli umani dopo la morte. Ma, come ricorda il profeta Isaia, quello stesso Dio che si deve cercare e invocare mentre è vicino e si fa trovare, quello stesso Dio che nella sua prossimità ha misericordia e perdona chi ritorna a lui, è contemporaneamente lontano, lontanissimo, come il cielo lo è dalla terra, e con pensieri che seguono vie diverse da quelle umane. Con Dio e senza Dio, da questo punto di vista, devono prendere atto di come i propri pensieri e le proprie vie non siano gli unici e probabilmente non siano neppure i migliori, perché ce ne sono altri – divini per i con Dio o comunque diversi e superiori per i senza Dio – con i quali ci si deve misurare. Ma proprio sul come ci si debba misurare e quindi sul come si debba retribuire si arriva ad apprezzare la notevole distanza delle vie e dei pensieri. Distanza tra vie e pensieri che potremmo definire “ordinariamente” umani e vie e pensieri che potremmo definire “straordinariamente” umani, tanto che li si attribuisca al divino, da parte dei con Dio, quanto che li si attribuisca ai vertici o alle profondità dell’umano, da parte dei senza Dio. Se ci si pone da quel punto prospettico che la visione profetica di Isaia colloca in un cielo che sovrasta di molto la terra, il pensiero che cerca le vie per retribuire, dando a ciascuno ciò che si è meritato, appare troppo ordinariamente umano, perché, nel suo essere terra-terra, semplifica eccessivamente, non riuscendo a cogliere nella sua complessità tutta la rete di relazioni e di intrecci, di vicende e di rimandi che invece è in grado di vedere soltanto uno sguardo dall’alto, da un cielo, con Dio o senza Dio. Solo questo sguardo dall’altro, potendo apprezzare l’intrico dei pro e dei contro, delle ragioni e dei torti, dei meriti e delle colpe, delle pene e dei premi, si trova a dover riconoscere la sostanziale impossibilità di una retribuzione che possa essere realmente giusta ed equa, soddisfacente e inappellabile nel dare a ciascuno ciò che si è meritato. Forse allora è meglio rinunciare alla retribuzione come pensiero e come via che cerca di invitare a fare il bene e a evitare il male minacciando pene e promettendo premi. Forse allora è meglio sperare che, per con Dio e per senza Dio, i pensieri straordinariamente umani risultino più attrattivi ed efficaci di quelli ordinariamente umani.

Con i cristiani di Filippi, Paolo condivide le proprie domande riguardo a quello che presenta come l’avvicinarsi della propria morte e del suo successivo essere con Cristo, descritto come un guadagno, come una sorta di giusta retribuzione, legittimamente attesa per un’esistenza totalmente spesa nell’annuncio del vangelo. Ma la domanda sottesa al discorso di Paolo, la domanda alla quale non dà una risposta definitiva è quella che riguarda quale sia davvero la retribuzione più importante e forse decisiva per un’esistenza spesa nell’annuncio del vangelo: lasciare questa vita per essere con Cristo o rimanere nel corpo per lavorare con frutto a favore dei destinatari dell’annuncio evangelico? Paolo sembra contrapporre un assai meglio per lui, che si troverebbe nel morire per essere con Cristo, e un più necessario per i cristiani di Filippi, che si troverebbe nel rimanere nel corpo per lavorare con frutto. Dietro questa titubanza di Paolo potremmo leggere per lo meno l’indebolirsi di nette gerarchie di valore tra lo stare individualmente con Cristo e la dedizione ai destinatari del suo annuncio evangelico. Si tratta, tanto per i con Dio quanto per i senza Dio, di un elemento di grande rilevanza se lo si proietta sul modo tradizionalmente religioso di concepire la retribuzione post-mortem. Le domande, infatti, che i senza Dio sarebbero autorizzati a porre a Paolo e ai con Dio come lui, potrebbe essere le seguenti: per chi spende la vita nell’annuncio del vangelo quale è la ricompensa maggiore: quella di sapere che in vita, in morte e post-mortem, il vangelo viene annunciato e accolto dai suoi destinatari o quella di godere in modo individuale della presenza di Cristo? O ancora: per chi spende la vita nell’annuncio del vangelo quale è la ricompensa più coerente con questo modo di spendere la propria vita: quella di sapere che in vita, in morte e post-mortem, il vangelo viene annunciato e accolto dai suoi destinatari o quella di godere in modo individuale della presenza di Cristo? Se si desidera che la lieta notizia in cui il vangelo consiste possa allietare l’esistenza del maggior numero di persone, con Dio o senza Dio, il fatto di essere con Dio o senza Dio non dovrebbe risultare determinante nel modo in cui cercare risposta a queste domande.

La parabola di Matteo sulla retribuzione ritenuta ingiusta dai lavoratori della prima ora, si propone di smontare, in con Dio e in senza Dio, ogni velleità di trovare nella retribuzione stessa – intesa come ricompensa meritocratica – una via capace di fare giustizia in questo mondo e in questa vita… o anche eventualmente in un altro mondo e in un’altra vita. Come tutte le parabole evangeliche, anche questa si propone un duplice scopo: in primo luogo, introdurre il suo lettore o ascoltatore a quel particolare modo di guardare al mondo e alla realtà, a quel particolare modo di abitare il mondo e la realtà, che i vangeli chiamano regno di Dio; in secondo luogo, condurre il suo lettore o ascoltatore, con Dio o senza Dio, a prendere posizione e assumersi la responsabilità di scegliere dove e come collocare sé stesso, rispetto alla provocazione narrativa rivolta dalla parabola stessa a ogni suo lettore e ascoltatore. Ebbene, al centro di questa parabola sta la promessa fatta dal padrone della vigna ai lavoratori a giornata che vengono chiamati in momenti successivi: “Quello che è giusto, ve lo darò”. Come mostra la conclusione della parabola, è precisamente il modo diverso di intendere quello che può essere giusto a fare la differenza tra i primi lavoratori, sorpresi e delusi dalla retribuzione ricevuta a fine giornata, e il criterio adottato dal padrone nel dare a ciascuno quello che, appunto, ritiene giusto. Per i lavoratori della prima ora, infatti, quello che – a fine giornata – sembrerebbe loro giusto è un compenso monetario calcolato in base al merito individuale, e questo, a sua volta, misurato e determinato sulla base della durata in ore del lavoro effettivamente svolto. Un approccio, quest’ultimo, che potremmo definire meritocratico, ma in fondo corrispondente anche a ciò che prevedono e prescrivono, in questo nostro mondo occidentale, i contratti collettivi di lavoro, una preziosa conquista delle lotte novecentesche dei lavoratori. Nessuno scandalo e nessuna meraviglia, perciò, davanti alla reazione di delusione e sorpresa vissuta da lavoratori che si vedono retribuiti in modo apparentemente iniquo, cioè non-equo, da un padrone che retribuisce con identico compenso i colleghi lavoratori che hanno lavorato una sola ora e loro che, invece, ne hanno lavorate dodici (sembra essere questa, infatti, la differenza – effettivamente notevolissima – indicata nel testo greco). Vi è però un paradosso in questa recriminazione dei lavoratori della prima ora: lamentano come trattamento ingiusto quello che in fondo è il pieno rispetto dell’importo pattuito inizialmente con il padrone stesso: un denaro al giorno. Ma, allora, che cosa ha innescato la reazione stizzita di questi lavoratori della prima ora? Pare proprio sia stata la bontà del padrone che, potendo disporre liberamente dei propri beni, ha scelto di essere particolarmente e gratuitamente generoso nei confronti dei lavoratori dell’ultima ora. Per il padrone quello che è giusto non corrisponde evidentemente al lavoro effettivamente svolto, quanto piuttosto a ciò di cui si ha bisogno per vivere o, in certi casi, anche solo per sopravvivere, sia che si lavori tanto, sia che si lavori poco o forse anche per nulla. L’approccio attribuito dal vangelo di Matteo al padrone della parabola potrebbe forse essere sintetizzato, da con Dio e da senza Dio, utilizzando la formulazione che alcuni pensatori senza Dio – tra i quali Karl Marx – hanno utilizzato tra Settecento e Ottocento, per esprimere l’utopia di un mondo caratterizzato da una perfetta corrispondenza tra rapporti economici ed esigenze della condizione umana: da ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo il suo bisogno. Si può notare, inoltre, come la formulazione di questa utopia e la parabola evangelica siano accomunate anche da una sorta di tensione verso il superamento della cosiddetta proprietà privata, superamento che caratterizza, come noto, diverse utopie ottocentesche. Questa parabola, infatti, lasciando intravedere dietro la figura del padrone la funzione della divinità, sembra riservare a quest’ultima la piena e libera disponibilità di quelle che il padrone della parabola – pur così diverso dai capitalisti ottocenteschi… e non solo – definisce, appunto, le sue cose, di cui può fare liberamente ciò che vuole, sottraendone così la disponibilità e – potremmo aggiungere – la proprietà privata agli umani. Le domande con le quali, allora, la parabola – rendendo gli ultimi primi e i primi ultimi – interpella e provoca anche noi lettori e ascoltatori, con Dio o senza Dio, potrebbero forse essere queste: Ritieniano davvero di dover essere noi a stabilire quanto debba essere differente – per essere giusta – la retribuzione per noi e per i bisognosi che sono  arrivati dopo di noi? E ancora: ciò di cui essere invidiosi, nel senso di desiderarlo per noi, non dovrebbe essere – anziché più denaro di quello previsto – più bontà, come quella di chi retribuisce ognuno con ciò di cui ha bisogno?