Letture festive – 139. Credenti – 2a domenica di Pasqua – Anno B

Briciole dalla tavola. Vangelo per senza Dio

di Alberto Ganzerli

2a domenica di Pasqua – Anno B – 7 aprile 2024
Dagli Atti degli Apostoli – At 4,32-37
Dalla prima lettera di san Giovanni apostolo – 1Gv 5,1-6
Dal Vangelo secondo Giovanni – Gv 20,19-31


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letture festive 139

Questa descrizione idealizzata della primitiva comunità cristiana che l’autore degli Atti degli Apostoli ci propone presenta i credenti come capaci di una comunione spirituale e di una condivisione delle risorse materiali che consentono di sopperire ai bisogni di ciascuno. Come si vedrà in altri brani di Atti questa generosa condivisione delle proprietà personali e familiari incontra resistenze ed eccezioni. Rimane importante, tuttavia, anche per i credenti cristiani di oggi, con Dio o senza Dio, che nella descrizione neotestamentaria della comunità ecclesiale e di ciò che deve caratterizzare la vita dei credenti, vengano esplicitamente citati e perlomeno tratteggiati nelle loro forme ideali e auspicabili il possesso e la gestione dei beni e delle proprietà private e familiari, l’uso delle ricchezze di alcuni per il bene di tutti e per compensare gli squilibri e le ingiustizie sociali che causano povertà e miseria. C’è da dire che nella bimillenaria storia del cristianesimo i credenti cristiani, con Dio o senza Dio, sono riusciti a concretizzare questi ideali sociali di condivisione economica e di superamento libero e volontario della proprietà privata quasi esclusivamente attraverso forme di vita monastica e religiosa o in esperienze di piccole comunità anche laicali ma con forti analogie con le forme di vita religiosa, come ad esempio la comunità di Nomadelfia fondata da don Zeno Saltini. Ma vi è un’altra possibile interpretazione di questo brano, soprattutto se si considera come per i cristiani, con Dio o senza Dio, lo stesso essere credenti rappresenti e costituisca in sé un bene prezioso, un bene e un patrimonio che si può scegliere se considerare e gestire come fosse una proprietà personale da preservare gelosamente, per sé e per una cerchia ristretta di persone o se, al contrario, questo essere credenti, con Dio o senza Dio, vada considerato e gestito come un bene comune e, come tale, da mettere o lasciare a disposizione anche di altri, anzi di chiunque possa trarne giovamento in base alla propria specifica situazione e perciò, appunto, a seconda della condizione in cui si trova, tanto nella forma dell’essere credenti con Dio quanto nella forma dell’essere credenti senza Dio.

L’autore della prima lettera di Giovanni concentra in questa descrizione dei credenti alcuni degli aspetti che, nel loro essere collegati attraverso un’intrinseca concatenazione, risultano centrali nell’esperienza cristiana, aspetti che – potremmo aggiungere noi lettori odierni – rimangono tali anche oggi, tanto per i con Dio quanto per i senza Dio. Il punto di partenza che caratterizza i credenti cristiani è il riconoscersi come generati – e cioè messi al mondo – e introdotti in questo mondo per abitarlo in un modo e con uno stile particolari. Questo modo e questo stile particolari hanno a che fare con un amore che si manifesta in determinate pratiche di vita e queste, a loro volta, concretizzano l’osservanza di comandamenti che in sé stessi non dovrebbero essere gravosi. I comandamenti, infatti, dovrebbero essenzialmente corrispondere a questo particolare stile cristiano e non rappresentarne un’appendice normativa imposta dall’esterno. Ma il fatto che l’amore e l’osservanza dei comandamenti stiano al centro dell’esperienza dei credenti non toglie il carattere di lotta e di conflitto che, in rapporto al mondo, rimane inseparabile dalle esistenze credenti di con Dio e di senza Dio. I credenti, infatti, sono messi in condizione di uscire vittoriosi dal conflitto con il mondo precisamente grazie all’approccio di fede con il quale affrontano questo stesso mondo. E tuttavia l’essere credenti non preserva né tiene lontani con Dio e senza Dio dal fluire della vita in tutte le sue diverse e spesso sofferte dimensioni, simbolicamente rappresentate dall’acqua e dal sangue. Né l’essere credenti può ancorarsi a una verità intesa in senso rigido e immobile, perché, secondo l’autore della prima lettera di Giovanni, la verità è lo Spirito e questo Spirito – anziché enunciare infallibilmente verità definite e definitive – dà una testimonianza che si propone per essere accolta e che può essere accolta unicamente attraverso il dinamismo della fede e quindi, in ogni caso, da parte di credenti, con Dio o senza Dio.

Tra le diverse possibili interpretazioni del passo giovanneo dell’incontro del Gesù risorto con Tommaso, ve n’è una che si presenta come particolarmente ricca di significato per con Dio e per senza Dio. Si tratta dell’interpretazione che vede rappresentata in questa pagina evangelica la transizione tra generazioni diverse e successive di credenti, con le relative dinamiche, responsabilità e difficoltà. Il brano inizia con la chiusura nella tristezza e con il timore paralizzante vissuti dal gruppo dei discepoli, chiusura e timore che vengono superati nel momento in cui da parte del gruppo si avverte, in modo inatteso, una forma di presenza nuova del medesimo Gesù che era stato crocefisso, una forma di presenza capace di sostituire la chiusura nella tristezza con la gioia e di sostituire il timore paralizzante con la pace. Ma la caratteristica principale di questa esperienza di incontro con il risorto, che rende i discepoli nuovamente credenti, è il suo scopo missionario e il suo essere rivolta e destinata alle nuove e future generazioni di credenti. Le parole del Gesù risorto infatti richiamano il suo essere mandato dal Padre per giustificare il suo mandare i discepoli, così come il suo gesto di soffiare perché i discepoli possano ricevere lo Spirito li responsabilizza riguardo alla pratica di un perdono che, tramite loro, saranno altri a poter ricevere o non ricevere. Di questo gruppo di discepoli di prima generazione, resi nuovamente credenti da questa esperienza che li ha sottratti a chiusure e timori, farebbe parte anche Tommaso, il quale però non è presente mentre il gruppo incontra il Gesù risorto. Ciò impedisce a Tommaso di condividere con gli altri discepoli l’uscita da una condizione che – in particolare per lui – si rivela non solo di chiusura nella tristezza e di timore paralizzante, ma anche di vera e propria incredulità. Si tratta, tra l’altro, di un’incredulità che pretende di porre le condizioni per il proprio superamento, ma che imbocca una direzione del tutto sbagliata. Chiedere, come fa Tommaso, di vedere e di toccare il corpo di Gesù crocefisso, significa, infatti, rifiutarsi di incontrare il risorto, rimanendo così vittima della propria chiusura nella tristezza e del proprio timore paralizzante. Si deve attendere la novità rappresentata dall’ottavo giorno, il giorno che si colloca al di là del tempo, perché la narrazione di Giovanni possa descrivere finalmente l’incontro di Tommaso con il Gesù risorto. Questi invita il primo a ridiventare credente con una condiscendenza alle condizioni poste dallo stesso Tommaso che sta a metà tra il provocatorio e l’ironico ma che, soprattutto, serve al risorto per annunciare la diversa e più autentica beatitudine dei futuri credenti. Arriviamo qui al punto – decisivo tanto per con Dio quanto per senza Dio – nel quale l’evangelista prova ad articolare la dinamica di transizione tra generazioni diverse e successive di credenti, con tutto il carico di responsabilità e difficoltà che questa transizione porta con sé. E Tommaso detto in greco Didimo cioè gemello diventa qui il personaggio decisivo per provare ad articolare questa transizione, precisamente grazie all’ambiguità, ambivalenza e sdoppiamento che caratterizzano questa figura evangelica fin dal significato del suo nome in lingua greca. L’ebreo Tommaso, infatti, discepolo paradossalmente disposto a credere unicamente nel Gesù finito sulla croce, è il gemello del greco Didimo, invitato a prefigurare, nella sua conversione dall’incredulità alla fede nel Gesù risorto, quella forma di fede che tutti i credenti dopo di lui saranno invitati a fare propria. Si tratta dell’unica forma di fede possibile giunta fino a noi oggi, dell’unica forma di fede possibile già a partire dalla seconda generazione di credenti, la generazione alla quale in realtà già lo stesso evangelista appartiene. Si tratta, in fondo, dell’unica forma di fede cristiana di questi due millenni, una fede che deve imparare a rinunciare a vedere e toccare il corpo di Gesù crocefisso, se vuole vedere e incontrare il Gesù risorto. Nel professare questa fede, ogni generazione di credenti con Dio o senza Dio dovrebbe consentire e agevolare le transizioni generazionali, senza impedirle o condizionarle, ma anzi promuovendole e accompagnandole, affinché tutti e ciascuno possano trovare la propria strada, con Dio o senza Dio, e inserirsi, se lo desiderano, nella comunità cristiana dei credenti. I credenti che da duemila anni e fino ad oggi scelgono di imparare a fare propria questa unica possibile forma di fede cristiana possono essere, infatti, tanto dei con Dio quanto dei senza Dio, purché non coltivino le pretese e non pongano le condizioni del discepolo Tommaso ma somiglino invece al suo gemello Didimo, discepolo greco e di seconda generazione. Se il primo, Tommaso, poteva, infatti, ancora sperare di essere spettatore dei molti segni che l’evangelista – con un geniale artificio narrativo – dichiara compiuti dal Gesù risorto ma non narrati nel vangelo, il secondo, Didimo – come tutti i credenti di seconda generazione e come del resto anche noi oggi – ha a disposizione soltanto i segni che sono stati scritti nel vangelo. Ma questi segni scritti sono, in realtà, più che sufficienti a tutti noi credenti di oggi, con Dio o senza Dio, per credere in Gesù e, credendo, avere la vita nel suo nome.