Letture festive – 142. Fatti – 5a domenica di Pasqua – Anno B

Briciole dalla tavola. Vangelo per senza Dio

di Alberto Ganzerli

5a domenica di Pasqua – Anno B – 28 aprile 2024
Dagli Atti degli Apostoli – At 9,26-31
Dalla prima lettera di san Giovanni apostolo – 1Gv 3,18-24
Dal Vangelo secondo Giovanni – Gv 15,1-8


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letture festive 142

Spesso capita che i fatti siano – per con Dio e per senza Dio – più eloquenti delle parole e nel testo di Atti questi fatti riguardano le persecuzioni compiute da Saulo prima del suo tentativo di unirsi ai discepoli. Si tratta di fatti che rendono comprensibilmente dubbiosi questi stessi discepoli, che anzi hanno paura di lui, perché non credono che sia diventato realmente uno di loro. Ed è necessaria una presentazione rassicurante da parte di Barnaba perché Saulo possa essere introdotto nella comunità dei discepoli predicatori. Se le parole di Barnaba consentono di superare le preoccupazioni determinate dai fatti violenti di cui Saulo si è reso responsabile, ora però assistiamo a una sorta di pena del contrappasso. Avendo Saulo intavolato un confronto e una discussione con quelli di lingua greca, ben presto questo scambio verbale lascia il posto a fatti che, questa volta, consistono nel tentativo di uccidere lui, Saulo. Giunti a questo punto le parole non bastano più e il nuovo fatto che si rende necessario è l’allontanamento precauzionale di Paolo verso altri luoghi dove predicare. Si può notare come il sommario che Atti introduce a questo punto, parlando di una situazione pacificata della Chiesa delle origini, sia in realtà una rappresentazione piuttosto idealizzata e poco realistica o, se si preferisce, utopica e descrittiva dell’ideale che si vorrebbe raggiungere. Con Dio e senza Dio possono riconoscere in questo passo neotestamentario diverse tipologie di relazione tra fatti e parole all’interno della società e all’interno della comunità ecclesiale. In entrambe, infatti, esistono conflitti che passano dalle parole ai fatti: Saulo passa da persecutore a perseguitato costretto ad andare altrove in una sorta di emigrazione o fuga. Le aggressioni violente sono fatti che, con il loro linguaggio molto concreto e immediato, sottraggono brutalmente eloquenza alle parole che si dovrebbero usare per gestire i conflitti e finiscono per renderle superflue. Nei casi in cui, invece, per gestire i conflitti si cerchino almeno inizialmente percorsi di comunicazione e confronto attraverso l’uso delle parole, le aggressioni fisiche diventano fatti che interrompono questi percorsi sostituendo al confronto tra argomentazioni diverse e magari contrapposte, la prevaricazione del più forte e del più violento. Vi sono anche casi in cui purtroppo le parole non servono e al fatto rappresentato da un’aggressione violenta si può e si deve opporre solamente un altro fatto, che consiste nell’allontanamento fisico. Questo, infatti, in certi casi rimane l’unico modo per consentire alle parole di poter forse ritrovare in seguito la loro funzione comunicativa nella gestione nonviolenta dei conflitti. Su questo sfondo e da questo punto di vista, la società e la chiesa più che una pace che rischia di essere solo apparente, dovrebbero augurarsi di riconoscere le conflittualità reali – anche nelle relazioni tra con Dio e senza Dio – e dovrebbero augurarsi di imparare a gestirle utilizzando parole che – pur dovendo essere franche e veritiere e pur potendo arrivare ad essere critiche – non dovrebbero mai tuttavia condurre a fatti violenti.

L’autore della prima lettera di Giovanni stabilisce una distinzione tra l’amare a parole e l’amare con i fatti, tra l’amare con la lingua e l’amare nella verità e invita a scegliere la seconda delle due modalità. Si sottolinea così la prevalenza qualitativa dei fatti, nei quali si concretizza l’amare nella verità, ma il lettore con Dio o senza Dio di questo testo viene rassicurato sul fatto che vi è tuttavia qualcosa di più grande dei fatti, anche dei fatti non buoni dei quali il cuore ci rimprovera o dei fatti buoni che per nostra responsabilità non sono avvenuti. Si tratta di un’esperienza che tutti, con Dio o senza Dio, si trovano ad attraversare: quella di fatti ormai avvenuti e non modificabili dei quali portiamo una qualche responsabilità che ci addolora e ci pesa quando con la memoria torniamo a questi stessi fatti, coltivando la fantasia e il desiderio che non siano mai avvenuti. In certi momenti questo peso dei fatti può allargarsi fino ad occupare tutto il nostro orizzonte, dandoci l’impressione che non possa esserci nulla che ci consenta di andare oltre. Ebbene, in questi momenti, possono esserci d’aiuto queste parole della lettera di Giovanni: Dio è più grande del nostro cuore. Nel linguaggio religioso – condiviso dai con Dio e utilizzato dall’autore della lettera – è Dio stesso a essere più grande del nostro cuore e a conoscere ogni cosa, ma forse anche i senza Dio possono riconoscere che i fatti di per sé non costituiscono necessariamente l’ultima parola, notando come già questo modo di dire – l’ultima parola – rimandi alla straordinaria capacità che le parole possiedono di riuscire ad andare oltre il semplice accadere dei fatti, consentendone a volte una qualche preziosa forma di elaborazione. Come la parola, così anche la fiducia e il credere, che troviamo richiamati subito dopo nel testo della lettera di Giovanni, possono diventare atteggiamenti decisivi, insieme all’amore degli uni per gli altri, quando si tratta di affrontare fatti che diversamente sarebbero difficili o addirittura impossibili da affrontare, da sopportare e da attraversare rimanendo in qualche modo vivi. Il luogo dello spirito dove con Dio e senza Dio possono arrivare, dopo questo attraversamento di regioni dolorose, viene descritto nella lettera di Giovanni – nel suo linguaggio religioso – come un rimanere di Dio in noi, testimoniato appunto dallo Spirito che con Dio e senza Dio possono riconoscere di avere – in forme diverse – ricevuto.

Nel brano della vite, dei tralci e dell’agricoltore, l’evangelista Giovanni richiama due fatti per certi versi simili ma nelle loro conseguenze profondamente differenti, se non addirittura contrapposti: il fatto, da una parte, dell’essere tagliati, gettati, seccati e bruciati quando si è tralci che non producono frutti e, dall’altra parte, il fatto dell’essere tagliati o potati per produrre più frutti quando si è tralci che producono frutto. Ciò che accomuna i due fatti dal punto di vista dei tralci è l’essere tagliati, l’essere tagliati per così dire nel vivo, l’essere in questo modo nettamente e definitivamente separati da qualcosa a cui fino a un momento prima si era profondamente e vitalmente uniti. La radicale differenza tra i due fatti la fanno il punto nel quale avviene il taglio e, di conseguenza, quale sia – tra i due lati – il punto nel quale ci si viene a trovare in quanto tralcio tagliato: il lato del tralcio che rimane unito alla vite o il lato opposto che ne viene separato per sempre. Tutti quanti, con Dio e senza Dio, abbiamo a che fare nel corso della nostra esistenza con alcuni fatti rilevanti e ben precisi che sono come dei tagli netti, a partire dal taglio originario: quello del cordone ombelicale che fino a quel momento ci aveva unito a nostra madre. In quel primo caso si trattava di un taglio necessario per introdurci nella vita, anche se in qualche modo compensato da altre forme di ri-congiungimento, anzitutto materno, a partire dall’allattamento e da tutte le diverse forme di accudimento genitoriale. In questo passo del vangelo di Giovanni, invece, la simbolica di riferimento sembra essere (più che di tipo materno e femminile) di tipo paterno e maschile, collegata qui alla figura dell’agricoltore, una simbolica dove i tagli diventano fatti che segnano in modo netto separazioni definitive e irreversibili o, al contrario, ferite e amputazioni inferte perché possa avvenire una nuova crescita e perché si possano produrre più frutti. In ogni caso il taglio è un fatto che produce inevitabile sofferenza e una separazione che comporta la perdita di un collegamento esistente, ma se in un caso la perdita diventa perdizione, nell’altro caso la perdita si propone come una sorta di investimento fiducioso in un futuro guadagno. A ben vedere, le condizioni necessarie perché i fatti evolvano in questa direzione di crescita sono essenzialmente due e riguardano le due estremità del tralcio, cioè il mantenimento dell’unione originaria con la vite e la capacità di lasciar recidere l’estremità del tralcio. Se ci poniamo sul piano del vissuto religioso ed ecclesiale, dobbiamo notare che tanto i con Dio quanto i senza Dio – quelli perlomeno che provengono da un’esperienza di legame con la tradizione religiosa – possono avere difficoltà a riconoscere chiaramente, fin da subito e con certezza, se il taglio che sperimentano stia separando loro stessi dalla vite o se, al contrario, stia separando da loro l’estremità del tralcio. Anche se può sembrare strano, in realtà non è così semplice riconoscere, nel momento in cui – come tralci – si viene tagliati, se il fatto che sta avvenendo in quel momento ci stia separando definitivamente dalla radice da cui proveniamo o se, al contrario, stia consolidando il legame con quella stessa radice, rendendola in prospettiva e attraverso di noi più feconda e fruttuosa. Come spesso capita in agricoltura, anche qui sarà il trascorrere del tempo a illuminare il pieno significato del fatto avvenuto in un determinato momento e a mostrarne più chiaramente gli effetti. Quel fatto che sembrava apparentemente una separazione definitiva dalla vite e dalla radice potrebbe rivelarsi nel tempo un taglio che ha consentito – anche se a prezzo di sofferenze – uno sviluppo fruttuoso della vite e della radice stessa, grazie al tralcio potato. Ma potrà anche capitare che il taglio compiuto in vista di un miglioramento e di una crescita si riveli in realtà una ferita mortale che provoca una separazione definitiva dal legame con la vite e con la radice. Si tratta di un’alternativa che può riguardare nella Chiesa non solo i senza Dio ma anche i con Dio, per lo meno secondo l’approccio che Karl Rahner utilizza (come abbiamo visto al n. 2 delle nostre riflessioni teologiche) per descrivere la situazione dei cosiddetti cristiani anonimi. Questo approccio, infatti, comporta – in modo speculare alla possibile esistenza di cristiani anonimi – anche la possibile esistenza di coloro che a livello di auto-consapevolezza esplicita si ritengono cristiani ma che in realtà non sono tali, dal momento che, contrariamente ai cristiani anonimi, nel vissuto concreto della loro esistenza e nel loro orientamento più profondo, hanno consolidato nel tempo il fatto di una radicale separazione da quelle che sono le radici profonde di un’autentica esperienza cristiana. E tuttavia con Dio e senza Dio non sono lasciati semplicemente in balia di un’angosciosa incertezza esistenziale su quale sia l’effetto dei tagli che sperimentano nel loro percorso di vita cristiana ed ecclesiale. Se, infatti, lasciamo che le parole bibliche ed evangeliche dimorino in noi e le coltiviamo con un discernimento paziente, lasciando loro il tempo di germogliare e portare frutto, possiamo essere fiduciosi che i tagli da affrontare non diventeranno fatti che ci separano da quella radice buona che il messaggio cristiano si propone di essere per chiunque, con Dio o senza Dio, voglia accoglierlo.