L’APOCALISSE: nostalgia del futuro – 2^ parte
una Introduzione al libro dell’Apocalisse del biblista Antonio Nepi, esperto di Antico Testamento e appassionato della letteratura giovannea.
di Antonio Nepi
- Ap 1–3. Introduzione e settenario:
la Chiesa discerne sé stessa
Ap 1,1-3. L’“allora” della profezia di Giovanni ridiventa disponibile nell’“oggi” dell’assemblea liturgica e riconferma le promesse di Dio, facendo le congratulazioni (macarismi) a chi le crede e le vive. Questa prospettiva di “felicità” però, come si preciserà nel libro, non ammette sconti: il saper «conservare» la Parola equivale a «lavare le vesti», cioè essere persone “pasquali”, radicalmente fedeli fino alla fine ai propri impegni battesimali (14,13; 16,15; 19,9; 20; 22,7.14).
Ap 1,4-8. La Chiesa, nella sua realtà e unità universale e locale (il numero 7 esprime pienezza), è chiamata a riscoprire e riscegliere la sua identità che nasce dal mistero pasquale (1,6), epifania del mistero trinitario (1,4-5). La Redenzione, come un nuovo Sinai (Es 19,6), non è stata semplicemente una liberazione dal peccato, ma una liberazione per la vita; nel riscatto pasquale la Chiesa diventa proprietà personale di Dio e di Cristo, popolo regale (ha gli stessi diritti e la legge di Dio; 5,10), profetico (chiamato all’annuncio e alla testimonianza – martyria – della Parola, così come al discernimento dei tempi; 11,3.10; 18,24; 19,10) e sacerdotale (chiamato a rappresentare Dio dinanzi gli uomini e ad intercedere per gli uomini dinanzi a Dio). Nell’Apocalisse questa triplice identità corrisponde all’essere «figli» e «fidanzata-sposa» (Ap 12; 21–22).
Cristo = Messia si presenta come l’A e la Z, l’alfabeto non solo delle promesse di Dio, ma anche del tempo e della storia trova senso in Lui. I titoli esprimono la sua vittoria, la sua affidabilità e lealtà (pistos), la sua energia, che realizzano e trasformano, soprattutto nei momenti cruciali, ciò che è umanamente impossibile (Onnipotente).
La citazione del v.7 (cf. Zc 12,10; Gv 19,37) sta a dire che tutta la storia dovrà riconoscere la sua vittoria finale sul male.
Ap 1,9-20. Il mistero delle chiese è il mistero del Risorto, che «cammina in mezzo ad esse» (Mt 18,20). Simbolicamente la Chiesa viene presentata nella sua dimensione liturgica-pasquale (= candelabri d’oro) e nella sua dimensione trascendente (= stelle). La Chiesa continua come corpo la presenza del Risorto incarnata nella storia, controllata pienamente dalla «destra» di Dio (Ap 1,20). Non rifiuta il mondo, ma trova il suo orientamento, la sua “politica” altrove, nel politeuma di Dio (Fil 3,20; Gv 17,14).
Il settenario delle lettere è una settuplice liturgia penitenziale, che si articola in uno schema fisso: a) indirizzo della chiesa; b) autopresentazione del Risorto; c) giudizio di Dio sulla chiesa; d) esortazione particolare; e) promessa a chi vince il male in agguato; f) esortazione all’ascolto di ciò che lo Spirito continua a dire.
Si tratta di un esame di coscienza, alla luce della Parola di Dio, in cui la Chiesa discerne anzitutto sé stessa, verifica se è “sacramento” di Dio per l’uomo, cioè la “sposa”, la “dimora” dove gli uomini incontrano tangibilmente Cristo, Vangelo della carità del Padre (GS 22).
Questo test riguarda l’identità e le «opere» (da intendere non come “dovere” legalistico, ma come fenomenologia naturale di una spiritualità pasquale). In Ap 22 esse sono il vestito della sposa, ma lo stilista è Dio. In gioco è l’obbedienza cristiana su valori non negoziabili, a delle esigenze assolute di fedeltà, che possiamo sintetizzare in: carità, fede, servizio, perseveranza, distanza critica (2,19). Ciò che è detto di ogni chiesa, vale per la Chiesa di sempre. I punti irrinunciabili sono:
- il primato della Parola, della fede, della testimonianza, come coinvolgimento vitale e responsabilità profetica, che è coerenza e fedeltà al proprio battesimo («le vesti bianche»);
- il primato della carità (agapē), che si traduce in diakonia: se non c’è carità, solidarietà, servizio, capacità di intervento e di accoglienza, la chiesa non è chiesa e la liturgia è falsa (cf. Ap 2,5!). Si evita un riduzionismo della carità, colta come incarnazione della verità e come scelta di Dio e non solo delle cose di Dio (cf. Ef 4,15);
- la fatica e passione dell’evangelizzazione, che scaturisce dalla comunione (cf. Mc 3,14), la scelta della povertà come totale dipendenza da Dio; la consapevolezza di essere minoranza («sale» o «lampada»; Mt 5,13);
- la “tenuta” nella prova e sotto pressioni (perseveranza); l’amarsi e lasciarsi amare per quello che si è nonostante i limiti; la “tribolazione” come suggello di autenticità dell’essere chiesa (At 14,22). I credenti vittime devono intercedere per i loro carnefici;
- la vocazione profetica a saper “svelare” nell’oggi il “rivelato” della storia; la sintonia esistenziale ed operativa con ciò che lo Spirito «continua a dire alle Chiese»; ciò presuppone la capacità di respirare lo stesso respiro dì Dio (Ap 3,1);
- la tensione escatologica: proiettare ogni avvenimento nell’eschaton ed un impegno a “vincere”, cioè eliminare ogni forma di peccato personale e sociale.
Correlativamente ci sono dei rischi e delle scelte che vanno evitati e che si riassumono nelle rispettive “denunce” pedagogiche del Risorto («ma ho da rimproverarti») e simbolicamente in tre figure-tipo, celebri nella letteratura giudaico-cristiana: Balaam, Gezabele e i Nicolaiti.
Balaam rappresenta il rischio di “prostituirsi” alle maschere fascinose dell’idolatria (cf. Nm 31,16), l’indebolimento dell’esperienza di fede in surrogati o forme emozionali (magia, esoterismo), il pericolo di fare della pietà una fonte di business (cf. 1Tim 6,5).
Gezabele – oltre alla “fornicazione” da intendere come tradimento di Dio – personifica la falsificazione della vita cristiana, che non coglie più la vita, le persone e le cose in riferimento al Creatore, nonché di tutte quelle dinamiche che mirano alla disgregazione dell’unità della comunità.
I Nicolaiti rappresentano in un certo senso i “nominalisti della fede”: in nome di una superiorità spirituale considerano tutto apparenza, per cui confondono bene e male (Is 5,20). Sono inclini al palcoscenico, ai compromessi (per loro è consentito chiamare kyrios l’imperatore ed è stupido rischiare la morte per la fede) e al lassismo morale.
Va notato che queste figure-tipo rappresentano cristiani all’interno della comunità e non fuori. Esse coesistono con le seduzioni e vantaggi dell’assolutismo politico-commerciale di Roma. Giovanni parla da ostracizzato.
Abbiamo pertanto 7 “specchi” di chiese, con cui perennemente confrontarci (cf. Gc 1,23):
Efeso = una “bella senz’anima”, scaduta nel professionismo del “fare”, che sceglie le cose di Dio piuttosto che Dio;
Smirne = “vive per Lei”, per la Parola, che le dona energia per la resilienza;
Pergamo = non dice “no al triangolo” dei compromessi;
Tiatira = viene chiamata a “dare di più”;
Filadelfia = una chiesa che continua positivamente;
Sardi = una chiesa zombie, perché “Dio è morto”, chiamata alla “vita adesso”;
Laodicea = una chiesa “tiepida”, perché si compiace del suo essere autosufficiente.
Questa settuplice sinossi penitenziale è un processo (rîb) amoroso di Dio, che tende pedagogicamente alla valorizzazione del positivo e alla coscienza del negativo: non si può restare prigionieri di analisi paralizzanti o di povertà non accettate, ma si deve «risorgere e rinvigorire ciò che rimane e sta per morire» (Ap 3,2).
- Decifrare nel presente la novità della Pasqua (Ap 4–22)
Letterariamente questa seconda parte ha un’articolazione più complessa. Consta di 5 sezioni: l. una sezione introduttoria (4,1–5,14), che presenta la visione del trono, del Dio creatore e la consegna del libro dei sigilli; 2. la sezione dei sette sigilli (6,1–7,17); 3. la sezione delle trombe (8,1–11,14), dove alle ultime tre si sovrappongono tre «guai» (8,13); 4. la sezione dei “tre segni” (la donna, il drago, gli angeli delle coppe); 5. la sezione conclusiva (16,17–22,5), che descrive il gran giorno dell’intervento finale di Cristo.
Sigilli / trombe / coppe: simboli di giudizio. Dal processo bilaterale (rîb) si passa a quello trilaterale (mišpaṭ). Detto altrimenti, nel settenario delle lettere il Risorto contesta la Chiesa. Qui i cristiani sporgono querela («fino a quando?») dinanzi a Dio, citando in giudizio i colpevoli. Nel bilaterale c’è il recupero di un rapporto; nel trilaterale l’innocente è assolto, il colpevole punito.
Queste cinque sezioni risultano concatenate, in un “crescendo” che sfocia nella conclusione; solitamente l’ultimo elemento di ogni settenario abbraccia la parte susseguente.
Nel corso del libro c’è un gioco di tempi verbali tra passato e futuro che serve all’autore per dare un carattere “metastorico” al suo messaggio, cioè valevole in ogni tempo.
Una volta purificata, l’assemblea viene invitata a guardare il grande schermo degli eventi in un’ottica di fede (Ap 4,2) e a decifrare la voce dello Spirito, che attualizza la parola del Risorto. I tre settenari (sigilli, trombe, coppe) non sono altro che la triplice riproposizione, ogni volta più sviluppata, dello svolgersi della storia della salvezza nelle sue vicende alterne. È in atto uno scontro, inevitabile, tra quanti aderiscono al progetto di Dio che trova il suo senso in Cristo e le forze ostili di chi si oppone a questo progetto. La storia, apparentemente vinta dal male, è però totalmente nelle mani di Dio, riscattata dalla Pasqua dell’Agnello, che sta operando una nuova creazione e la sta portando al compimento definitivo. Questa è dono primario ed impensabile di Dio, ma comporta anche la collaborazione dei credenti. Suggestiva è la tecnica anticipatoria, che serve da messaggio di speranza, ma anche da test all’assemblea leggente; il presente, in cui la chiesa lotta, soffre e spera, viene “interrotto” da ciò che definitivamente sarà. Ad esempio, sia i 24 vegliardi del cap.4 che vivono la felicità di salvati, sia i 144.000 di 14,1-5, ebbene tutti costoro, che sono coloro che partecipano al regno e la nuova Gerusalemme in Ap 21, sono funzionali ad illuminare quale sarà la sorte di chi resterà fedele.
Non possiamo analizzare dettagliatamente questa sezione; ci limitiamo al tema maggiore, scelto come filo conduttore della traccia, offrendo alcuni esempi di “riflessione sapienziale” su alcuni testi.
- L’Agnello sgozzato, ritto in piedi,
icona dell’Apocalisse
L’immagine centrale che troviamo nella sezione introduttoria è quella dell’Agnello, sgozzato (= crocifisso) e ritto in piedi (= risorto), il Veniente oggi e alla fine (Ap 5). Si tratta di una icona unica nell’AT.
Nel sovrapporsi dei simboli questa icona coincide con quella del Figlio dell’Uomo Sacerdote (Ap 1,12), con gli attributi del Risorto che cammina in mezzo alle chiese (Ap 2–3), con il cavaliere sul cavallo bianco (Ap 6,2; 19,11), ed è intimamente connessa a quella della sposa-città dell’Agnello (Ap 21,9).
Alcune sintetiche osservazioni, decrittando i vari registri simbolici.
Tutta la creazione di cui Dio è Signore (Ap 4), nella sua multiformità, trova compimento e senso nella Redenzione, operata dall’Agnello (si evoca l’agnello pasquale liberatore di Es 12 e la solidarietà del Servo di Yhwh di Is 53), visto però come vittorioso. È lui, il suo Vangelo (Ap 10,2), la chiave che decodifica non solo il mistero di Dio, ma quello della storia passata, presente e futura (il rotolo dei sette sigilli; Ap 5,5) e ne offre il senso ultimo (= escatologico).
I suoi attributi sono messianici: egli trasfonde nella storia la totalità (il numero sette) della sua energia (le corna) e dei doni dello Spirito (gli occhi), per condurla alla sua pienezza, che è il Regno del Padre. È questa la “buona notizia” per sempre (Ap 14,6). Nella Pasqua tutto è stato detto ed è il Cristo – la fedeltà e la veridicità del Padre nella storia – l’unica realtà vivente che la Chiesa deve offrire. L’Agnello (nella concreta esistenza storica di Gesù di Nazareth) è il contenuto e la metodologia di ogni evangelizzazione. Riandare alla “sorgente” del Crocifisso-Risorto («via, verità e vita») garantisce forza, inventività nella fedeltà ed evidenzia le scelte prioritarie e ineludibili (l’annuncio del Regno, il perdono, l’amore preferenziale per i poveri).
L’Agnello è «sgozzato» perché ha dato la sua vita per noi, novità dell’Amore di Dio che ci ama per primo e ci fa figli.
«Sgozzato» rimanda alla sua morte violenta di innocente.
La comunità trova il lui il paradigma della testimonianza, che è sequela e servizio, annuncio e denuncia scomodi, dono di sé a prezzo dell’espropriazione della parola, del più tragico fallimento umano. Questo appare in Ap 2,13 (Antipa, che ha versato il suo sangue, riceve lo stesso titolo martys di Gesù crocifisso, significativamente nel “cuore” del libro; Ap 11), dove viene descritta la martyria dei due testimoni. Nel sovrapporsi di passato, presente e futuro, sono figure-tipo di ogni autentico seguace dell’Agnello, in ogni “città” ostile a Dio e all’umano. È chiaro che la strada del discepolo è quella dell’Agnello crocifisso, anzi più infamante, anonima, ma destinata alla risurrezione. Il punto fondamentale è scegliere questa solidarietà del Servo con l’uomo, fino ad assumerne il dolore, l’insuccesso, la morte (Ap 12,11), e lasciarli convertire in vita per tutta l’umanità, così come saper riconoscere nel Cristo il sacramento della sofferenza di tutti i crocifissi del mondo, che non va sprecata.
È «ritto in piedi», ovvero risorto, ma anche vittorioso, perché il Padre gli ha reso giustizia, a dimostrare che la vita non resta in balìa della violenza, del peccato e della morte. La Risurrezione invita a saper discernere i germi di vita nuova che si annunciano in ogni sofferenza personale e sociale e a sperare nella solidarietà del Riscattatore. Gli avvenimenti più drammatici diventano portatori di senso (sub opposita specie), se trasferiti dalla fatalità dell’ineluttabile alla necessità della libertà. Il sì dell’abbandono alla signoria del Risorto, 1a “resa” alla realtà drammatica del presente, non significano accettare che essa resti tale, ma si traducono in “resistenza”, in cambiamento, in un “no” a tutto ciò che contrasta questa signoria nella storia (Rm 8,38).
È il «Veniente» nella forza dello Spirito, nella Parola potante (Eb 4,12) e fruttificante (Mt 13,3-8), nell’Eucaristia, nella missione, nella solidarietà verso tutti gli uomini. Egli è Colui che «cammina in mezzo ai candelabri», bussa alla porta (Ap 3,20), chiama a continua conversione per togliere le maschere del vecchio e «fare nuove le cose». La vigilanza (Ap 16,15) elimina ogni torpore e porta all’essenzialità. Egli viene anche negli avvenimenti positivi dove la signoria del Risorto è trasparente, anche al di là degli steccati, nelle «opere buone» di tutte le persone che, senza etichette, camminano lungo la via della verità e della vita, a cui lo Spirito, in modo imperscrutabile, offre la possibilità di venire a contatto con il mistero pasquale (cf. Mt 25,31-46). L’Apocalisse non distingue tra responsabilità religiosa e politica.
Da vari ammiccamenti il Risorto appare come Sommo Sacerdote (Ap 1,12). Tutto il popolo di Dio trova in Lui il modello di sacerdotalità nella sua funzione precipua di mediazione reciproca tra Dio e l’umanità. La Chiesa vive questa liturgia esistenziale come incarnazione progressiva della liturgia celeste, come cooperazione alla nuova creazione, attraverso l’intercessione e la carità: in Ap 5,8 e 8,4 il simbolo è quello delle «coppe di profumi», che sono le preghiere dei santi: esse non sono sprecate, ma, una volta salite nella comunione dei santi, vengono trasformate da Dio in energia riversata sulla terra per realizzare il suo disegno.
L’immagine dell’Agnello va connessa a quella del cavaliere sul cavallo bianco, che compare in Ap 6,2 (= il Risorto) e 19,11-16 (il Cristo giudice), ad indicare che la storia è sotto il segno della vittoria pasquale. Nonostante quelle che sembrano “sconfitte”, la comunità è invitata alla certezza che il «Verbo di Dio» condurrà al compimento la nuova creazione, in una sorta di “guerra santa” non violenta, da intendere come eliminazione del male. La Chiesa è associata a questa “guerra santa” (Ap 7,14; 14,4) che è la sequela radicale, pronta a dare la vita (= «lavare le vesti nel sangue dell’Agnello»), la santificazione del mondo, il “tormento” di un annuncio, di una testimonianza e di un invito alla conversione «non gradite» (Sap 2,12-20). La querela – il grido «fino a quando» (Ap 6,9) – è affidare a Dio la propria causa nel grande processo intentato dall’Accusatore (Satan). Correlativamente è richiesta che si manifesti «la città di Dio» (Gerusalemme), il che comporta la distinzione di ogni sistema in antitesi a Dio (Babilonia).
Nell’Apocalisse si invoca e si gioisce per la distruzione del peccato, non dei peccatori, così come si spera, implicitamente, nella conversione del mondo (Ap 1,7).
In Ap 22,9 l’Agnello è lo sposo: la Chiesa ne è la fidanzata (già), la sposa (non ancora). La sua identità è dono e compito, rifiuto di “doti e amori” di altri signori: la sua «veste di lino» (Ap 19,8) è novità operata da Dio, ma anche tessitura degli uomini (= le opere giuste dei santi). Queste «opere», mai specificate, corrispondono agli impegni che abbiamo già visto nel settenario e che la Chiesa conosce bene, facilmente condensabili nel «comandamento nuovo» (Gv 15,12); esse diventano la trasparenza evangelizzatrice e la dimora tangibile dell’amore di Dio.