A che ora è la fine del mondo?

1° Incontro Rossana Virgili Vai
2° Incontro Rinaldo Fabris – Vai
3° Incontro Giancarlo Biguzzi – Vai
4° Incontro Sandro Carbone – Vai

Rossana Virgili

1. «Le quattro grandi bestie salivano dal mare» (Dn7,2) – Le apocalissi nel Primo Testamento

Il termine “apokálypsis” (“rivelazione”) indica la fine e quindi lo svelamento del tempo, per poi essere “ri-velazione”, nuovo velamento, cioè ritorno nel tempo. Il contenuto è che sono giunti gli “ultimi tempi”; dall’altro la forma è importante, con un linguaggio tipico, che è quello simbolico. L’apocalittica nasce dalla delusione del popolo di Israele, che si trova impotente e debole, in contemporanea con l’esaurirsi della profezia. Per l’apocalittica Israele non potrà farcela in questo mondo, per cui è necessario un intervento diretto di Dio, che sconvolga l’ordine del mondo in cui gli Ebrei vivono, che per loro è durissimo. Si immagina una “guerra santa” che viene fatta da Dio contro i potenti, che terminerà col Giudizio di Dio contro i nemici di Israele e col riscatto del suo popolo, che non viene abbandonato.

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«LE QUATTRO GRANDI BESTIE SALIVANO DAL MARE» (Dn 7,2)

Le apocalissi nel Primo Testamento [1]

  1. INTRODUZIONE

Il nostro tema appare estroso e accattivante. Ci si domanda quando arriverà questa fine del mondo, un’immagine che fa battere il cuore. C’è paura o c’è voglia della fine del mondo?

Si dovrebbe rispondere che c’è più paura, ma senza escludere un po’ di desiderio, poiché l’incedere continuo del tempo chiede sempre qualcosa di definitivo. C’è quantomeno curiosità nei confronti della fine del mondo, altrimenti non ci spiegheremmo l’eccesso di interesse che essa suscita.

“La Bibbia e la fine del mondo” è il titolo della nostra conversazione. Occorre, però, mediare, ponendo qualche parola in mezzo. Perché la Bibbia non si coniuga così automaticamente alla fine del mondo, in quanto essa tende, piuttosto, a ridare al lettore questo mondo. Le parole bibliche vogliono far abitare all’uomo la terra, sebbene, in alcuni casi, potrebbe sembrare il contrario.

Nella sua lunga narrazione, infatti, la Bibbia parla molto del mondo che deve venire, del tempo futuro che succederà a quello presente, una fine che si presenta, dunque, come un nuovo inizio, un orizzonte di vita rinnovata. Il Nuovo Testamento (NT) parla della “parousía”, ossia della “venuta” futura del Signore e si conclude con l’Apocalisse. Ma quest’ultima, come dice letteralmente il suo titolo: “rivelazione” – dal greco:“apokálypsis” – indica, da una parte, la fine e quindi lo svelamento del tempo, per poi essere “ri-velazione”, nuovo velamento, cioè ritorno nel tempo.

Si può affermare che, nella Bibbia, la voglia di stare al mondo è più forte di ogni altra cosa: c’è il desiderio di godere della vita. Lo stesso Gesù non vuole morire. E la scena finale del terzo vangelo, quella dei discepoli di Emmaus (cf. Lc 24,13ss), ne è uno splendido esempio: Gesù si ferma volentieri a mangiare a casa  con i due amici, in una scena che è assolutamente familiare e legata alla vita terrena. Dunque la Bibbia vorrebbe far vivere bene l’uomo dentro alla realtà storica, che è quella in cui tutti noi attualmente viviamo.

A conferma di tutto ciò, si può rilevare che né nel Primo Testamento, né nel NT si trova il vocabolo “apocalittica”, ossia quella scienza che si occupa della fine del mondo. Abbiamo, invece, il sostantivo femminile “apokálypsis”, che significa appunto “rivelazione”, ossia lo “scoprimento”, il “togliere il velo” al fine di vedere ciò che sta dietro, sotto o dentro. Non è tanto ciò che c’è “dopo”, quanto ciò che c’è “già e non ancora”, ciò che non si vede ancora bene. Il termine “apokálypsis” possiede pertanto una doppia semantica, che riflette due livelli della realtà.

Un primo livello è quello che si sperimenta. Oggi noi leghiamo questo verbo alla scienza sperimentale, quella dopo Galileo, ossia quella scienza che permette di conoscere la realtà da un punto di vista fenomenico, attraverso la sensibilità. C’è una realtà che l’uomo riesce a cogliere con la vista, con il tatto, con l’udito, ecc. In questo livello  il “velo” diventa un linguaggio che mai esaurisce la pregnanza della realtà. L’uomo vede le cose, ma le vede “velate”.

Un secondo livello è quello che si deve cercare sotto “il velo” di ciò che si può sperimentare con i sensi. “Apokálypsis” (che significa “togliere ciò che copre”, “togliere il velo”) descrive, allora, la visione di un secondo livello della realtà, che è “apocalittico”, cioè tutto da scoprire!

La parola “apokálypsis” si trova soltanto nel NT. Il termine: “velo” connota la poesia amorosa. Lo si trova nel Cantico dei Cantici: «Come è bella la sua gota attraverso il velo» (cf. Ct 6,7). Ciò per dire che l’autentica visione della realtà chiede sempre la castità mediativa di un velo.

Inoltre richiama ad un linguaggio cultuale, poiché cita il tempio di Gerusalemme, in cui un velo separava il “Santo dei Santi” dalla visione dei fedeli.

Il velo è, dunque, qualcosa che introduce e copre il mistero, l’anima delle cose. Ecco perché l’Apocalisse parla della fine del mondo. Come paragone, si può pensare a quando nel Pentateuco si legge che non si può vedere Dio e restare vivi (Es 33,20; Gdc 13,22).

Partendo dalla filologia e da ciò che i testi fanno emergere, si può stabilire che l’apokálypsis non riguardi la fine del mondo in senso temporale, quanto coinvolga una “seconda visione” della realtà. Ciò prepara il passaggio dall’apocalittica all’escatologia. Mentre l’apocalittica resta come una parola univoca che annuncia una nuova realtà e un intervento particolare di Dio in un tempo storico preciso, l’escatologia riprende i significati più genuini e già presenti nel NT per dire che l’apocalisse è qualcosa che si declina come un “già” e un “non ancora”. Infatti nel cristianesimo c’è “già” qui ed ora un anticipo di “fine del mondo”, ossia l’anticipo di una realtà che ancora non è presente del tutto. È un “ancora”, ma “non ancora”.

[1]           Trascrizione della conferenza tenuta a Carpi il 29-01-2012, rivista dall’autrice.

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Rinaldo Fabris

2. «Alla voce dell’arcangelo e al suono della tromba…» (1 Ts 4,16) – Le apocalissi nel Nuovo Testamento

Il linguaggio apocalittico attraversa tutti i libri del NT. Gesù stesso è un predicatore di carattere apocalittico; e ogni vangelo sinottico si conclude con una piccola apocalisse. Anche Paolo adopera il lessico apocalittico, soprattutto quando parla del giudizio di Dio. Gli autori del NT fanno ricorso alle categorie e alle espressioni della tradizione apocalittica per interpretare lo scontro tra bene e male nella storia umana, in cui i cristiani sono chiamati a vivere. È un messaggio ancora attuale, che mostra lo svelamento del disegno di Dio e del mondo da Lui creato, che viene sostenuto e guidato dalla sua Parola e portato a compimento, poiché la parola finale è la creazione. La giustizia finale di Dio è preparata dai frammenti di giustizia che gli uomini cercano di far crescere. Ecco allora che la visione “apocalittica” della storia è un sano antidoto contro la caduta di speranza

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«ALLA VOCE DELL’ARCANGELO E AL SUONO DELLA TROMBA…» (1 Ts 4,16)

Le apocalissi nel Nuovo Testamento[1]
  1. IL GENERE APOCALITTICO

In alcuni documenti della prima e della seconda generazione cristiana si parla dell’attesa della venuta del Signore, che, con una parola greca mutuata dal culto imperiale, si chiama “parousía”, ovvero “venuta”. Non significa “ritorno”, in quanto il Signore non è andato via, ma viene. Come si usa il termine “epifania” (dal greco: epipháneia), ossia “manifestazione”, così si adopera il termine “parousía”. Sono entrambi vocaboli legati alla visita che l’imperatore faceva alle città e alle province (che significava, in concreto, strade nuove, giochi, feste, al fine del consenso politico). Ebbene, la parousía indica evento imperiale come epipháneia.

Le attese dell’intervento finale di Dio del Nuovo Testamento (NT) sono espresse in forma apocalittica. Quest’ultimo termine viene dall’incipit dell’ultimo libro del canone cristiano, che fino al 2008 era conosciuto come “Apocalisse di Giovanni”. La nuova traduzione dice: «Rivelazione di Gesù Cristo» (Ap 1,1). Infatti, se si traduce il termine greco apokálypsis con “apocalisse”, in realtà non si traduce niente, in quanto si tratta di una mera trascrizione in caratteri latini di un vocabolo greco. Invece, se si traduce “rivelazione”, ossia “il velo tolto riguarda Gesù Cristo” (in quanto è lui il protagonista della rivelazione di Dio), si indica lo svelamento del disegno di Dio che Gesù Cristo è venuto ad attuare.

Però dal XVIII secolo gli studiosi della Bibbia, dal vocabolo apokálypsis, hanno definito “apocalittica” tutta la letteratura che ha affinità con visioni, con audizioni, con piani di Dio mostrati nel cielo e che poi si realizzano sulla terra, con catastrofi e cataclismi. Questo genere letterario si trova nel V, IV e III secolo a.C. Esso è ripreso dagli scrittori cristiani del primo secolo d.C. Nell’ultimo libro del canone cristiano l’autore si presenta come “Giovanni”. Nel NT è l’unico, insieme a Paolo, che si presenta in modo chiaro, sebbene si tratti di uno pseudonimo, per dare autorevolezza allo scritto, come avveniva in altri testi e libri apocalittici. A partire da tale espressione, i brani letterari – dal Primo Testamento, all’Apocalisse di Giovanni fino ai libri apocrifi – saranno chiamati “apocalissi”, al plurale. Dunque si tratta di un termine greco italianizzato, che indica un genere di comunicazione, che fa leva sul linguaggio simbolico, essendo legato alle visioni. Accanto alle visioni ci sono le audizioni, che servono a spiegare le visioni, tipiche del genere apocalittico

L’apocalittica è un sotto-genere della profezia, un termine per indicare la letteratura riguardante l’agire di Dio, che alcune persone interpretano e presentano. L’apocalittica è un settore particolare della profezia, sorto in tempo di crisi. Essa affronta un problema tipico, ossia com’è sorto il male e come si supera. È un problema di sempre. L’elemento centrale dell’apocalittica non è la fine del mondo, un problema che non tocca l’esistenza, a differenza del problema del male (inteso non solamente come male fisico, ma soprattutto come scontro tra bene e male nella società e nel mondo), che è invece un problema cruciale.

Cosa fa Dio davanti allo scontro tra il bene e il male nella storia? Nell’apocalittica si cerca di capire da dove deriva il male e come si risolverà. Interessa sapere da che parte stare, capire se è possibile ancora sperare, oppure bisogna rassegnarsi ad essere travolti con l’ultima catastrofe.

Lo scopo di questi testi è di sostenere la perseveranza, nonostante le prove, nella fedeltà a Dio e nella carità fraterna. È questo il messaggio fondamentale che si trova sia nei Vangeli sia nelle lettere di Paolo, dove l’apostolo invita continuamente a non stancarsi di fare il bene e a non lasciarsi spaventare dai richiami allarmistici (in particolare in 2Ts).

  1. L’APOCALITTICA NEL NUOVO TESTAMENTO

2.1.  Il genere apocalittico nei vangeli

Il linguaggio apocalittico – inteso come il giudizio di Dio che alla fine fa emergere il male e lo elimina – attraversa tutti i 27 libri del NT, compresi i Vangeli. Secondo lo studioso tedesco Albert Schweitzer (1875-1965), Gesù è un predicatore di carattere apocalittico. Infatti annuncia che il regno di Dio sta per arrivare. Ciò significa che Dio giudica e instaura la sua giustizia per tutti gli esseri umani. Il regno di Dio significa che egli crea, interviene a liberare il suo popolo e soprattutto giudica. Questo è il senso del regno di Dio. Un re vero rende giustizia a coloro che non possono pagarsi gli avvocati o comprare i giudici. Dunque si aspetta, finalmente, un giudice giusto.

Gesù annuncia il compimento del tempo di attesa: il regno di Dio è arrivato e bisogna prepararsi, convertirsi ed accogliere questa bella notizia. Egli adopera il linguaggio apocalittico, sebbene con grande discrezione.

Infatti si presenta con una qualifica unica, che non compare nelle lettere di Paolo: «il Figlio dell’uomo».  Questa espressione viene dal libro di Enoch, che fa parte della letteratura apocrifa dentro alla grande corrente apocalittica. Prendendo lo spunto dal libro di Daniele nel libro delle Parabole di Enoch si parla del “figlio dell’uomo”. Nel capitolo settimo di Daniele si narra la sua visione della lotta tra i grandi imperi, rappresentati dalle bestie feroci. Finalmente verrà uno «come un figlio d’uomo» con le nubi del cielo, al quale Dio consegnerà il regno, il potere, la gloria, e il suo regno non avrà mai fine (cf. Dan 7,13-14). A partire dalla visione di Daniele i circoli apocalittici elaborano l’idea di un personaggio che sta accanto a Dio, da Lui scelto, nascosto, che sarà il giudice finale: «il figlio dell’uomo».

Non si tratta di un titolo; infatti non lo si trova mai in bocca alla gente come ad esempio «Cristo». Pietro riconosce Gesù Messia, dicendo: «Tu sei il Cristo» (Mc 8,29). Nessuno dice Gesù: «Tu sei il Figlio dell’uomo». Quando vuole parlare del proprio destino umiliato e della sua attesa dell’intervento di Dio, Gesù dichiara: «Il Figlio dell’uomo sarà consegnato agli uomini, lo uccideranno, ma Dio lo risusciterà dopo tre giorni» (cf. Mc 9,31). Questo è un linguaggio di matrice apocalittica, con il riferimento alla figura simbolica e misteriosa del «figlio dell’uomo» della tradizione di Daniele.

Tutti i tre Vangeli sinottici si chiudono con una piccola apocalisse (Mc 13; Mt 24-25; Lc 17.21). Qui si trova il discorso finale di Gesù, il quale, per parlare del testamento, utilizza il registro e il linguaggio dell’apocalittica. Si parla della crisi, soprattutto di carattere sociale: sconvolgimenti cosmici, guerre e terremoti. I discepoli non devono spaventarsi, poiché è soltanto l’inizio della fine. Poi ci sarà l’assedio di Gerusalemme, che è pure un segno, ed infine apparirà sulle nubi del cielo il Figlio dell’uomo, che convocherà gli eletti dai quattro angoli della terra.

[1] Trascrizione della conferenza tenuta a Carpi il 19-02-2012, rivista dall’autore.

 

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Giancarlo Biguzzi

3. Alla fine della storia ci sarà Gerusalemme (Ap 21,1-2) – L’Apocalisse di Giovanni

Quella apocalittica è essenzialmente una letteratura di oppressi: chi è oppresso e schiacciato scrive nutrendo la profonda speranza che Dio faccia valere i diritti dei suoi figli e che porti a compimento i suoi piani. Dunque la letteratura apocalittica aspetta la fine. Nell’Apocalisse il tempo è “breve”; però è vissuto nella persecuzione da parte dei cristiani, ai quali l’autore scrive per esortarli a rimanere saldi, perché, alla fine (una fine che è termine delle fatiche del lungo viaggio, che è vittoria sul tempo e sullo spazio, che è riscatto e risanamento delle relazioni) ci sarà la Gerusalemme radiosa e celeste, col banchetto di nozze con Dio per tutti coloro che Gli sono stati fedeli.

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ALLA FINE DELLA STORIA CI SARÀ GERUSALEMME (Ap 21,1-2)

L’Apocalisse di Giovanni[1]

Iniziamo dall’interrogativo generale che dà il titolo al ciclo di conferenze: “A che ora è la fine del mondo?”. Dal titolo scelto per questa relazione si evince bene che non ci impegneremo a rispondere alla domanda sul momento in cui scoccherà l’ora della fine. Infatti il nostro titolo annuncia che “Alla fine (che ovviamente verrà!) ci sarà Gerusalemme”. Dunque non riveleremo in che giorno o in che minuto la fine verrà, bensì vedremo cosa c’è alla fine.

  1. ATTESA DELLA FINE E CALCOLO DEI TEMPI

1.1.  Attesa e calcoli per la fine della letteratura apocalittica

L’Apocalisse deve essere ambientata nel proprio tempo, che è un tempo di attese che potrebbero essere definite – appunto – “apocalittiche”. Bisogna fare grande attenzione, poiché tale vocabolario proviene proprio dalla prima parola di questo libro, che chiaramente ha avuto un grandissimo influsso, sebbene noi adoperiamo tale aggettivo con un valore diverso da quello originario.

Dunque il tempo in cui l’Apocalisse fu scritta era un tempo di attese apocalittiche. Di conseguenza, era un tempo di calcoli per conoscere l’ora della fine. Ad esempio, nella letteratura affine (ossia quella che parla lo stesso linguaggio, che adopera le stesse immagini e usa gli stessi procedimenti narrativi) si vede la presenza di questa attesa e di questi calcoli per trovare il momento fatidico della fine.

Quella apocalittica è essenzialmente una letteratura di oppressi: in essa chi è oppresso e schiacciato scrive ciò che pensa e sente. Gli apocalittici non vedono in questo mondo alcuna speranza, ma, allo stesso tempo, non sono disperati. Infatti quella apocalittica, proprio perché letteratura di oppressi, è una letteratura che nutre una profonda speranza: che Dio faccia valere i diritti dei suoi figli e del suo popolo e che porti a compimento i suoi piani. Dunque la letteratura apocalittica aspetta la fine; e questo è sì segno della pesantezza dell’oppressione, ma anche della speranza che vive nell’oppresso.

È per tale motivo che questa letteratura è animata da una spasmodica tensione verso la fine, considerata come vicina, anzi imminente. Proprio perché si spera che il tempo della fatica e della sofferenza sia breve, si aspetta la fine. Tutto ciò è messo nello schema dei “due tempi”, che i cristiani conoscono bene. Per gli scrittori dell’apocalittica Dio non ha creato un tempo solo: «L’Altissimo ha fatto non una sola età (ossia: non un solo mondo), ma due» (4 Esdra VII 49). Gli uomini vivono nel mondo penultimo, quello dell’oppressione, della schiavitù, dell’ingiustizia, del sangue, della guerra. È un mondo in cui è molto difficile vivere. L’autore apocalittico aspetta che Dio venga a spianare le rughe della storia; e lo farà ponendo fine a questo mondo e inaugurando un mondo nuovo: «Nuovi cieli e nuova terra» (Is 65,17). Ecco allora che l’apocalittico vive in questo tempo e in questo mondo, nei quali è difficoltoso vivere, aspettando l’altro tempo e l’altro mondo.

Continuiamo a leggere alcune frasi di questi libri.

«L’età (quella che deve venire) non ancora sveglia si desterà, e perirà quella corruttibile» (4 Esdra VII 31): si sente l’attesa di un mondo migliore, del mondo vero, rispetto a questo che è, almeno in parte, sbagliato e che fa tanto soffrire.

Nel Secondo libro di Baruc (sostanzialmente contemporaneo all’Apocalisse di Giovanni) si legge: «Poco manca all’avvento dei tempi. (…) Il secchio (che scende giù dalla carrucola) è vicino alla cisterna e la nave al porto e la strada alla città e la vita al compimento» (2 Baruc 85,10). Si vede bene che attesa c’era: si ricorreva a diverse immagini per comunicare tale attesa della fine, e le si coglieva dal pozzo, dal viaggio e, soprattutto, dalla vita.

L’attesa di questa grande svolta, di questo grande mutamento era tanto intensa che gli apocalittici cominciarono a calcolare il tempo che li separava dal grande evento. Ecco che nacquero i calcoli del giorno in cui la fine verrà.

Il libro dell’Antico Testamento (AT) che maggiormente ha contribuito al desiderio di calcolare i tempi, e soprattutto il tempo della fine, è il libro biblico di Daniele. Daniele è considerato uno dei profeti, ma è anche un autore apocalittico. E, in almeno 4-5 testi, dà indicazioni e cifre precise per calcolare la fine. Al tempo del Nuovo Testamento (NT) tutti riconoscevano in Daniele l’autore che maggiormente aveva fatto scuola per questi calcoli. In particolare lo scrittore Flavio Giuseppe (37-103 d.C., contemporaneo di Paolo e Giovanni) sostiene che Daniele non si limita ad annunciare gli eventi futuri, alla pari degli altri profeti, bensì fissa i tempi («Non soltanto preannunciava le cose future come gli altri profeti, ma segnò anche il tempo nel quale sarebbero avvenute», “Antichità Giudaiche” X 267). Dunque Daniele era proprio un maestro per i protagonisti del NT.

Leggiamo parte di Dn 12, in cui è mostrata almeno due volte la contrapposizione tra il mondo presente e quello futuro.

[1] Trascrizione della conferenza tenuta a Carpi il 04-03-2012, non rivista dall’autore.

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Sandro Carbone

4. «Vedremo soltanto una sfera di fuoco» (Nom) – I segni già presenti della fine

Tutto il vangelo di Marco è un annuncio apocalittico. Il messaggio unificante del secondo vangelo è la venuta del Regno di Dio sulla terra, di cui Gesù non è soltanto l’araldo, ma è colui che lo incarna in sé e lo realizza già pienamente attraverso la sua vita, morte e risurrezione. La rivelazione della sua identità va di pari passo con i segni della realizzazione del Regno e diventa massima proprio quando Gesù si svuota di sé stesso per realizzare, con la sua morte espiatrice, il riscatto dell’uomo ed il conseguente rovesciamento apocalittico del mondo. Alla fine la sovranità di Dio sarà assicurata ed ogni apparente sconfitta, diserzione, incomprensione ed umiliazione che i discepoli dovranno subire farà parte della via della croce, che porta con sicurezza alla vittoria di Dio sul mondo, così come ha portato alla risurrezione di Gesù Cristo.

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I SEGNI DELLA VENUTA DEL REGNO

  1. IL VANGELO DELL’ANNUNCIO APOCALITTICO

Se si vuole parlare di segni della fine nei Vangeli, dobbiamo indubbiamente partire dal vangelo secondo Marco letto alla luce del suo capitolo conclusivo prima della passione. Si tratta del discorso escatologico del cap. 13, che con un linguaggio apocalittico affronta il tema dei segni della fine.

Ma, possiamo dire, tutto il Vangelo di Marco è un annuncio apocalittico, iniziando da Mc 1,1-15, in cui notiamo che il termine evangelo forma una inclusione tra il v. 1: «Evangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio», e il v. 15: «Il Regno di Dio è giunto a voi. Convertitevi e credete all’Evangelo». Il termine “evangelo” viene così identificato all’interno della pericope dal suo oggetto: dimostrare, cioè, che Gesù di Nazaret è il Messia e il Figlio di Dio che è venuto nel mondo per instaurare il Regno di Dio. L’autore del secondo vangelo inizia questa dimostrazione mediante una citazione composita di Mi 3,1; Es 23,20 e Is 40,9 (Mc 1,2-3). Tutte e tre i riferimenti biblici sono rimaneggiati da Marco e puntano sull’annuncio dell’irruzione della sovranità di Dio nel mondo. Ciò inquadra subito il secondo evangelo in un contesto apocalittico.

Anche la predicazione di Giovanni il Battista, incentrata sull’invito alla conversione e all’arrivo del «più forte» di lui che battezzerà in Spirito Santo, è tutta imbevuta di temi apocalittici sulla venuta finale del Regno (1,4-8).

Infine Gesù, rivestito della potenza dello Spirito e confermato dalla voce dal cielo quale Figlio prediletto del Padre (1,9-11), è tentato nel deserto per portare a compimento la guerra di JHWH contro il nemico e instaurare il Regno di Dio negli ultimi tempi (1,12-13).

Il termine “Evangelo” dunque contiene la predicazione degli apostoli sull’instaurazione della Signoria di Dio su tutta la terra mediante il suo Figlio Gesù Cristo, conformemente al mandato conferito a loro da Gesù stesso nel vangelo (cf. 1,19; 6,7; 13,10 = 16,20).

Da ciò emerge chiaramente che in Marco il compito degli apostoli consiste soprattutto nel partecipare attivamente all’agenda del Regno di Dio. Essi devono aver coscienza di partecipare attivamente all’instaurazione del Regno di Dio nel mondo e alla realizzazione del suo dominio. Tutto ciò è pienamente incarnato e vissuto da Gesù, che, come agente in nome di Dio, conferisce loro di fatto la possibilità di partecipare ai poteri del Regno; è necessario pertanto che essi restino costantemente uniti a Gesù, che è sempre presente in mezzo a loro.

Se nell’evangelo di Marco si manifesta più volte il tema l’incomprensione dei discepoli, soprattutto nella prima parte (3,20-21; 4,35-41; 5,40; 6,5; 6,52; 8,16-21), essa appare causata dal venir meno del loro impegno totale nell’impellente irruzione del Regno di Dio nel mondo, come emerge poi chiaramente nella seconda parte (8,31-16,8). Essi hanno difficoltà a credere all’effettivo potere di Gesù nel mondo quale agente escatologico di Dio, alla sua provvidenza (8,17-18), al suo potere contro il male, alla sua sofferenza e alla sua morte nonché alla sua resurrezione. È per questo che anche nella seconda parte dell’evangelo reagiscono negativamente ai tre annunci della passione di Gesù (8,31-33; 9,30-32; 10,32-34). La loro domanda è la stessa di Giovanni il Battista (Mt 11,2-3): «Sei tu colui che sei venuto per legare il più forte (3,27) o dobbiamo aspettare un altro?». Quella fede che richiede Gesù ai suoi, per la quale tutto è possibile per chi l’ha (9,23), viene meno ai discepoli proprio nei momenti culminanti in cui sarebbe più necessaria (14,43-52), lasciando così il posto al rinnegamento (14,66-72) e al rifiuto dell’annuncio (16,1-8). Essa impedisce il pieno riconoscimento della messianicità di Gesù e l’importanza della missione dei Dodici nel mondo[1].

È per questo che Gesù, prima di affrontare la passione, fa ai suoi il discorso escatologico (Mc 13), in cui tira le somme del suo annuncio e, con uno stile prettamente apocalittico, lo rilancia nella missione della Chiesa precisandone le modalità, rafforzando la perseveranza dei discepoli nelle persecuzioni e richiedendone la fede necessaria.

Se all’inizio dell’evangelo Gesù aveva annunciato la necessità di «fidarsi dell’evangelo» (1,15) e ne aveva mostrato il potere in cielo e in terra (1,16-2,27) come inizio della vittoria escatologica del Regno di Dio annunciata dal profeta Isaia (1,2-3), aveva poi dimostrato come tutto questo si  incarnasse e realizzasse già nella sua stessa persona, con potere e vittoria, quale Figlio eletto del Padre (1,11; 9,7). Vedendo ciò, ogni discepolo ha il dovere di annunciare quanto Dio ha fatto per l’uomo (5,19) negli ultimi tempi. Pur dovendo rettificare le aspettative del giudaismo circa la sua missione (vedi tematica del segreto messianico[2]), Gesù proclama che il Regno di Dio tanto atteso dai profeti  si sta realizzando con forza proprio attraverso la sofferenza e la persecuzione che il Messia, in qualità di servo sofferente, incontra per primo e che tutti discepoli dovranno poi affrontare. Questi eventi non sono segno di sconfitta, ma piuttosto segno che la lotta sta entrando nel vivo e la vittoria non è lontana.

Entriamo così nel vivo del discorso programmatico più importante di tutto l’evangelo in rapporto al Regno di Dio e ai segni della sua venuta: il discorso escatologico. Questo discorso va correttamente inquadrato perché esso costituisce la chiave di interpretazione di tutto il resto dell’evangelo.

[1] Cf. S. Watts Henderson, Christology and Discipleship in the Gospel of Mark, Cambridge Uni. Press, Cambridge 2008, 241-253.

[2]  Cf.  Watts Henderson, Christology, 5-9.

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