Il Viaggio

1° Incontro Maria Pina Scanu Vai
2° Incontro Jean-Louis Ska – Vai
3° Incontro Ermenegildo Manicardi – Vai
4° Incontro Romano Penna – Vai

Maria Pina Scanu

1. Vattene per te! – «Abramo aveva 75 anni quando lascio Carran» (Gen 12.4)

Il viaggio di Abramo nasce da un invito di Dio, che gli dice: «Parti per te!», cioè a suo vantaggio. Abramo deve lasciare ciò che gli è caro e fidarsi di Dio, e così alla fine guadagnarci. Il scegliere Dio lo aiuterà a superare tutti gli ostacoli che dovrà affrontare (l’andare in una terra, quella di Canaan, che è già occupata; la sterilità della moglie Sara; i pericoli per la propria vita in Egitto; il sacrificio del figlio Isacco). Infatti, quando non si fiderà di Dio e userà stratagemmi umani, Abramo regredirà nel suo rapporto con Dio ed anche con Sara. Nel suo viaggio Abramo apprende qualcosa ad ogni tappa, la quale diviene un punto di partenza per un nuovo altrove che Dio gli indica.

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«Parti per te!» (Gen 12,1) Il divenire di Abramo camminando davanti a Dio[1]

La Bibbia racconta del viaggio di singole persone o del popolo di Israele a più riprese e per vari motivi. Ogni volta non si tratta semplicemente di un viaggio umano, geografico; piuttosto le circostanze che lo determinano, le vicissitudini che lo caratterizzano e gli orizzonti che da esso si dischiudono, ne fanno luogo e simbolo del continuo camminare di Dio con l’umanità.[2] Di volta in volta nel viaggio umano, che avviene per proposta, per necessità, per costrizione, per ricerca, Dio è presente, e l’itinerario concreto si rivela, nel contempo, occasione di maturazione umana e di conoscenza di Dio. Questo modo di concepire il viaggio alimenta un modello culturale del mondo biblico, con una prospettiva che si estende, nella letteratura sapienziale, al punto da considerare l’intera esistenza umana come una strada da percorrere, un viaggio che, tuttavia, può apparire enigmatico per la mancanza di conoscenza su ciò a cui si va incontro e per la difficoltà umana di decifrare l’azione divina (cf. Gb 3,20.23).[3]

Questo studio è incentrato sul viaggio di Abramo, l’antenato con il quale ha origine, secondo la narrazione biblica, l’intera vicenda di Israele e che rese possibile una svolta nella storia della rivelazione divina. Innanzitutto, richiamo alcune considerazioni su altri viaggi e viaggiatori del mondo antico, che consentiranno di contestualizzare il viaggio di Abramo e di coglierne più a fondo peculiarità e orientamenti. Successivamente, la presentazione si sofferma su tre tappe che scandiscono il percorso di Abramo. Si tratta della partenza da Carran (Gen 12,1.4); il viaggio in Egitto dopo l’arrivo in Canaan (Gen 12,10); il pellegrinaggio a Mòria (Gen 22,2). Queste tappe, che non esauriscono il motivo del viaggio, presente di fatto nell’intero ciclo narrativo sul primo patriarca (Gen 11,27-25,11), sono, tuttavia, emblematiche per accedere alle molteplici istanze del viaggio di Abramo con Dio, mediante il quale lo sviluppo della fede si intreccia con quello della crescita umana, e ogni tappa svela nuove mete da raggiungere sul piano umano e con Dio

  1. Viaggi e viaggiatori

nella letteratura del mondo antico

Nella letteratura dell’Antico Vicino Oriente, in Mesopotamia, si distingue il racconto del viaggio intrapreso dal re sumero di Uruk, Gilgameš alla ricerca del segreto dell’immortalità.[4] Gilgameš, dopo la morte del suo amico Enkidu, tormentato dallo spettro della morte, si reca fino ai confini dell’universo per raggiungere un antenato sopravvissuto al diluvio, Utnapištim, e chiedergli il segreto dell’immortalità. Ripercorrendo il cammino che il sole fa durante la notte, Gilgameš arriva in oriente, incontra il suo eroe e riesce ad avere la pianta che dà la vita. Tuttavia, nel cammino di ritorno, tragicamente la perde e così, nella tristezza, riprende la vita normale e il suo governo nel paese.

Il viaggio che Gilgameš intraprende all’estremità del tempo e dello spazio è mosso dall’acutezza del problema della morte, che non risparmia neanche il re. Il racconto di questo viaggio, mentre dimostra che l’ideale della vita eterna è irraggiungibile, determina nel protagonista, per la tenacia e le prove affrontate, consapevolezza e sapienza, qualità che ne fanno un grande sovrano.

In Egitto, un viaggio rappresentativo, raccontato nei «Testi delle Piramidi» e nei «Libri dei morti»,[5] è quello del sovrano morto che, rispetto ai comuni mortali, ha un destino differente e speciali diritti in quanto gode di prerogative divine. Infatti, se il faraone vivente rappresentava la divinità del cielo nella sua manifestazione terrena, dopo la morte l’aspettativa era quella di raggiungere la sede celeste diventando, come gli altri faraoni morti, una stella. Tuttavia, per accedere alle regioni del cielo, come fratello o figlio degli dèi, il sovrano deve superare le ritrosie di guardiani e traghettatori che vietano l’accesso ai profani. Il re sarà degno del cielo solo dopo essere stato purificato dagli dèi ed essere stato provato il suo diritto davanti a un tribunale divino.

In questo ambito si tratta, pertanto, di un viaggio post mortem, nel regno dei morti che si trova sottoterra ed è visitato dal sole nel suo percorso notturno. Il viaggio è riservato soprattutto al sovrano che aspira, superando gli ostacoli e le ostilità incontrate nell’oltretomba, ad essere annoverato immortale nella società divina celeste.

[1] Testo rielaborato della conferenza tenuta a Carpi il 24-02-2013. L’Autrice ringrazia i promotori C.I.B. per l’invito.

[2] Il camminare di Dio incontro all’umanità che inizia nel giardino (cf. Gen 3,8), secondo i racconti delle origini, si è trasformato, ma non è interrotto, dopo l’espulsione del genere umano.

[3] Sull’argomento e sul rilievo nella disputa di Giobbe cf. M.P. Scanu, «Giobbe», in La Bibbia PIEMME, Casale Monferrato (AL) 1995, 1127.

[4] Sull’epopea di Gilgameš rinvenuta in varie versioni e lingue del mondo mesopotamico che vanno al II millennio al VII sec. a.C. circa, cf. A.R. George (ed.), The Babylonian Gilgamesh Epic. Introduction, Critical Edition and Cuneiform Texts, I-II, Oxford 2003; G. Pettinato (a cura di), La saga di Gilgameš, Milano 2004; J.H. Tigay. The Evolution of the Gilgamesh Epic, Philadelphia, PA 1982.

[5] Per i testi cf. S. Donadoni (a cura di), Testi religiosi egizi (Classici delle religioni), Torino 1970, 37-175; 255-346.

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Jean-Louis Ska

2. Viaggio nella ribellione – «Perché ci hai fatti uscire dall’Egitto?» (Nm 21,5)

Per essersi ribellato a Dio, Israele trascorre nel deserto 40 anni. In tale lasso di tempo deve dimenticare la vita in Egitto, venendo punito per le sue numerose infedeltà. Però non solo: nel deserto Israele suggella l’alleanza con Dio, riceve la Torah e tutte le sue istituzioni religiose e civili. Il tempo del deserto è visto dai profeti Osea e Geremia come un evento positivo; è dall’esilio in Babilonia con Ezechiele che è ricordato come un periodo di ribellione a Dio. Infatti l’infedeltà dell’esilio è retroproiettata all’esodo e alla nostalgia per «le cipolle dell’Egitto». Dunque nei 40 anni di viaggio nel deserto Israele rilegge un messaggio attuale, dopo l’esilio, ed elabora che la grazia e il castigo divini sono dovuti, oggi come allora, alla fedeltà o alla ribellione a Dio.

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VIAGGIO NELLA RIBELLIONE

«Perché ci hai fatti uscire dall’Egitto?» (Nm 21,5)[1]

Il popolo d’Israele, tra l’esodo dall’Egitto e l’entrata nella terra promessa, trascorre quaranta anni nel deserto. Sarebbero dovuti essere molti meno, ma Israele si ribella, rifiutandosi di conquistare la terra promessa. Perciò Dio lo condanna a rimanere quaranta anni nel deserto. L’argomento che dobbiamo trattare è già presente in queste poche parole: perché Israele rimane così a lungo nel deserto? Qual è il significato di tale lungo viaggio in una terra desolata? Che cosa impara Israele durante questo tirocinio?

Torniamo però un attimo sui “quaranta anni” nel deserto. Nel mondo biblico il tempo di quaranta anni è il tempo di una generazione. Dopo quaranta anni sono morti tutti coloro che sono usciti dall’Egitto e una nuova generazione, che è nata nel deserto, è pronta a entrare nella terra promessa. Quaranta anni sono, pertanto, il tempo di un rinnovamento totale del popolo, giacché tutta la generazione dell’esodo è scomparsa, ad eccezione – secondo il racconto di Numeri 13-14 – di Giosuè e Caleb, i quali non si sono ribellati.

Si potrebbe dirlo in altri termini, affermando che Israele deve dimenticare l’Egitto. Tutta la generazione nata e cresciuta in Egitto muore nel deserto. Coloro che entrano nella terra promessa non hanno conosciuto l’Egitto. Israele deve dimenticare l’Egitto, la schiavitù in Egitto e, soprattutto, «le cipolle dell’Egitto». È una tematica che si ritrova alcune volte nei racconti sulla permanenza di Israele nel deserto, perché il popolo è afflitto da una malattia cronica, nell’occorrenza la nostalgia dell’Egitto: ogniqualvolta sorge una difficoltà, il popolo vuol tornare indietro e ritrovare gli agi dell’Egitto, dimenticando però che l’Egitto è anche la casa di servitù.

Il nostro percorso consta di cinque tappe:

  1. Prima faremo il punto sulla tematica principale, ossia le ribellioni. Stranamente i racconti che narrano di Israele nel deserto parlano spesso di mormorazioni, di lamentele e di ribellioni.
  2. Poi vedremo che la Bibbia non presenta sempre la permanenza di Israele nel deserto come un tempo di ribellione. In realtà, vi sono visioni molto più positive dello stesso periodo. Ad esempio, nel profeta Osea e nel profeta Geremia esso è visto come il tempo del fidanzamento di Israele col suo Dio. Sorge allora la domanda: quando e per quali motivi Israele interpreta il proprio passato nel deserto come un passato negativo, come un tempo di ribellioni e di castighi divini?
  3. Leggeremo un testo del profeta Ezechiele (Ez 20,33-38), che fornirà alcuni elementi importanti per rispondere alla domanda.
  4. Analizzeremo in particolare quali sono i motivi della ribellione, col rifiuto della terra promessa.
  5. Infine affronteremo un esempio, ossia l’episodio delle quaglie avvelenate (Nm 11,4-35).
1.  I quaranta anni di permanenza di Israele nel deserto

La permanenza di Israele nel deserto dura quaranta anni. Il racconto è molto lungo: è la sezione più lunga dell’intero Pentateuco. Infatti si è nel deserto già in Es 15 (Israele è appena uscito dall’Egitto, dopo aver attraversato il mare) e qui si rimane fino alla fine del libro del Deuteronomio. Si tratta di circa 4/5 dell’intero Pentateuco.

Il deserto sarebbe dovuto essere un breve tempo di transizione fra l’Egitto e la terra promessa: solamente il tempo di un viaggio. Nella Bibbia diventa un tempo paradigmatico: il periodo fondante di Israele. Infatti tutte le grandi istituzioni di Israele risalgono a questo periodo. Ad esempio, la Legge è stata proclamata nel deserto, non nella terra promessa, e dunque prima dell’entrata nella terra.

Anche le grandi istituzioni civili e religiose, quali i giudici e il mondo della giustizia, i sacerdoti e il funzionamento del culto, ossia la gerarchia civile e la gerarchia religiosa, risalgono al tempo del deserto.

Tutto ciò significa pure che il diritto biblico non è un diritto territoriale, come invece – ad esempio – in Grecia. Nell’opera “Critone” Socrate dice di essere nato e cresciuto ad Atene grazie alle leggi di Atene. Egli è ateniese e quindi appartiene al territorio di Atene; e le leggi di Atene sono le sue leggi. Qui il diritto è territoriale, ossia è il diritto del luogo in cui una persona nasce e cresce.

Invece il diritto di Israele è molto più personale: è innanzi tutto il diritto di un popolo, e poco importa dove si trova questo popolo. Perciò il diritto è proclamato nel deserto, che è la terra di nessuno. Il deserto non è un territorio, bensì è un “non-territorio”. Pertanto la Legge è legata alle persone e, come scrive il grande poeta tedesco di origine ebraica Heinrich Heine (1797-1856), «la Torah (la “Legge”, l’istruzione) per gli Ebrei è una patria portatile». È possibile portarla con sé, poiché è personale, è legata alle persone e non a un territorio. Una persona nasce ebrea: è la nascita che determina la sua identità.

[1] Trascrizione della conferenza tenuta a Carpi il 27-01-2013, rivista dall’autore.

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Ermenegildo Manicardi

3. Un rabbi itinerante – «Gesù indurì il volto per andare a Gerusalemme» (Lc 9,51)

Nei vangeli Gesù è spesso in viaggio, sia per predicare, sia per raggiungere Gerusalemme, luogo in cui un profeta muore. Il vangelo secondo Luca mostra diversi viaggi, compiuti da vari personaggi (ad esempio: Maria; Giovanni Battista; i discepoli di Emmaus). Il più importante e impegnativo è il grande viaggio verso Gerusalemme, che Gesù compie per andarvi a morire e per svelare il volto della salvezza, in obbedienza assoluta al Padre e nella forza gioiosa dello Spirito Santo. Gesù lo propone anche ai suoi discepoli, perché pure essi sono destinati all’annuncio universale del Vangelo e, insieme, ad un reale incontro personale con Gesù.

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IL VIAGGIO DI GESÙ E DEI DISCEPOLI NEL VANGELO SECONDO LUCA[1]

«Viaggio» deriva, in definitiva, da «via».[2] «Viaggio» significa percorrere una via, ossia passare da un posto ad un altro. Ovviamente il termine può indicare un viaggio materiale, lo spostarsi da un luogo ad un altro. Esso, però, diventa spesso anche una frequente metafora della vita interiore, per lo più della crescita spirituale, quando un uomo o una donna passano attraverso diverse tappe e “cambiano”. Molte volte questa crescita è segnata anche dallo spostamento di luogo, cosicché i luoghi nuovi diventano stimoli per un cambiamento, per un approfondimento, per una decisione più netta.

La positività del «viaggio» appare dal contrasto con il suo opposto, che non è «fissità». Il contrario del «viaggio» è piuttosto il «labirinto», dove ci si sposta molto e con affanno, ma senza raggiungere mai nessun punto veramente nuovo. Nel labirinto alla fine ci si perde. Ci si può domandare se la propria vita sia un «viaggio» che, procedendo per tappe, sale verso una méta, o sia purtroppo piuttosto un «labirinto», un inutile e penoso gironzolare senza un fine.

Quella del «viaggio» è dunque una metafora universale, che raccoglie tutta l’esperienza umana, e può ricapitolare anche l’esperienza religiosa.[3]

1.  Gesù, un itinerante

Il viaggio, proprio per questi motivi, attraversa molte pagine della Scrittura, nell’Antico come nel Nuovo Testamento. Uno dei libri determinanti della Bibbia ebraica, e di conseguenza della vita cristiana, è il libro dell’Esodo, che significa «uscita», «viaggio via da». Il termine hodos significa «cammino» e «esodo» indica un «cammino di uscita». Con questo titolo si sottolinea l’idea di liberazione, ma è noto tale che liberazione non è istantanea, non basta l’attraversamento del Mare Rosso. L’esodo per esser completo, perché si arrivi alla Terra promessa, ha bisogno di quaranta anni di peregrinazioni nel deserto.

Non soltanto nell’Antico Testamento, ma anche nel Nuovo Testamento «via» è una metafora centrale. Da una citazione che si trova negli Atti degli Apostoli si sa che i cristiani, prima ancora di essere chiamati con questo nome[4], furono designati anche come «quelli della via», ossia quelli che appartengono alla via, quelli che camminano (At 9,2).[5]

1.1.  Gesù un predicatore

Nei Vangeli Gesù è spesso in cammino per allargare la sua predicazione e il suo insegnamento in obbedienza alla sua vocazione. All’inizio del Vangelo secondo Marco c’è un passo che mostra come Gesù non si fermi mai, perché la sua vocazione lo tiene necessariamente in costante cammino.

«Al mattino presto si alzò quando ancora era buio e, uscito, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava. Ma Simone e quelli che erano con lui si misero sulle sue tracce. Lo trovarono e gli dissero: ‘Tutti ti cercano!’.[6] Egli disse loro: ‘Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!’. E andò per tutta la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e scacciando i demòni» (Mc 1,35-39). Gesù è in cammino per insegnare e predicare, per compiere la sua missione. Non un viaggio di relax o per uscire dalla propria situazione, bensì un itinerario che ha un motivo opposto: Gesù cammina per andare più in profondità nella risposta alla propria vocazione: «Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto». Gesù è venuto per predicare, ma anche per viaggiare affinché la predicazione raggiunga davvero le dimensioni che deve avere.

Negli spostamenti di Gesù dunque c’è un’ansia missionaria, ma non solo: ci sono dei posti e dei livelli per i quali egli deve passare. Gesù deve raggiungere certe località. Lo dice un passo di Luca, in cui così Gesù risponde ad alcuni che lo avvertono che Erode lo sta cercando per ucciderlo: «Andate a dire a quella volpe: ‘Ecco, io scaccio demòni e compio guarigioni oggi e domani; e il terzo giorno la mia opera è compiuta. Però è necessario che oggi, domani e il giorno seguente io prosegua nel cammino, perché non è possibile che un profeta muoia fuori di Gerusalemme’» (Lc 13,32-33). Gerusalemme è sicuramente il luogo più importante in cui Gesù ha predicato. Lì c’è il tempio, con i suoi grandi cortili nei quali si raccoglie il popolo d’Israele e nel quale – almeno in una certa zona – possono entrare, se lo vogliono, anche i pagani. Il tempio è quindi il luogo più idoneo in Israele perché Gesù possa diffondervi il suo messaggio. Tutti passano di lì.[7]


[1] Conferenza tenuta a Carpi il 10-02-2013.

[2] La parola viaggio deriva dal provenzale viatge, che a sua volta proviene dal latino viaticum, un derivato di via. Viaticum in latino era la provvista necessaria per mettersi in viaggio, e passò più tardi a significare il viaggio stesso.

[3] Ad esempio, il termine «tao» (da cui deriva il «taoismo») significa esattamente «via».

[4] At 11,26: «Ad Antiòchia per la prima volta i discepoli furono chiamati cristiani».

[5] At 9,1-2: «Saulo, spirando ancora minacce e stragi contro i discepoli del Signore, si presentò al sommo sacerdote e gli chiese lettere per le sinagoghe di Damasco, al fine di essere autorizzato a condurre in catene a Gerusalemme tutti quelli che avesse trovato, uomini e donne, appartenenti a questa Via».

[6] È sottinteso: «a Cafarnao tutti ti cercano». Dunque i discepoli invitano Gesù a stare fermo, a tornare là dove ha avuto successo.

[7] Inoltre il tempio è la casa di Dio, la casa costruita dal figlio di Davide, Salomone; e Gesù si presenta come il nuovo «Figlio di Davide». Certamente in Gerusalemme c’è il polo di predicazione più alto di tutti.

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Romano Penna

4. In missione per conto di Dio – «Paolo porterà il mio nome dinanzi ai popoli» (At 9,15)

Il libro degli “Atti degli apostoli” presenta diversi viaggi, soprattutto i viaggi missionari di Paolo. Sia nel Primo Testamento che nella letteratura dell’antico Vicino Oriente sono narrate le peripezie di tanti viaggiatori (da Abramo, all’esodo del popolo di Israele, ad Ulisse, solo per citare i più famosi); dall’antichità ci sono giunti i resoconti dei viaggi di tanti esploratori, navigatori, filosofi, soldati. Però nessuno è come Paolo, il quale viaggia per la Parola: egli dà tutto sé stesso per l’annuncio del Vangelo, dedicandovi completamente la sua vita.

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IN MISSIONE PER CONTO DI DIO:

«Paolo porterà il mio nome dinanzi ai popoli» (At 9,15)[1]

  1. Introduzione

Il terzo vangelo presenta un lungo viaggio di Gesù verso Gerusalemme, come non è narrato negli altri vangeli. Inoltre gli Atti degli Apostoli, sempre di Luca, presentano diversi viaggi. Quindi evidentemente il tema del viaggio era confacente alla struttura mentale dell’evangelista.

Questi non era neanche obbligato a dettagliare un viaggio di tale genere, con Gesù che scende dalla Galilea a Gerusalemme, come se fosse sceso una volta sola. In realtà, con ogni probabilità la vita pubblica di Gesù si scagliona su un triennio; pertanto deve avere compiuto almeno tre viaggi a Gerusalemme. Tuttavia, così come gli altri due vangeli sinottici, Luca racconta un viaggio solo, pur dedicandogli ampio spazio. Dunque Luca ha sintetizzato tutto il ministero pubblico di Gesù in un unico passaggio da nord a sud.

Il libro degli Atti degli Apostoli è il “secondo volume a Teofilo”, al quale sono, appunto, indirizzati sia il Vangelo che gli Atti. Non sappiamo chi sia questo Teofilo. Probabilmente è un cristiano, in quanto Luca dichiara di aver redatto la sua opera affinché Teofilo sia «confermato nella fede nella quale era stato catechizzato» (cf. Lc 1,4).

Il “secondo volume a Teofilo” è quello tradizionalmente conosciuto col nome “Atti degli Apostoli”. In realtà sono “Atti di Apostoli”, con un “genitivo partitivo”, in quanto gli Apostoli di cui Luca racconta il viaggiare, in realtà, sono uno solo; che – per di più – per Luca non è un Apostolo (!). Infatti per Luca gli “Apostoli” sono i Dodici; mentre Paolo non è uno dei Dodici. Dunque Luca dedica uno spazio enorme a questo Paolo di Tarso, che non è considerato un Apostolo in senso stretto (la ricorrenza del vocabolo in At 14,4.14 rivela un significato diverso se confrontato con 11,1 e 15,2). Furono molti, soprattutto nel I secolo, a negare a Paolo l’apostolicità, una qualifica che egli invece difende con vigore, ad esempio, in 2Cor 10-13. Inoltre egli, all’inizio delle sue lettere, si qualifica sempre come «Paulos apòstolos».

In Paolo il concetto di apostolato è molto ampio. Ad esempio, lo attribuisce anche a delle donne, come in Romani 16,7, in cui scrive di Andronìco e Giunia, che sono «apostoli insigni del mio sangue» (ovvero anche loro Ebrei). Sono una coppia che si trova a Roma; e questa Giunia, che è chiaramente una donna, è definita appunto «apostolo». Nella Prima lettera ai Corinzi, quando elenca la serie delle cristofanie (le apparizioni di Gesù risorto), scrive: «È apparso a Cefa e poi ai Dodici e poi a tutti gli apostoli» (cf. 1Cor 15,5.7). Quindi chiaramente tra “Dodici” e “apostoli” per Paolo c’è una differenza. Lui stesso non è uno dei Dodici, però rivendica la qualifica di “apostolo”.

Dunque è curioso che, nel libro degli Atti, si dedichi uno spazio così ampio a Paolo. In pratica da At 13 in poi (sono 16 capitoli su 28) il racconto è sostanzialmente tutto dedicato a Paolo, ossia ad un uomo che l’autore del testo non qualifica come “apostolo”.

  1. Gli Atti degli Apostoli, un libro di viaggi

Il libro degli Atti è pieno di viaggi.

In At 9 si trova il viaggio di Saulo da Gerusalemme a Damasco. Chiaramente non si tratta di un viaggio missionario, anzi tutt’altro! Saulo va a Damasco per catturare i cristiani che vi si trovano. Comunque anche questo è un viaggio.

In At 2, nell’episodio della Pentecoste, si parla di persone che sono «Parti, Medi, Elamiti, Cappàdoci, Romani» e che sono presenti a Gerusalemme (cf. 2,9). I loro viaggi non sono descritti, però tutti costoro, per giungere a Gerusalemme, hanno dovuto viaggiare. Sono certamente Giudei della diaspora: sia della diaspora orientale («Parti, Medi, Elamiti») che della diaspora occidentale («dalla Grecia e da Roma»). Sono però tutti convenuti a Gerusalemme; quindi si tratta di viaggi supposti.

Un altro viaggio appena accennato si trova in At 8: è quello del diacono Filippo, che è sulla strada per Gaza e incontra un eunuco. Questi è un personaggio di livello alla corte della regina Candace, che egli sta accompagnando verso il suo regno in Etiopia. L’eunuco sta leggendo un passo del libro del profeta Isaia, ma senza capirlo. Allora il diacono Filippo lo aiuta a comprendere.

[1] Trascrizione della conferenza tenuta a Carpi il 17-02-2013, rivista dall’autore.

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