“Parlami”

1° Incontro Luca Mazzinghi Vai
2° Incontro Tiziano Lorenzin – Vai
3° Incontro Bruno Maggioni – Vai
4° Incontro Rinaldo Fabris – Vai

Luca Mazzinghi

1. La contestazione di Giobbe

Il problema posto dal libro di Giobbe è: come essere credenti pure nel dolore? È possibile credere in Dio anche quando la realtà sembra smentire la fede? Se si pensa alla preghiera come ad un rapporto dell’uomo col suo Dio, in Giobbe si trovano dei testi che possono essere considerati come preghiere. In essi il protagonista sofferente si rivolge direttamente a Dio col “tu”, a differenza degli amici che difendono Dio, ma non Gli rivolgono mai la parola. Invece Giobbe è l’uomo che pone domande a Dio e che da Lui attende una risposta. Non maledice Dio, ma Lo interpella con ogni linguaggio possibile (anche quello che sembra rasentare la bestemmia!). È il credente che sa passare dallo scandalo all’adorazione, ma che non mette mai in questione l’esistenza di Dio e la possibilità di un suo rapporto con l’uomo. In tutto ciò, Giobbe è un’anticipazione del credente in Cristo che, nelle prove della propria vita, prolunga e conferma la sconfitta che Cristo, nella sua morte e resurrezione, ha fatto di satana.

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LA PREGHIERA DIFFICILE IN GIOBBE[1]

  1. Libro di ribellione o anche di preghiera?

In questo nostro incontro ci fermeremo su un aspetto particolare del libro di Giobbe: quello della preghiera. Nel passato ci siamo soffermati, proprio qui a Carpi, sul tema della “sofferenza” nel libro di Giobbe[2]; abbiamo allora visto come il problema del libro non sia tanto rappresentato dalla sofferenza, quanto piuttosto dalla figura di Dio. È proprio Dio che fa problema al protagonista: come poter essere credenti, pur nel dolore? Questo sembra il grande problema posto dal libro di Giobbe: come poter aver fede in un Dio che dovrebbe essere, allo stesso tempo, buono e giusto. L’esperienza della vita sembra dimostrare che Dio non è giusto, poiché punisce l’innocente; e che non è buono, poiché non perdona l’eventuale colpevole. E del resto è questa la domanda del satana che dà il via a tutto il dramma: «Forse che Giobbe teme Dio per nulla?» (Gb 1,9). È possibile avere una fede disinteressata, senza alcuna contropartita? È possibile credere anche quando la realtà sembra smentire la fede?

Il problema della preghiera in Giobbe non è stato particolarmente affrontato dai commentatori, forse perché sembra, almeno a prima vista, che in Giobbe non vi siano molte preghiere.[3] L’unico accenno esplicito alla preghiera in Giobbe è infatti il testo di Gb 16,17, dove Giobbe si lamenta della sua sofferenza, aggiungendo che egli soffre «benché non ci sia violenza nelle mie mani e sia pura la mia preghiera», dunque che egli soffre ingiustamente. Ma proprio questo accenno ci rivela il fatto che, in bocca a Giobbe, più che preghiere vi sono lamenti che sembrano spesso sconfinare nella bestemmia.

Eppure, se noi pensiamo alla preghiera come a un rapporto dell’uomo con il suo Dio, nel libro di Giobbe ci sono senz’altro testi che possono essere considerati come preghiere, testi nei quali il protagonista sofferente si rivolge direttamente a Dio invocandolo con il “tu”. Si tratta di Gb 7,7-21; 9,27-31; 10,1-22; 13,20-14,22;[4] e infine Gb 30,20-23, nel monologo finale (Gb 29-31) che prelude l’intervento diretto di Dio (Gb 38,1ss).

Dobbiamo subito sottolineare un punto particolarmente importante in relazione al nostro tema: mentre Giobbe si rivolge spesso direttamente a Dio, i tre cosiddetti amici non lo fanno mai; essi sono molto bravi a parlare di Dio e a difenderLo, ma si mostrano incapaci di rivolgerGli una parola. Per Giobbe, Dio è comunque un soggetto con cui confrontarsi; per gli amici, invece, Dio è piuttosto un oggetto, una verità assoluta da difendere, alla fine una vera e propria ideologia religiosa da salvare anche a costo di schiacciare l’uomo. Così in bocca a Giobbe, al contrario degli amici, abbiamo una vera preghiera, anche se si tratta di preghiera certamente difficile e faticosa. Il Giobbe ribelle può diventare il Giobbe orante, proprio nel momento della sua apparente rivolta contro Dio.

  1. Gb 7,7-21: «Ricordati, un soffio è la mia vita!»

Il capitolo 7 del libro di Giobbe si apre con un lamento sul male del vivere davvero molto suggestivo, ma anche alquanto amaro (7,1-11). Nel testo di Gb 7,1-4 Giobbe paragona la vita umana a quella di un operaio agricolo, oppure a quella di un mercenario, ovvero di un salariato pagato a giornata, una vita peggiore di quella di uno schiavo, che almeno sa che ogni giorno potrà mangiare, nonostante la schiavitù. Giobbe paragona poi la vita dell’uomo a quella di esseri umani che non hanno alcuna garanzia per il futuro e la cui unica speranza è un po’ d’ombra oppure l’arrivo della notte, per poter finalmente riposare. Tale è dunque la vita umana (cf. un tema analogo in 14,14). La vera tragedia sta però nel fatto che l’unico riposo possibile per l’uomo è la morte (vv. 5-8); il v. 6, in particolare, introduce la bella immagine della vita vista come un filo (cf. la stessa immagine in Is 38,12).

Al v. 7 Giobbe inizia a rivolgersi direttamente a Dio con un imperativo non raro nella Bibbia: «Ricòrdati…!» (cf. Sal 25,6-7; 74,2.18.22; 89,51…).[5] Ricordati, Dio, che la mia vita è un soffio! Il tema della vita come soffio è anch’esso tradizionale: cf. ad esempio il Sal 39 e il Sal 144,4, ma anche un po’ tutto il libro del Qohelet, dove l’immagine della vita come soffio è frequentissima.[6] Quando questo filo che è la mia vita sarà tagliato, sarà troppo tardi anche per Dio: «Io più non sarò» (v. 8); il filo non si potrà più riannodare (vv. 9-11); per questo Giobbe non può tacere. Deve ricordare a Dio i propri doveri di Creatore!

Così in 7,12-21 il lamento di Giobbe si dirige improvvisamente contro Dio, chiamato in causa in seconda persona (“tu”). Il v. 12 prende spunto dalla mitologia tradizionale, che immaginava il mare come una sorta di feroce mostro primordiale al quale Dio «mette il bavaglio»; Dio, cioè, controlla e domina Giobbe come fosse un mostro pericoloso: «Sono forse io il mare, o un mostro marino, perché tu metta contro di me una guardia?».

Persino nel sonno (vv. 13-14) Dio non lascia in pace Giobbe; il sonno diviene una successione di incubi terribili; meglio dunque la morte (cf. v. 15: «La morte, piuttosto che questi miei dolori»)! Se la vita dell’uomo è così breve, perché – domanda Giobbe a Dio – non mi lasci stare? Il v. 16 è davvero una ben strana preghiera: «Lasciami, perché un soffio sono i miei giorni»; che il Signore mi lasci in pace, una buona volta! Ma allo stesso tempo questo grido, apparentemente senza speranza, racchiude un appello a Dio affinché in realtà non lo abbandoni.

Giobbe pone qui a Dio le domande di fondo dell’uomo, quelle che spesso noi non osiamo porre a Lui; quella di Giobbe è pertanto una preghiera davvero inusuale, fatta di domande più che di suppliche. Ma l’uomo nella sofferenza può appunto pregare così e, talvolta, riesce a pregare soltanto così: eppure anche questa può essere vera preghiera.

I vv. 17-19 sono ancora più sorprendenti: Giobbe ci offre una sorta di rilettura ironica del celebre Salmo 8. Nel Salmo 8, com’è noto, il salmista scopre, attraverso la considerazione della piccolezza dell’uomo, la grandezza di un Dio che proprio di quest’uomo si interessa e si preoccupa. Giobbe farebbe volentieri a meno di questa cura da parte di Dio: «Che cos’è l’uomo perché tu lo consideri grande?». Se Dio gli lasciasse almeno inghiottire la saliva (v. 19b), se lo lasciasse almeno vivere! Giobbe si chiede tra l’ironico e il disperato se tutta questa attenzione che Dio ha per gli esseri umani, almeno secondo i testi delle Scritture, sia realmente un segno di amore, e non piuttosto una condanna.

Nel v. 20 Dio è descritto da Giobbe come un guardiano di una prigione o come un cacciatore in cerca di preda; anche in questo caso Giobbe ha forse in mente un tema tipico dei Salmi, ovvero il Signore “custode” di Israele (cf. in particolare il Sal 121): «Se ho peccato, che cosa ho fatto a te, o custode dell’uomo?». Ma la custodia di Dio diviene in questo testo di Giobbe una opprimente presenza. E inoltre, se Dio è davvero Dio, in che modo potrà mai essere toccato dal peccato dell’uomo? Giobbe si sente preso a bersaglio da un Dio che sembra non sopportare più la sua stessa creatura.

Si arriva così alla domanda conclusiva che Giobbe pone a Dio nel v. 21:

[1] Testo orale della conferenza tenuta a Carpi il 24 gennaio 2010, rivisto dall’autore.

[2] Cf. L. Mazzinghi, «Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare anche il male? (Gb 2,10). La sofferenza di Giobbe», in: A. Bigarelli (a c. di), La sofferenza nella Sacra Scrittura,  Sussidi Biblici 80, Ed. San Lorenzo, Reggio Emilia, 2003, 21-41.

[3] Segnalo in particolare il bel testo – cui sono in gran parte debitore – di N. Calduch-Benages, J. Yeong-Sik Pahk, La preghiera dei saggi. La preghiera nel Pentateuco Sapienziale, ADP, Roma 2004, 59-87, con ulteriori indicazioni bibliografiche.

[4] Dovremmo aggiungere anche il testo di Gb 17,3-6, che presenta tuttavia molte difficoltà di interpretazione.

[5] Cf. L. Mazzinghi, «Ricordare e non dimenticare nel libro dei Salmi», PSV 56, 2007, 35-48.

[6] Il termine ebraico hebel, “soffio”, ricorre nel libro del Qohelet per ben 38 volte; la traduzione CEI lo rende – ma a torto – con “vanità”, come già la traduzione latina (vanitas vanitatum).

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Tiziano Lorenzin

2. Pregare imprecando I Salmi Imprecatori

Con ogni probabilità, nel I secolo a.C. i Salmi erano il libro di preghiera delle piccole comunità e della famiglia. In essi si trovano spesso le imprecazioni dei “poveri”, ovvero le persone che subiscono ingiustizie. Per capire i cosiddetti “Salmi imprecatori”, bisogna inserirli nel quadro della Pasqua, ossia della schiavitù patita per colpa del faraone ingiusto, ma anche della liberazione operata da Dio, l’unico salvatore e l’unico giusto. La presenza di Dio: è questa la risposta alle sofferenze e alle ingiustizie dell’orante, perché soltanto Egli è in grado di riportare la giustizia e l’ordine sovvertiti dai potenti della terra. Ecco allora che anche le espressioni forti e talora terribili che si leggono in questi salmi sono, in realtà, invocazioni di giustizia rivolte a Dio, affinché il suo regno si diffonda sulla terra minacciata dal caos e dalla violenza degli empi.

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PREGARE IMPRECANDO I Salmi imprecatori[1]

1.  INTRODUZIONE

Entriamo in punta di piedi in un tipo di preghiera salmica che a volte ci lascia perplessi: i cosiddetti «salmi imprecatori»[2]. Propongo di incominciare leggendo il Sal 131, un salmo di una donna che ha appena trascorso una crisi seria e ora si è incontrata con il Signore ritrovando finalmente la pace nel suo profondo. Questa, infatti, è la forza trasformante della preghiera dei salmi: essa «dona la pace nel cuore, anche se non lascia in pace», come suggeriva don Primo Mazzolari (1890-1959).

Leggiamo il salmo:

«Signore, il mio cuore non ha pretese

non mirano in alto i miei occhi;

non vado in cerca di cose grandi

e troppo meravigliose per me.

Anzi, ho placato e acquietato la mia anima:

come un bimbo sulla madre,

come il bimbo su di me è l’anima mia.

Spera, Israele, nel Signore

da ora e per sempre» (Sal 131,1-3).

L’orante è una donna che porta sulle spalle il suo bimbo appena svezzato: «Come questo bambino su di me» (cf. v. 2). A quel tempo i bambini si svezzavano a tre anni e sapevano già quindi riconoscere la loro madre. Lei è una donna che non si accontenta delle mezze misure. Finora ha lottato lontana dal Signore, ma adesso finalmente può dire: «Signore, il mio cuore non ha più pretese» (cf. v. 1a). La mia anima è come il mio bimbo ormai svezzato, che sto portando sulle mie spalle: non pretende più il latte da me. E anch’io non esigo più che Tu realizzi i miei progetti, come i nostri padri, che pretendevano il pane ogni giorno.

«Non mirano in alto i miei occhi» (v. 1b): dalla spianata del tempio, guardando in alto, la donna pellegrina vedeva i tempietti di idoli costruiti sopra le colline che attorniano Gerusalemme. Non vuole più cercare la vita dagli idoli, che l’hanno finora tenuta schiava.

«Non vado in cerca di cose grandi e troppo meravigliose per me» (v. 1c): non sono venuta in pellegrinaggio al tempio – essa dice – per chiedere miracoli come li chiedeva il popolo di Israele antico, che non voleva più camminare per le vie indicate da Dio.

«Anzi, ho placato e acquietato la mia anima» (v. 2): a me basta sapere che sono davanti a Te, Signore, e che Tu mi stai guardando. Questo è il segreto della quiete scoperta da questa donna. È un segreto stupendo, che ella vuole insegnare a tutto Israele: una vita coram Deo. Infatti essa termina così la sua preghiera: «Spera, Israele, nel Signore da ora e per sempre» (v. 3). La pace che lei ha sperimentata può riceverla anche il popolo di Israele, che è andato in esilio per non avere accettato la propria storia, pretendendo miracoli dal Signore e affidandosi agli idoli.

Come Giacobbe nella notte della sua lotta con l’angelo ha ricevuto il nome nuovo di «Israele», perché nella preghiera aveva imparato ad appoggiarsi nel Dio forte (Gn 32,23-33), anche la comunità della pellegrina orante riconosca la propria debolezza e si appoggi al Signore e troverà la pace. Questo è il miracolo della preghiera dei Salmi.

2.  IL CONTESTO DELLA PREGHIERA DEI SALMI

Per comprendere veramente il tipo di preghiera espresso nei cosiddetti «salmi imprecatori», è importante dire qualche parola sull’intero salterio: com’era interpretato? Com’era vissuto? Quale forza aveva nel periodo che va dal 100 a.C. fino al tempo di Gesù?

2.1.  I Salmi, preghiera della famiglia

Bisogna tenere presente che, con ogni probabilità, nel I secolo a.C. il salterio non era il «libro dei canti» del tempio di Gerusalemme. Sicuramente vi si pregava anche qualche salmo; però erano altre le preghiere principali usate nella liturgia. Secondo studi recenti nemmeno nella sinagoga il salterio era molto usato al tempo di Gesù. Eppure i salmi sono tra i testi più citati nel Nuovo Testamento. Non solo! A Qumran i reperti testimoniano tantissimi manoscritti dei salmi; ed anche nella letteratura greco-ebraica si vede che il salterio era un libro citato spesso. Perché? Se il salterio non era la preghiera del tempio, né era la preghiera della sinagoga, perché si rivela così importante?

Perché il salterio era la preghiera delle piccole comunità che si radunavano al di fuori del tempio; ma soprattutto perché era la preghiera della famiglia. Si potrebbe affermare che il salterio era la «piccola Torah dei poveri». Un rotolo della Torah (Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio) era costosissimo: l’equivalente di circa 30.000 Euro attuali. Era disponibile solo nelle città e nei grossi centri. Allora come è possibile che l’antica tradizione mosaica fosse così ben conosciuta? Proprio perché gli Israeliti erano in possesso della “piccola Torah dei poveri”, ovvero del salterio, che si poteva anche imparare a memoria. In questo libro i pii ebrei trovavano un thesaurus di tutte le esperienze spirituali più profonde vissute dal popolo ebraico nella sua storia. Per questo il salterio era diventato la piccola Torah della famiglia, che lo usava per passare la fede ai figli.

Un tesoro particolare – per molti spesso ancora nascosto – contenuto in questo piccolo libro è costituito dal gruppo dei i cosiddetti «salmi imprecatori».

2.2.  I poveri nella Bibbia

Le grida e le «imprecazioni» nel salterio sono spesso in bocca ai «poveri». Chi sono? Talora possono essere i poveri in senso spirituale; però tante volte, in realtà, si tratta di poveri reali.

Sappiamo che, dopo il ritorno dall’esilio di Babilonia (dunque dopo il 539 a.C.), il popolo ebraico ebbe un problema molto serio con il nuovo sistema di tasse imposto dai persiani, le quali dovevano essere pagate in contanti e non più «in natura» (una certa quantità di frumento, una certa quantità di latte, ecc). Spesso accadeva che alcune famiglie non riuscissero più a pagare le tasse, si indebitassero e alla fine vendessero i loro campi ai padroni e poi, per vivere, si consegnassero a loro come schiavi. Si sa dal libro di Neemia (cf. Ne 5) che dei padroni ebrei, obbligati dalla Torah a rilasciare, dopo sette anni, i propri fratelli ebrei ridotti in schiavitù, li rivendevano all’estero ai pagani prima della scadenza del settimo anno. Si capisce, quindi, che certe grida degli oranti nel salterio sono grida di persone concrete, che stanno soffrendo per l’ingiustizia. E talvolta gli ingiusti aggressori non sono i popoli pagani, bensì gli Ebrei stessi!

Tenendo presente tale contesto, adesso entriamo in questa preghiera dei «salmi imprecatori», che è – lo ripetiamo – un tesoro nascosto.

[1] Trascrizione della conferenza tenuta a Carpi il 31-01-2010, rivista e ampliata dall’autore.

[2] Si ritengono tali quei salmi o parte di salmi il cui contenuto è dato da invettive, proteste e suppliche che possono sconcertare chi non è preparato: Sal 5,11, 10,15; 18,38-43;31,18-19; 35,1-10.22-26; 52; 54,7; 58,7-12; 59,12-14; 69,23-29; 79,12; 83,10-19;  104,35; 109,6-20; 125,5; 137,7-9; 139,19-22; 140,10-12.

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Bruno Maggioni

3. La preghiera inascoltata di Gesù

La preghiera di Gesù è una preghiera molto umana. E il fatto che Gesù preghi è il segno della sua piena umanità. Nella sua pur piena giornata Gesù trova sempre il tempo di pregare; inoltre insegna a pregare. Tuttavia i vangeli mostrano un Gesù che prega sempre da solo, mai coi discepoli. Ciò perché il rapporto con Dio è personale e perché la solitudine dell’uomo può essere davvero riempita unicamente da Dio. Nella preghiera Gesù trova la forza e la chiarezza della propria vita. In essa trova la nitidezza della sua scelta, tanto che nel Getsèmani porrà una domanda che non lo allontanerà dalla croce, ma gliela farà vivere. Infatti è nella preghiera che Gesù trova la forza e il coraggio di affrontare la croce. È questo il miracolo della preghiera di Gesù come della preghiera dell’uomo. E se nel Getsèmani il Padre pare stare in silenzio, invece Egli parla in un modo diverso: non liberando Gesù dalla morte, bensì facendogli attraversare con più speranza il momento difficile.

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LA SUPPLICA INASCOLTATA DI GESÙ[1]

1.  Introduzione

Il tema che affronteremo è: “La preghiera umana di Gesù”, perché la preghiera è umana. Il fatto che Gesù pregasse è la dimostrazione più bella e più forte per sostenere che Gesù è stato un vero uomo, con tutte le qualità dell’uomo. E tra le qualità dell’uomo c’è anche la preghiera di domanda e c’è la domanda, poiché non si può vivere senza porsi certe domande: cos’è l’uomo? Perché Dio lo ha creato? ecc.

La Bibbia stessa è piena di domande. Alla Bibbia noi chiediamo solitamente risposte; invece le domande sono più importanti delle risposte. Questo è bello, perché: un uomo senza domande che uomo è? E un credente che non si pone domande, che credente è?

Dunque la Bibbia è piena di domande. Ad esempio: che Dio è? Perché ha creato gli uomini? Se Dio è Dio, perché accadono certe situazioni? I Salmi sono pieni di domande, così come i libri di Giobbe e di Qohelet.

La preghiera di Gesù è una preghiera molto umana; e le preghiere più belle sono quelle umane.

Il fatto che Gesù preghi è il segno della sua piena umanità. Se fosse solamente Figlio di Dio, perché pregherebbe? Invece Gesù è anche uomo, è anche vero uomo. E questo non deve essere mai dimenticato. Ovviamente nella preghiera di Gesù si vede il massimo di come un uomo possa pregare. E non è solamente la bellezza della preghiera di un Figlio di Dio che si rivolge al Padre – lui che è Figlio vero – bensì è la bellezza di un uomo come gli altri (anzi, anche più uomo degli altri!) che si rivolge a Dio.

Quali domande fa Gesù? Cosa chiede? Quali risposte riceve?

2.  La preghiera di Gesù

La prima osservazione è che, nel ritmo incalzante della sua giornata, Gesù trova il tempo per pregare. I vangeli non riportano precisamente quante volte Gesù pregasse; però mostrano Gesù che prega. Infatti, come annota Marco (1,35; 6,46), Gesù prega al mattino presto e alla sera tardi, dopo aver congedato la folla. Le testimonianze sono pure concordi nel riferire che Gesù prega in tutti i momenti più importanti e decisivi della sua missione: al battesimo (Lc 3,21) e alla trasfigurazione (Lc 9,28), prima di eleggere i Dodici (Lc 6,12), prima della confessione di Pietro a Cesarea di Filippo (Lc 9,18), prima di compiere i miracoli (Mc 6,41; 7,34; 8,6-7; Gv 11,41-42), nella cena prima della passione (Gv 17), nel Getsèmani e sulla Croce.

Inoltre Gesù prega nella solitudine. Ci si può chiedere: avendo il gruppo dei Dodici, perché Gesù non prega insieme a loro? I vangeli non mostrano nemmeno una volta Gesù pregare insieme ai Dodici. Con ogni probabilità lo avrà fatto; ad esempio: andavano in giro insieme, probabilmente avranno pregato lungo la strada, ecc. Però i vangeli non accennano mai a ciò; invece narrano che Gesù prega da solo: Gesù si separa dai discepoli per pregare in solitudine.

Perché Gesù prega da solo?

Innanzi tutto il suo rapporto con Dio è personale, è unico. Sebbene passi attraverso la Chiesa, il proprio rapporto con Dio è personale. Bisogna manifestare il proprio rapporto personale con Dio, anche perché ci sono cose che si confessano solamente a Dio e non agli altri.

Inoltre Gesù si ritira poiché il mondo non gli basta. Anche le cose belle che ha – quali l’amicizia coi discepoli – non sono sufficienti: c’è dentro una solitudine forte nell’uomo che pensa e che è uomo. E tale solitudine può essere riempita solamente con Dio. Gesù prega, perché l’uomo ha bisogno di Dio: le altre cose non sono sufficienti. A Gesù non basta parlare con le folle oppure con i discepoli, né gli basta servire i fratelli. Avverte una solitudine che unicamente il Padre può colmare, una ricchezza che solamente il Padre può capire e condividere. La preghiera di Gesù esprime la nostalgia del Padre. Bisogna parlare con Dio; ed eventualmente anche lamentarsi con Lui quando c’è una situazione troppo faticosa e dolorosa: questa è la preghiera giusta, questa è la preghiera di chi è figlio.

Dunque una preghiera filiale: è questa la preghiera di Gesù. Egli ha la coscienza di essere il Figlio che può rivolgersi a Dio con una semplicità ed una immediatezza del tutto particolari. La preghiera di Gesù scaturisce dalla sua consapevolezza di essere Figlio, consapevolezza che si traduce in colloquio e in nostalgia del Padre. Bisogna ricordare le parole di Paolo, quando scrive che Gesù ci ha dato la gioia di essere «figli e non schiavi» di Dio (cf. Gal 4,7). Quindi non c’è nessuna paura a fare a Dio anche una domanda che non si farebbe a nessun altro. È bellissima una tale confidenza davanti a Dio. Tanto che Gesù stesso nel Getsèmani chiede: «Allontana da me questo calice».

Ma, proprio perché filiale, la preghiera di Gesù è anche obbediente. È insieme la preghiera del Figlio e del servo del Signore. Già nel termine “Padre” sono racchiuse entrambe le dimensioni: la familiarità e la sottomissione. Nella preghiera del Getsèmani, dove più chiaramente che altrove Gesù esprime la sua confidenza di Figlio (rivolgendosi a Dio chiamandolo: «Abbà»), egli esprime con altrettanta forza la sua obbedienza: «Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu» (Mc 14,36). Coscienza della propria filiazione e totale dipendenza sono i due poli della preghiera di Gesù e sono, ancor prima, le strutture essenziali della sua persona. La preghiera di Gesù scaturisce, e non poteva essere diversamente, dalla profondità del suo essere. Nella preghiera – come sempre avviene nella preghiera – Gesù svela la sua identità.

Un altro elemento che riguarda la preghiera di Gesù è che, nella preghiera, egli ritrova il coraggio, la forza ed anche la chiarezza della propria vita, delle proprie idee. Dunque il fatto che ha pregato nei momenti cruciali della sua missione rivela un’altra dimensione: nella preghiera Gesù riscopre la propria missione e ritrova la nitidezza delle proprie scelte. Ad esempio, in Mc 1 si legge che Gesù si ritira a pregare al mattino presto: è già arrivata la gente e Gesù invita i discepoli ad andare da un’altra parte, ossia non si lascia catturare neanche dalla folla, poiché è venuto sì per quella folla, ma anche per tutte le folle. Gesù ordina: «Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche la; per questo infatti sono venuto!» (1,38). Gesù è un uomo davvero universale: è preoccupato di tutti, non si chiude nel suo piccolo gregge.

[1] Trascrizione della conferenza tenuta a Carpi il 14-02-2010, non rivista dall’autore.

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Rinaldo Fabris

4. La spina nella carne – La richiesta di Paolo in 2 Cor 12,7-10

Alcune preghiere di richiesta di Paolo sono state esaudite, mentre altre no. In realtà, la preghiera viene sempre e comunque esaudita da Dio, anche quando non sembra. Infatti, quando si sta davanti a Dio e ci si lascia trasformare dalla relazione profonda e vitale con Dio, la preghiera è esaudita, poiché lo scopo della preghiera è conoscere ed accogliere la volontà di Dio nella nostra vita. La preghiera ottiene di “sintonizzarsi” con la volontà di Dio ed essere trasformati in essa. Per Paolo tale volontà di Dio è la conformità a Gesù Cristo crocifisso. Egli vive l’esperienza della malattia e della debolezza psicofisica (fisica, morale, sociale: la «spina nella carne» è il simbolo di tutte le fragilità umane) nella prospettiva della fede cristiana, che riconosce e accoglie il volto di Dio in Gesù Cristo crocifisso.

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LA SPINA NELLA CARNE La richiesta di Paolo in 2 Cor 12,7-10[1]

1.  INTRODUZIONE

“La preghiera difficile” è un tema affascinante: la preghiera è “difficile” come è difficile la vita. Non è che la preghiera presenti particolari difficoltà: è la vita stessa che pone problemi. Pertanto, se la preghiera non è soltanto un dire formule o un recitare testi, diventa difficile. E per alcuni la vita è difficile, addirittura drammatica, poiché deve scontrarsi col limite e con la fragilità estremi.

Per dire “debolezza”, “fragilità”, “limite” Paolo adopera un’immagine, un linguaggio simbolico ripreso dalla tradizione biblica, ossia la parola: “carne”. Purtroppo, quando sentiamo i termini “carne” o – peggio ancora – “carnale”, noi pensiamo a tutto un altro mondo, che è collegato con le passioni, la sessualità, il disordine, il degrado. Ciò non aiuta a cogliere il linguaggio di Paolo, che è quello dei Salmi, dei sapienti: l’essere umano è carne, è come «l’erba del campo, che dura una giornata» (cf. Sal 90,6). Dunque l’immagine della “carne” indica la fragilità radicale della creatura.

L’espressione «spina nella carne», che si trova in 2 Corinzi 12,7-10, pone la questione della preghiera non esaudita secondo la richiesta. Infatti Paolo scrive di aver domandato di essere liberato «per tre volte», secondo il linguaggio caratteristico della preghiera ripetuta con insistenza. Ad esempio, in Matteo si legge che Gesù, nel giardino del Getsèmani, nella notte del suo arresto: «Per tre volte ripeteva sempre la stessa preghiera» (cf. Mt 26,44). La terna è un tipico modo biblico per dire “preghiera perseverante”. Tuttavia, nonostante tale preghiera prolungata ed insistente, Paolo non è stato liberato dalla sua «spina nella carne». Allora bisogna cercare di capire cos’è la «spina nella carne» e il senso della preghiera di Paolo.

Innanzi tutto ci introdurremo con due preghiere esaudite riguardanti la guarigione.

Il problema della preghiera per la guarigione è presente nella tradizione cristiana (cattolica e non), ma anche in tutte le culture. Ad esempio, nell’antichità i santuari di Kos (isola greca con un santuario-ospedale dedicato ad Asclepio, dio della medicina, nel III sec. a.C.), di Epidauro (città greca con un santuario dedicato ad Asclepio nel IV sec. a.C.), di Pergamo (in Asia minore, con l’“Asclepeion”) sono luoghi nei quali si va a cercare la guarigione, con tecniche terapeutiche, con un po’ di psico-suggestione, di musica e di letture. A Pergamo c’è un odeo, piccolo teatro, e la biblioteca per i malati. Il bisogno di essere guariti prevale su tutti gli altri interessi. Nella vita ci sono tante cose importanti: realizzazioni spirituali, artistiche, prestazioni sportive. Ma innanzi tutto bisogna vivere! Pertanto, quando manca la salute, la persona ricorre a tutti i mezzi possibili. E quando sono esaurite le cure attraverso le medicine, la chirurgia o le altre tecniche, si ricorre alla preghiera per la avere la guarigione.

Nella raccolta dei Salmi ci sono 37 invocazioni/suppliche, che spesso sono suppliche di una persona malata accanto ad altre categorie che vanno dal perseguitato, a colui che è offeso dai vicini oppure coinvolto in un processo. Spesso è il malato vero e proprio: «Signore, le mie ossa sono distrutte, non c’è in me nulla di sano». Anche la lamentazione-supplica di Giobbe è la preghiera di un malato, con la condizione particolare di essere colpito da Dio senza capirne il motivo.

Il re Ezechia riceve la sentenza da parte del profeta Isaia: «Prepara le tue cose, perché devi morire». Allora Ezechia chiede un supplemento di vita con una preghiera: «Signore, hai accorciato la mia vita, ormai la mia trama viene tagliata. Ho invocato il Signore giorno e notte, e mi ha liberato». Alla fine il Signore esaudisce la sua preghiera  (Is 38).

Bisogna sottolineare – sarà questo il nostro tema – che anche le guarigioni miracolose, nelle quali appare evidente che non ci sono spiegazioni umane, non risolvono il problema di fondo della nostra condizione mortale, “carne”. Alla fine tutti, anche i guariti e i miracolati, persino i risuscitati, muoiono. Da un lato, a noi basterebbe un supplemento di 15-20 anni; dall’altro, comunque inesorabilmente la scadenza arriva!

Inoltre non è soltanto il problema di prolungare la vita, ma anche del “come”: come una persona vive? In quali condizioni umane? Infatti non basta il semplice “vivere”. La Bibbia ripete sempre: «Se osserverai questi comandamenti, avrai una vita felice e lunga». Ad una “vita felice” si aggiunge la promessa “vita lunga”; ma se la vita non è “felice”, ha ragione il Siracide, quando esclama: «Benvenuta la morte per chi dice: ‘Non provo nessun gusto’. Maledetta la morte invece per chi sta bene» (cf. Sir 41,2-3). Per Gesù Ben Sira, sapiente e maestro dei giovani di Gerusalemme, si pone il problema di una vita felice o infelice di fronte alla morte.

2.  DUE PREGHIERE ESAUDITE

2.1.  La guarigione di Epafrodito (Fil 2,25-30)

Iniziamo con una preghiera esaudita di Paolo. Come fa in quasi tutte le sue Lettere, anche nella Lettera ai Filippesi l’Apostolo ringrazia Dio per la fede dei cristiani di Filippi, per il loro impegno, per la loro cooperazione. Infatti essi hanno collaborato con lui fin dall’inizio, aiutandolo anche materialmente. Quella di Filippi è la prima chiesa su suolo europeo, fondata da Paolo verso il 49/50 d.C.

[1] Trascrizione della conferenza tenuta a Carpi il 21-02-2010, rivista dall’autore.

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