Terremoto, fine del mondo?

Germogli

germogli” è una collanina, nata quasi per caso, dopo una riunione nella quale mi era stato chiesto di proporre una breve meditazione;

germogli” è una cosa piccolissima, debole, un timido inizio, niente di ambizioso;

germogli” ha la pretesa di mettere in comune qualche passo nel cammino di fede guardando alla Scrittura e sapendo che «né chi pianta è qualcosa, né lo è chi irriga, ma è Dio che fa crescere» (1Cor 3,7).

Alberto Bigarelli

di Alberto bigarelli

Questo numero di Germogli è nato dalla riiscrizione dell’incontro tenuto a Fossa di Concordia il 29 agosto 2012. Non è un trattato sulle realtà ultime, ma una riflessione senza pretese di completezza.

 

  1. Il titolo scelto per questa riflessione “Terremoto: fine del mondo?” é, se vogliamo, provocatorio, escogitato per attirare l’attenzione. Il terremoto c’è stato, ma il mondo gira ancora e noi siamo qui. Anch’io, come tutti voi, sono stato svegliato dalla scossa delle 4.00 del 20 maggio ed ero presente a quelle delle 9.00 e delle 13.00 del 29 maggio. Il sisma ha prodotto danni estesi e molto pesanti a capannoni, case, chiese, edifici pubblici, scuole, ospedali… C’è chi ha perso la casa e con la casa ha perso tutto e vive ancora nelle tende; c’è chi ha avuto danni e ha vissuto per prudenza nelle tende poi, appena possibile, si è dato da fare per sistemare le case e renderle agibili; c’è chi si è messo al sicuro presso parenti o amici, o raggiungendo località costiere o montane, comunque sempre nel disagio. Io ho trascorso i primi giorni dopo il terremoto fuori della canonica, sotto un albero, con cordless e I-phone in mano; di notte a casa di mia madre.
  1. Il sisma, per la sua intensità e la sua estensione, ha scosso anche le nostre persone, il nostro spirito: spavento, shock, disorientamento. Il senso fortissimo di impotenza davanti allo sprigionarsi di energie così smisurate ci ha sconcertato, paralizzato, ci ha riempito di angoscia; le nostre risorse umane ci sono apparse inconsistenti. Solo sconcerto, disperazione, pianto. Anche la nostra fede è ammutolita, ci è sembrata aver perso ogni capacità di sostenerci, di consolarci, di darci speranza. Tutto il nostro mondo si è mostrato improvvisamente fragile, precario, provvisorio.
  1. Anch’io, pur non così colpito, ho dovuto riconoscere, quanto fossi attaccato alle mie cose, alle mie abitudini e quanto la mia fede mi sia sembrata debole, poco adulta a confronto con alcuni passi del Nuovo Testamento che mi sono balenati lì per lì.

Il primo è stato «La nostra cittadinanza infatti è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso, in virtù del potere che egli ha di sottomettere sé tutte le cose» (Fil 3, 20-21; cf. Eb 13,14). Due osservazioni: a. la cittadinanza del cristiano sono i cieli, quella è la patria che ci attende, la “nuova terra”; il termine «cittadinanza» richiama anche l’ordinamento che regola la vita comunitaria; b. «il quale trasfigurerà», cioè il Cristo alla sua seconda venuta rinnoverà il nostro corpo, la nostra persona a immagine del suo corpo di risorto. Riceveremo cioè un corpo eterno.

Il secondo: «Se dunque siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio; rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra. Voi infatti siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio! Quando Cristo, vostra vita, sarà manifestato, allora anche voi apparirete con lui nella gloria» (Col 3,1-3). Ancora due sottolineature: a. «cercate le cose di lassù», se fossimo più consapevoli della nostra dignità battesimale dovremmo custodirla senza stancarci di guardare all’insegnamento del vangelo; b. siamo morti al mondo, alla sua arroganza, alle sue mode, al peccato che lo domina e la nostra vita di figli di Dio, oggi, non è ancora manifesta con la gloria che le è propria.

Un terzo brano: «Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è. Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso, come egli è puro» (1Gv3,2s,). Sempre due richiami: a. «noi fin d’ora siamo figli di Dio», essere figli è un fatto e un mistero, ne attendiamo una piena visibilità; b. chi «ha questa speranza», si orienta verso di essa e «purifica se stesso» dalle influenze e dalle pesantezze del mondo.

Si può citare anche: «Perciò, cingendo i fianchi della vostra mente e restando sobri, ponete tutta la vostra speranza in quella grazia che vi sarà data quando Gesù Cristo si manifesterà» (1Pt 1,13). Sottolineo qui l’espressione: “ponete tutta la vostra speranza”, una speranza da volgere interamente (tutta) al dono definitivo dell’incontro con Gesù glorioso.

  1. La speranza cristiana è riposta in Gesù, legata a lui. Mi sono detto: “Non do a questa speranza un grande valore”. Se il terremoto fosse stato la fine ci sarebbe stato, allo stesso tempo, l’incontro col Signore. L’associazione terremoto-fine del mondo ha evidenziato purtroppo un’altra convinzione che ci portiamo dentro in modo più o meno marcato: la fine sarà un’apocalisse cosmica, una distruzione irreversibile, un ritorno al nulla. Ma questa non è la visione cristiana. Lo dice il Nuovo Testamento e richiamo solo un paio di versetti tratti dalla 1Corinti: «Se noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto per questa vita, siamo da commiserare più di tutti gli uomini» (15,19); aver «speranza soltanto per questa vita» significa aver azzerato ogni prospettiva ultraterrena e aver legato il termine “speranza” a un futuro orizzontale fatto di prosperità, benessere, salute, successo, guadagni, avventure, ecc. Se è così «siamo da commiserare»; commiserare vuol dire considerare con pietà e compassione qualcuno per una disgrazia che l’ha colpito. Sperare solo per questa vita è l’annullamento della speranza cristiana; lo mostra anche il proverbio arcinoto «finché c’è vita c’è speranza». S.Paolo scrive: «Se i morti non risorgono, mangiamo e beviamo, perché domani moriremo» (15,32), e sta citando Is 22,13 non alludendo al famoso carpe diem di Orazio.
  1. Ci sono varie convinzioni da aggiustare, da raddrizzare. Partiamo dalla parola “mondo”. Mondo è tutto ciò che non è Dio, il mondo è il cielo e la terra, la storia, la natura, il passato, il presente, il futuro e questo nella sua totalità e unità (cf. Rm 11,36; Fil 3,21; Ef 3,9; 4,10; 1Tim 6,13). Di questo universo fanno parte anche gli uomini; quell’uomo che l’Apostolo chiama di frequente “carne e sangue” per indicarne la fragilità, la limitatezza, la creaturalità. Del mondo fanno parte anche le realtà invisibili: tutto ciò che ha potenza e potere, ciò che è al di sopra degli uomini, si tratti di demoni o di potenti correnti ideologiche (cf. Ef 2,1ss.), o di altezze e profondità (cf. Rm 8,38s.). Il mondo è il luogo e lo spazio che tutto abbraccia, che si apre, si dispone, che tutto contiene; è spazio e tempo. Il mondo è l’insieme dell’esistenza e degli esseri esistenti il cui rapporto con Dio si trova seriamente compromesso. Secondo S. Paolo, questo mondo non è più armonico; è per lui un edificio enigmatico a più strati, conseguenza dell’intrecciarsi di fenomeni irrompenti di potere e allo stesso tempo una terra che afferma la sua autonomia da Dio e che da sé stabilisce le regole e lo stile della vita morale: un’etica della perversione come la descrive magistralmente in Rm 1,21-31(cf. Sap 2,1-22; Ef 4,17-19; ecc.).

Nonostante l’universo, il mondo, gli uomini siano da Dio, esistano grazie a lui e siano orientati verso di lui, la creazione si trova «sottoposta alla caducità – non per sua volontà, ma per volontà di colui che l’ha sottoposta» (Rm 8,20), cioè dell’uomo con la sua disobbedienza e così «noi sappiamo che siamo da Dio, mentre tutto il mondo sta in potere del Maligno» (1Gv 5,19; cf. Mt 4,8s.; e paralleli). L’uomo, creatura di Dio, dovrebbe sentirsi debitore ed essere riconoscente nella lode e nel ringraziamento. Questo non c’è stato: l’uomo non ha accettato la sua dimensione di creatura (cf. Rm 5,15) e la sua condotta è stata il passo falso (cf. Gn 3) che ha stabilito il dominio della morte (cf. Rm 5,17) e ha sottomesso ogni cosa alla vanità, all’inconsistenza, alla caducità (cf. Sap 1,13s.; 2,23s.).

  1. Facendo una piccola digressione, credo che a questo punto, sia opportuno sfatare una convinzione piuttosto diffusa secondo la quale il terremoto sarebbe una punizione di Dio, un castigo dell’Onnipotente. Lo smentisce una pagina di Luca su cui val la pena riflettere: «In quello stesso tempo si presentarono alcuni a riferirgli il fatto di quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici. Prendendo la parola, Gesù disse loro: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subìto tale sorte? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. O quelle diciotto persone, sulle quali crollò la torre di Sìloe e le uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo» (13,1-5).

L’evangelista riferisce due episodi di cronaca gerosolimitana. Il primo è un intervento di Pilato per porre fine a un assembramento che avrebbe potuto sfociare in una rivolta. Pilato aveva spinto la sua truppa fin dentro il santuario per stanarvi i facinorosi, nonostante stessero offrendo in sacrificio i loro agnelli o i loro capri. La loro opposizione ha provocato una strage che però non ha nulla a che vedere coi loro peccati: tutti gli altri abitanti di Gerusalemme, peccatori come i primi, non hanno subito alcuna punizione! Il secondo narra del crollo di una torre che seppellì ben diciotto persone. Queste morti non hanno nulla a che vedere con i peccati di quegli uomini: tutti gli altri abitanti di Gerusalemme, peccatori come loro, non hanno subito alcun castigo! Il nostro non è tempo di giudizio, ma di misericordia nel quale vivere imitando il Padre celeste che: «fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» (Mt 5,45), cioè benefica tutti.

Questi due episodi non sono una punizione di Dio, ma fatti legati all’ordinarietà dell’attività umana: un fatto di sangue, un crollo. Come il terremoto, sono circostanze dalle quali ricavare un forte invito alla conversione, a uscire da una vita di peccato e di lontananza da Dio per esser trovati – capitasse qualcosa – in quella fede e in quella speranza che sono la via maestra per non perire «allo stesso modo», cioè senza quasi accorgersene e trovarsi nell’inferno.

  1. Una fine o un fine? Si parla oggi di crisi energetica, di inquinamento, di deforestazione, si parla di riscaldamento globale del pianeta, di armamenti sempre più potenti e micidiali, di lotte per il potere, ecc. Sono pericoli reali? Sì, lo sono, ma non a causa loro verrà la fine. Il Nuovo Testamento non parla della fine né legandola a lotte sanguinarie, né a una catastrofe esterna al pianeta. È un evento che Dio ha riservato a un suo intervento insindacabile come leggiamo nel Vangelo: «Quanto a quel giorno e a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli del cielo né il Figlio, ma solo il Padre» (Mt 24,36) e «non spetta a voi – risponde Gesù ai discepoli – conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere» (At 1,6). La fine del mondo presente è nelle mani di Dio e non conoscendo né il giorno, né l’ora, il Nuovo Testamento esorta tutti ad essere pronti (cf. Mt 24,42-44; Mc 13,22-37; Lc 12,35.46) e a vegliare pregando (cf. Lc 21,34-36) col cuore aperto a un incontro.
  1. La fine è un fine. Mi sembra che si possano raccogliere le caratteristiche della fine in cinque punti e in essi riconoscere la lontananza dal nostro evento sismico: imprevedibilità, rapidità, universalità, ritorno del Signore nella gloria e mutazione del mondo. Scelgo alcuni brani fra i tanti.

Imprevedibilità – Leggiamo Lc 17,26-35: «Come avvenne nei giorni di Noè, così sarà nei giorni del Figlio dell’uomo: mangiavano, bevevano, prendevano moglie, prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca e venne il diluvio e li fece morire tutti. Come avvenne anche nei giorni di Lot: mangiavano, bevevano, compravano, vendevano, piantavano, costruivano; ma, nel giorno in cui Lot uscì da Sòdoma, piovve fuoco e zolfo dal cielo e li fece morire tutti. Così accadrà nel giorno in cui il Figlio dell’uomo si manifesterà. In quel giorno, chi si troverà sulla terrazza e avrà lasciato le sue cose in casa, non scenda a prenderle; così, chi si troverà nel campo, non torni indietro. Ricordatevi della moglie di Lot. Chi cercherà di salvare la propria vita, la perderà; ma chi la perderà, la manterrà viva. Io vi dico: in quella notte, due si troveranno nello stesso letto: l’uno verrà portato via e l’altro lasciato; due donne staranno a macinare nello stesso luogo: l’una verrà portata via e l’altra lasciata».

Mi limito ad alcune sottolineature. I “giorni di Noè” sono descritti in Genesi 6, ma nonostante si dica che «la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che ogni intimo intento del loro cuore non era altro che male, sempre» (v. 5), questo aspetto, così grave, non viene richiamato da Gesù. Lo stesso nel caso di Lot, Gesù non richiama il fatto che: «il grido di Sòdoma e Gomorra è troppo grande e il loro peccato è molto grave» (Gen 18,20). Il peccato rimane sullo sfondo e non sembra interessare. Al Signore sta più a cuore fare il quadro della modalità dell’intervento di Dio; avviene dentro la vita quotidiana con il suo tran-tran, le ripetitività nella vita degli uomini: mangiavano, bevevano, compravano, vendevano, piantavano, costruivano. Non sono peccati da punire, ma è il fare e disfare logorante che tutti conosciamo. La stessa cosa accadrà alla venuta del Signore: nella massima imprevedibilità (cf. Mc 13,35; Mt 24,37-44), nella più banale ferialità. Ogni decisione presa in quel momento per sfuggire a ciò che accade, sia di chi si trovi in campagna (l’uomo), sia di chi si trovi in casa (la donna), sarà del tutto inutile. Sarà un giorno di separazione/giudizio fra chi attende vegliando e chi no; c’è chi è preso, innalzato e chi è lasciato abbandonato dov’è «pianto e stridore di denti» (cf. Mt 8,12; 13,42.50; 22,13; 24,51; ecc.).

Un altra importante pericope è Mc 13,5-10: «Gesù si mise a dire loro: “Badate che nessuno v’inganni! Molti verranno nel mio nome, dicendo: “Sono io”, e trarranno molti in inganno. E quando sentirete di guerre e di rumori di guerre, non allarmatevi; deve avvenire, ma non è ancora la fine. Si solleverà infatti nazione contro nazione e regno contro regno; vi saranno terremoti in diversi luoghi e vi saranno carestie: questo è l’inizio dei dolori. Ma voi badate a voi stessi! Vi consegneranno ai sinedri, sarete percossi nelle sinagoghe e comparirete davanti a governatori e re per causa mia, per dare testimonianza a loro. Ma prima è necessario che il Vangelo sia proclamato a tutte le nazioni».

   Alcune sottolineature. Quella ferialità di cui si parlava è fatta anche di avvenimenti dolorosi e tragici dovuti all’attività umana o alla fragilità della natura. Gesù mette in guardia: «Badate che nessuno v’inganni!», dunque le possibilità di trovarsi fuori strada sono numerose, le occasioni di essere sviati e di dare giudizi e fare scelte sbagliate sono molte. Falsi messia che dicono “Sono io”,   – dall’ebreo Bar Kokva (II sec.), all’indiano Sai Baba o al coreano Sun Myung Moon (sec. XXI) -, guerre, terremoti, carestie… e l’elenco avrebbe potuto continuare. Sono occasioni di inganno. Questi accadimenti avverranno un po’ qua e un po’ là (kata topous: 13,8), come la persecuzione contro la Chiesa avverrà in tutti i tempi un po’ qua e un po’ là. Ma «non allarmatevi», sarà un’occasione preziosa non per mettere in atto la propria autodifesa, ma per testimoniare la propria fede con la forza dello Spirito.

“Persecuzioni alla Chiesa a parte, tutto il resto c’è sempre stato da quando mondo è mondo!”, direte voi. Sì, c’è sempre stato, ma non c’è stata sempre la sua interpretazione: «ora noi abbiamo il pensiero di Cristo» (1Cor 2,16).

Rapidità – Per descriverla, ho trovato nel Nuovo Testamento tre immagini: il padrone che torna all’improvviso, la folgore, il batter d’occhi.

«Vegliate dunque: voi non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino; fate in modo che, giungendo all’improvviso, non vi trovi addormentati. Quello che dico a voi, lo dico a tutti: vegliate!”» (Mc 13,35-37). L’avvertimento è dato: l’arrivo sarà all’improvviso e il ritorno potrebbe avvenire in un’ora in cui la stanchezza dei servi sarà molto grande.

«Se dunque vi diranno: “Ecco, è nel deserto”, non andateci; “Ecco, è in casa”, non credeteci. Infatti, come la folgore viene da oriente e brilla fino a occidente, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo» (Mt 24,26s.). Il Cristo non si manifesterà né in casa, luogo riservato a pochi, né nel deserto, un luogo fuorimano, ma verrà sulle nubi del cielo con la massima visibilità e l’immagine del lampo è oltremodo eloquente; guizza rapidissimo rischiarando il cielo.

«Ecco, io vi annuncio un mistero: noi tutti non moriremo, ma tutti saremo trasformati, in un istante, in un batter d’occhio» (1Cor 15,51); il mistero è un intervento che Dio riserva a sé, una realtà di grande portata conosciuta solo se svelata. Essa riguarda il ritorno del Signore, la risurrezione dei  morti e la trasformazione di tutti, morti e viventi, così da poter stare e gustare la vita eterna. Si compirà in un istante, in un batter d’occhio. Sono cose inimmaginabili.

Universalità – Questo aspetto è già contenuto nelle citazioni precedenti, ma si può richiamare qualche versetto ad hoc. «Come un laccio infatti esso si abbatterà sopra tutti coloro che abitano sulla faccia di tutta la terra» (Lc 21,35s.). “Esso” è il giorno del Signore, mentre il “laccio” è in realtà una rete da caccia per gli uccelli, una rete leggera con dei contrappesi che gettata con abilità li cattura tutti in un colpo solo. Non a caso l’insistenza è sull’aggettivo “tutto”: «sopra tutti coloro che abitano sulla faccia di tutta la terra». Ancora Ap 1,7: «Ecco, viene con le nubi e ogni occhio lo vedrà, anche quelli che lo trafissero» e si può riguardare anche Lc 17,31.

Ritorno del Signore nella gloria – Il giorno della fine coincide col giorno del Figlio dell’uomo. Come già è apparso nei brani citati, esso comporta un ritorno, un incontro. Richiamo qui soltanto un brano, Mc 13,24-26: «In quei giorni, dopo quella tribolazione, il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte. Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria. Egli manderà gli angeli e radunerà i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino all’estremità del cielo». Sole, luna, stelle, potenze dei cieli ritenute al tempo realtà divine e immutabili, collasseranno per lasciar posto a una nuova presenza.

Mutazione del mondo – Sulla fine prevale un fine. Questo rinnovamento è definito dalla Sacra Scrittura con l’espressione «i nuovi cieli e la nuova terra» (cf. Is 65,17; 2Pt 3,13; Ap 21,1). Sarà la realizzazione definitiva del disegno di Dio: «ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra» (Ef 1,10). In questo nuovo universo (cf. Ap 21,5) cioè la Gerusalemme celeste, Dio avrà la sua dimora in mezzo agli uomini. Egli «tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno perché le cose di prima sono passate” (Ap 21,4; cf. Ap 21,27). «Per l’uomo questo compimento sarà la realizzazione definitiva dell’unità del genere umano, voluta da Dio fin dalla creazione e di cui la Chiesa nella storia è “come sacramento” (LG, 1). Coloro che saranno uniti a Cristo formeranno la comunità dei redenti, la “Città santa” di Dio (Ap 21,2), “la Sposa dell’Agnello” (Ap 21,9). Essa non sarà più ferita dal peccato, dalle impurità, (cf. Ap 21,27) dall’amor proprio, che distruggono o feriscono la comunità terrena degli uomini. La visione beatifica, nella quale Dio si manifesterà in modo inesauribile agli eletti, sarà sorgente perenne di gaudio, di pace e di reciproca comunione» (CCC 1045).

  1. Questa riflessione non porrà fine ai terremoti o ad altre cose simili, ma può aiutarci a guardare questi aspetti della precarietà del cosmo in modo diverso. L’Apostolo li chiama i gemiti di chi attende un riscatto:

«La creazione infatti è stata sottoposta alla caducità – non per sua volontà, ma per volontà di colui che l’ha sottoposta – nella speranza che anche la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi. Non solo, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. Nella speranza infatti siamo stati salvati. Ora, ciò che si spera, se è visto, non è più oggetto di speranza; infatti, ciò che uno già vede, come potrebbe sperarlo? Ma, se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza. Allo stesso modo anche lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza; non sappiamo infatti come pregare in modo conveniente, ma lo Spirito stesso intercede con gemiti inesprimibili; e colui che scruta i cuori sa che cosa desidera lo Spirito, perché egli intercede per i santi secondo i disegni di Dio» (Rm 8,20-27).

I gemiti sono un’espressione di lamento, di sofferenza, di disagio e in questo brano abbracciano tre dimensioni: il creato, i credenti, lo Spirito.

Il creato geme per la sua caducità, per la sua precarietà e inconsisten-za. Sono come le doglie che preparano una nascita, una nuova vita. I dissesti della creazione sono i suoi gemiti che, invece di minacciare il compimento dell’opera di Dio, sono come un grido drammatico per la liberazione dalle sue restrizioni; è una sofferenza che non solo non impedisce la gloria futura, ma grida verso di essa come desiderandola.

Il gemito dei credenti è di natura diversa. Il cristiano, anche nel migliore dei casi, prova una certa insoddisfazione, una certa irrequietezza per la vita che conduce oggi, inadeguata, sottomessa a tanti condizionamenti, sebbene protesa verso la manifestazione del Regno, verso la piena visibilità della sua dignità filiale ricevuta in dono. Questa dignità è posseduta oggi come “primizia dello Spirito”, o meglio come “primizie che sono lo Spirito”. Queste parole dell’apostolo Paolo ci insegnano a vedere nel dono dello Spirito Santo la garanzia del compimento della nostra aspirazione alla salvezza: e «la speranza non delude, perché l’amore di Dio é stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci é stato dato» (Rm 5,5). E perciò: «chi ci separerà dall’amore di Cristo?». La risposta é decisa: nulla «potrà  mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù nostro Signore» (Rm 8,35.39). Le sofferenze del tempo presente non possono minacciare il futuro, sono una gloria già iniziata perché «noi sappiamo che tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio» (Rm 8,28).

Il gemito dello Spirito – Il “gemere” dello Spirito Santo non è un gemere per sé, ma un gemere per noi, è un venire «in soccorso della nostra debolezza», della nostra insufficienza e incapacità. Lo Spirito col suo gemito ci soccorre nella nostra preghiera, perché noi siamo troppo deboli. Dio, che scruta i cuori, ode la voce dello Spirito che sale a lui dai credenti. Il Padre sa quello che lo Spirito vuole: solo e sempre che la sua volontà di bene si compia nei nostri riguardi. Egli non solo conosce l’invocazione inesprimibile (lett. “senza parole”) dello Spirito per noi, ma anche la esaudisce. Infatti Dio soccorre in ogni modo i suoi figli che egli ha chiamati e che lo amano. Per coloro che lo amano, il Padre non fa accadere nulla che non serva alla loro salvezza, anzi partecipa ai nostri gemiti facendoli suoi senza interrompere il suo disegno eterno: agisce per il bene in tutte le cose, anche nella sofferenza.

Maguzzano, Abbazia di S. Maria Assunta