Educare,don’t give up

Germogli

germogli” è una collanina, nata quasi per caso, dopo una riunione nella quale mi era stato chiesto di proporre una breve meditazione;

germogli” è una cosa piccolissima, debole, un timido inizio, niente di ambizioso;

germogli” ha la pretesa di mettere in comune qualche passo nel cammino di fede guardando alla Scrittura e sapendo che «né chi pianta è qualcosa, né lo è chi irriga, ma è Dio che fa crescere» (1Cor 3,7).

Alberto Bigarelli

di Alberto bigarelli

«L’attuale negligenza educativa è gravida di conseguenze. Si tira dietro più generazioni e costituisce un reale pericolo per la nostra cultura. Per difetto di cura, per comodità o negligenza, lasceremo che i nostri bambini inselvatichiscano il mondo» (C. Ternynck, L’uomo di sabbia, V§P Milano 2012, 134).

  1. Un compito sempre attuale – L’episcopato italiano ha scelto come tema di fondo per la pastorale del decennio 2010-20 la questione educativa, individuando in essa una problematica decisiva per il futuro del nostro Paese, minacciato da un malessere sempre più diffuso che ha alle sue radici «il ripiegamento su di sé, la frammentazione e il vuoto di senso»(CEI, Educare alla vita buona del Vangelo. Or. Past. 2010, n.6). Si tratta di un compito che deve essere continuamente aggiornato per poter rispondere alle sfide e alle problematiche del nostro tempo.

È infatti nella capacità di attendere a questo impegno fondamentale che si può riconoscere lo stato di salute di una nazione e di una civiltà, come ha ricordato anche Benedetto XVI, parlando, in proposito, di una vera “emergenza educativa”: «A differenza di quanto avviene in campo tecnico o economico, dove i progressi di oggi possono sommarsi a quelli del passato, nell’ambito della formazione e della crescita morale delle persone non esiste una simile possibilità di accumulazione, perché la libertà dell’uomo è sempre nuova e quindi ciascuna persona e ciascuna generazione deve prendere di nuovo, e in proprio, le sue decisioni. Anche i più grandi valori del passato non possono semplicemente essere ereditati, vanno fatti nostri e rinnovati attraverso una, spesso sofferta, scelta personale» (Lettera alla Diocesi e alla città di Roma sul compito urgente dell’educazione, 21.01.2008).

Da qui, insieme, l’urgenza e la grande difficoltà di un tale compito.

  1. Si può vivere senza educazione? – «Noi non abbiamo bisogno di un’educazione!», esclamano i bambini nella celebre canzone dei Pink Floyd Another break on the wall. In realtà queste parole vengono prima espresse da un adulto, per poi essere ripetute dai bambini. Pur senza volerlo, emerge un doppio messaggio significativo in questo come in ogni manifesto della trasgressione: anche la non-educazione è pur sempre un’educazione, e il ruolo dell’educatore rimane imprescindibile, perché i bambini imitano e ripetono ciò che vedono fare dagli adulti.

Non c’è dubbio che le società occidentali attraversino una crisi di credibilità, più che di valori, di coloro che sono chiamati a trasmetterli. La crisi è soprattutto degli educatori, degli “adulti”, che sempre più spesso manifestano problematiche e comportamenti del mondo adolescenziale [cf. G.Cucci, La scomparsa degli adulti, in Civiltà Catt. 3885 (2012), 220-232]; crisi infine dell’autorità, che nell’educare è anche chiamata a essere normativa, condannandosi all’impopolarità.

Ad aggravare la situazione c’è la presenza di una cultura smaniosa di seppellire ambienti e luoghi da sempre preposti a un tale compito, suggerendo un modello facile e spontaneo di crescita dove tutto risulta lecito e praticabile: «Viviamo in una società dove sembra che tutto sia possibile indifferentemente; dove qualsiasi idea o stile di vita sembra avere lo stesso valore; dove il potere dell’apparato tecnico-economico sembra volersi emancipare da ogni istanza umana; dove i desideri sembrano diventare diritti e l’estetica sembra prendere il posto dell’etica» .

Ma il compito educativo, per quanto difficile e inviso, rimane indispensabile, perché non tutte le strade risultano ugualmente percorribili: spesso esse si rivelano miraggi illusori, di cui il giovane può accorgersi troppo tardi, quando non è più possibile porvi rimedio.

Come osservava H.Arendt, rifiutarsi di esercitare il compito educativo non è una maniera di valorizzare i giovani, ma una ritirata dai propri compiti: «Che gli adulti abbiano voluto disfarsi dell’autorità significa solo questo: essi rifiutano di assumersi la responsabilità del mondo in cui hanno introdotto i loro figli […]. E l’uomo non poteva trovare altro modo più chiaro di esprimere il proprio scontento rispetto al mondo, il proprio disgusto di fronte alle cose come sono, del rifiuto di assumersi la responsabilità di tutto questo di fronte ai figli» (Tra passato e futuro, Milano, 1991, 248s.).

L’educazione, dunque, oltre che indispensabile, è legata a un’assunzione di responsabilità, a una testimonianza, perché i valori si comunicano anzitutto con la vita, consentendo alla persona di poter a propria volta educare altri.

  1. Cosa significa educare? – La parola educazione indica anzitutto la capacità di favorire e aiutare la crescita, portando alla luce la verità di se stessi (e-ducere), dell’educatore come dell’educando. L’educazione è stata da sempre concepita come il percorso verso la fase adulta della vita, verso la maturità intellettuale, affettiva e relazionale.

Essere adulti ed essere maturi non significano propriamente la medesima cosa: la nascita biologica e la nascita psicologica dell’essere umano difatti non coincidono tra loro. Mentre la nascita biologica è un fatto ben preciso e osservabile, la nascita psicologica è il frutto di un lento e talvolta sofferto cammino cognitivo, psicologico e spirituale.

Parlare di “educazione alla maturità” come di itinerario verso l’età adulta significa tenere presenti queste differenti e variegate difficoltà. La persona affettivamente matura è quella che sa integrare la sua capacità riflessiva e intellettuale con le corrispondenti emozioni, in modo che le scelte compiute siano espressione concreta degli ideali proclamati: «La persona matura non è chi controlla maggiormente, ma colui che sa regolare i propri affetti in modo flessibile, in base al grado di consapevolezza che ha di essi e a quanto decide di esprimere» (A.Bissi, Maturità umana, cammino di trascendenza, Casale Monferrato, 1991, 79).

La maturità affettiva fa dunque riferimento a un percorso, complesso e articolato, in cui la persona è in grado di esprimere in modo libero e consapevole il meglio di sé, il suo patrimonio cognitivo e affettivo.

  1. L’educazione intellettuale come capacità di differenziare – L’importanza fondamentale di un educatore si può rilevare già nell’ambito cognitivo dello sviluppo umano. L’esercizio stesso dell’apprendimento abilita infatti a compiere scelte e rinunce, perché l’intelligenza è selettiva (intus-legere), è capacità di leggere tra le righe: saper riconoscere il messaggio centrale di una notizia, di un articolo, di un brano di letteratura significa imparare ad affrontare la complessità operando scelte. Un testo rappresenta specularmente quanto accade nella vita reale: c’è una serie di percorsi a nostra disposizione, ma non tutti possono essere intrapresi e si devono operare rinunce, si deve cioè preferire qualcosa a qualcos’altro.

Si tratta di abilità indispensabili per riconoscere i propri desideri, cioè quello che si vuole dalla propria vita. Le prime parole che Gesù pronuncia nel Vangelo di Giovanni non a caso vertono sul desiderio: «Che cosa cercate?» (1,38). L’invito a fare chiarezza è alla base di ogni possibile scelta e decisione, è la prima vocazione cui ogni essere umano è chiamato, imparare a dare un nome a ciò che egli sta cercando.

Per questo è fondamentale essere accompagnati da qualcuno che abbia già compiuto questo percorso e sia in grado di aiutare altri, specialmente quando emergono la fatica e i possibili falli- menti. Senza questo aiuto, nulla potrebbe essere portato avanti con coerenza e si finirebbe per arrendersi, frustrati, alla prima difficoltà: «Come aveva intuito E. Durkheim, se lasciati a loro stessi, gli uomini sono destinati a cadere vittime dei propri desideri senza fine. Per questo ci vuole l’educazione e ci vogliono maestri capaci di insegnare» (Comm. Prog. Culturale CEI, La sfida educativa, cit. XIV).

La necessità di questo accompagnamento – e i problemi che insorgono qualora esso venga disatteso – si mostra nella sua gravità di fronte alla questione delle scelte da compiere nella fase successiva all’adolescenza, dal punto di vista professionale, affettivo e di progetto di vita. Ne è prova la lunga fase di ibernazione della vita del giovane, una fase di attesa in cui ci si illude di avere sempre di fronte a sé, intatte, tutte le possibilità: un’illusione che spesso nasconde la paura di scegliere, di fallire, di non sapere cosa realmente si voglia dalla propria vita.

Un documento sulla situazione vocazionale in Europa rilevava proprio nella difficoltà a differenziare/decidere la radice dell’incertezza e del disagio propri di tanti giovani, pur generosi e capaci, ma smarriti, non perché privi di ideali, ma per la mancanza di educatori e di modelli: «Come la Roma antica, l’Europa moderna sembra simile a un pantheon, a un grande “tempio” in cui tutte le “divinità” sono presenti, o in cui ogni “valore” ha il suo posto e la sua nicchia. Valori diversi e contrastanti sono copresenti e coesistenti, senza una gerarchizzazione precisa; codici di lettura e di valutazione, di orientamento e di comportamento del tutto dissimili tra loro. Risulta difficile, in tale contesto, avere una concezione o una visione del mondo unitaria, e diventa dunque debole anche la capacità progettuale della vita. Quando una cultura, infatti, non definisce più le supreme possibilità di significato o non riesce a creare convergenza attorno ad alcuni valori come particolarmente capaci di dare senso alla vita, ma pone tutto sullo stesso piano, cade ogni possibilità di scelta progettuale e tutto diviene indifferente e piatto […]. Fa un’immensa tristezza incontrare giovani, pur intelligenti dotati, in cui sembra spenta la voglia di vivere, di credere in qualcosa, di tendere verso obiettivi grandi, di sperare in un mondo che può diventare migliore anche grazie ai loro sforzi, Sono giovani che sembrano sentirsi superflui nel gioco o nel dramma della vita, quasi dimissionari nei confronti di essa, smarriti lungo sentieri interrotti e appiattiti sui livelli minimi della tensione vitale.    Senza vocazione, ma anche senza futuro, o con un futuro che, tutt’al più, sarà una fotocopia del presente» (Pontif. Opera Vocaz. Eccl., Nuove vocazioni per una nuova Europa, 1997 n. 11).

La crisi, nelle decisioni e nelle scelte, è soprattutto legata a questa incapacità di riconoscere il desiderio profondo, ciò che davvero conta nella propria vita, e di essere disponibili a «pagarne il prezzo», operando alcune rinunce.

  1. L’importanza decisiva della famiglia – L’ambito familiare presenta in sede educativa compiti e possibilità insostituibili. La fiducia di fondo, condizione indispensabile per la vita umana, cresce e si sviluppa anzitutto nella relazione genitoriale: «L’apporto di padre e madre, nella loro complementarità, ha un influsso decisivo nella vita dei figli. Spetta ai genitori assicurare loro la cura e l’affetto, l’orizzonte di senso e l’orientamento nel mondo. Oggi viene enfatizzata la dimensione materna, mentre appare più debole e marginale la figura paterna. In realtà, è determinante la responsabilità educativa di entrambi. E’ proprio la differenza e la reciprocità tra il padre e la madre a creare lo spazio fecondo per la crescita piena del figlio» (CEI, Educare alla …, n.27).

 L’essere umano non è in grado di svilupparsi senza un ambiente favorevole, all’insegna del senso, dell’ordine, della fiducia e della stabilità. Compito dei genitori è predisporre questo habitat fondamentale, capace di dare il benvenuto al nuovo arrivato: «Di fatto, gli psicologi dell’infanzia ci dicono che non può esservi maturazione psicologica se, all’inizio del processo di socializzazione, non c’è la fede nell’ordine. L’inclinazione che l’uomo ha per l’ordine si fonda su una sorta di fede o di fiducia che, in fondo, la realtà sia “in ordine”, che “tutto vada bene”, che sia «come dovrebbe essere» […]. Il ruolo che un genitore si assume non è solo quello di rappresentare l’ordine di questa o quella società, bensì l’ordine in sé, l’ordine che regge l’universo e che ci persuade alla fiducia nella realtà» (P.Berger, Il brusio degli angeli, Bologna – Il Mulino 1969, 92.94).

Da qui lo stretto legame della relazione genitoriale con la dimensione religiosa dell’esistenza. La fiducia acquisita nell’ambito familiare abilita alla capacità di vivere relazioni stabili, ad affrontare difficoltà e frustrazioni, e risulta decisiva anche in ordine allo sviluppo morale e religioso, alla relazione con un Dio che, nella tradizione biblica, si presenta come un Padre che ama i suoi figli di affetto materno: «Chi ha ereditato dai suoi genitori e nella cerchia familiare la fiducia originaria considera il mondo attorno a sé con gli occhi della fiducia: non ha timore di “rischiare” la propria vita, ha voglia di mettere alla prova le sue capacità. Il suo sentimento di fondo è dominato da una profonda fiducia di poter contare sugli uomini, di potersi fidare in tutta semplicità dell’essere umano. Infine questa fiducia originaria ha anche una componente religiosa: nella sicurezza dell’uomo risplende qualcosa della fedeltà di Dio che ci sostiene e sul quale possiamo contare» (A.Grun, Autostima e accettazione dell’ombra, Cinisello Balsamo 1996, 16; cf. CEI, Educare alla …, cit. nn. 27-28.36-38).

L’importanza dell’ambiente familiare e della relazione genitoriale si mostra anche in negativo, qualora essa venga disattesa: è soprattutto a motivo di un’incresciosa esperienza vissuta in famiglia che molti figli, una volta adulti, non intendono ripetere la storia dei propri genitori, scegliendo forme alternative di vita insieme. In questi casi la motivazione primaria è per lo più negativa: al posto dell’ideale smarrito, c’è il tentativo di ridurre i rischi e i possibili danni, insieme alla paura di fallire.

6. Il cammino verso la maturità affettiva – Tra gli aspetti fondamentali dell’educazione, il documento ritorna più volte sulla dimensione affettiva, notando con preoccupazione un “diffuso analfabetismo” in questo campo (n. 54), rilevabile dalla tendenza a separare tra di loro intelligenza, sessualità e affetti, e dall’incapacità a vivere relazioni stabili e significative (cf. nn. 9 e 13). In tal modo la persona tende a valutare e agire sulla base dell’emotività e della superficialità, senza un progetto di fondo, «in un orizzonte privo di riferimenti significativi e dominato dall’impulso momentaneo» (n. 13; cf. nn. 27 e 31).

Essere affettivamente maturi significa in primo luogo aver superato quella fase che Freud chiamava «principio del piacere», che egli contrapponeva al «principio di realtà» (Cf. S.Freud, Al di là del principio piacere, in Opere vol IX, Torino 1977, 196). Il principio del piacere non riguarda soltanto le espressioni apertamente sessuali, ma anche gratificazioni di altro tipo, più sottili ma non meno deleterie, legate ad esempio al potere, ai ricatti affettivi, alla compiacenza, al non poter dire ciò che si pensa perché timorosi di essere esclusi dalla considerazione altrui. Il centro di tutto rimane comunque il soggetto e il suo bisogno di riconoscimento, che lo rende volubile e scontento.

 Un altro punto di valutazione importante dello sviluppo affettivo, fonte di possibili equivoci, è dato dal proprio carattere o temperamento di fondo. «Sono fatto così», si dice spesso, come se questa affermazione costituisse un motivo sufficiente per non intraprendere inutili e frustranti tentativi di cambiamento. In realtà il vero elemento discriminante, come si è notato, è dato dal desiderio di migliorarsi, mettendo in conto il possibile costo. Temperamenti obiettivamente difficili, per esempio sotto il profilo dell’aggressività, sono stati in grado di compiere cambiamenti lenti e sofferti, ma estremamente efficaci, fino al punto di poter dominare il loro carattere, riconciliandosi con la propria storia di vita» (cf. F. Stoppa, La restituzione. Perché si è rotto il patto tra le generazioni, Milano 2011, 105-110).

Uno degli aspetti più delicati e importanti dell’affettività riguarda certamente l’educazione sessuale. Non si tratta semplicemente di offrire una maggiore quantità di conoscenze: la crescita di informazioni oggi a disposizione non ha certamente reso il giovane più maturo e responsabile. Sotto questo aspetto si nota anzi una crescente problematicità, che rende più difficile compiere scelte stabili e definitive, caratteristiche essenziali della fase adulta della vita.

Va inoltre chiarito un frequente equivoco: la sessualità, intesa come genitalità, può essere manifestazione privilegiata dell’affetto, ma non necessariamente. Essa può essere del tutto separata dagli affetti, come nelle derive della perversione, in cui si cerca di ridurre 1’altro a un oggetto su cui scaricare la propria aggressività e frustrazione. L’affettività può, d’altra parte, non avere espressioni sessuali, come è appunto il caso della vita consacrata e del celibato, ma trovare altre forme di espressione come le relazioni all’interno della vita comunitaria, i ministeri apostolici, l’amicizia.

  1. La dimensione religiosa – La dimensione religiosa si manifesta sin dall’inizio della vita umana, a partire da quella relazione fondamentale e insostituibile con i propri genitori. Essa trova in seguito ulteriori momenti privilegiati che, pur differenti e variegati sotto l’aspetto dei contenuti proposti, presentano sempre una dimensione relazionale e comunitaria: la parrocchia, i movimenti e le associazioni, o esperienze significative come il volontariato e la missione.

Ogni relazione richiede infatti come condizione essenziale la fede, la capacità basilare di «dare fiducia», per poter essere riconosciuti e accolti in maniera adeguata. Un rapporto interpersonale che prescinda dalla fede non è strutturalmente possibile: esso finisce prima o poi per soffocare 1’altro, riducendolo alle proprie aspettative e categorie valutative. Ma si può dare fiducia e amore solo se se ne è già fatta precedentemente l’esperienza; in questo percorso il passo veramente difficile, più che amare, è quello di lasciarsi amare dal Signore: «È arduo lasciarsi amare, credere in un Dio che si propone non come padrone, ma come servitore della vita […]. “Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri” (Gv 13,34)» (Educare alla …, cit. n.25).

La religione è inoltre un elemento essenziale della storia e della civiltà: disattenderne l’educazione è un grave impoverimento anche dal punto di vista culturale e lascia l’uomo privo di risposte di fronte ai grandi interrogativi circa il senso della vita. Quando questa dimensione viene smarrita, l’esistenza si riduce a una serie di tentativi ed espedienti per «limitare i danni», perché succubi dell’ angoscia e della disperazione nei confronti della morte.

La dimensione di fede, come ogni esperienza autenticamente umana, presuppone d’altra parte la libertà di potervi rispondere, una libertà in cui è presente anche una dimensione di coinvolgimento e di rischio. Il cammino verso la maturità dell’esperienza di fede non pone certamente al riparo da interrogativi e difficoltà, perfino da allontanamenti, ma invita a entrare nella complessità e verità di se stessi, rifuggendo da facili etichette ideologiche.

Nel Vangelo “fede” e “incredulità” non si escludono: si nota al contrario un confronto a volte sofferto e difficile con il dubbio, la fragilità, la crisi, come in ogni relazione veramente importante della vita.

  1. Il punto di arrivo: la generatività – Si notava sopra come la crisi educativa non riguardi tanto i valori, in fondo noti da sempre, soprattutto qualora vengano violati a proprio danno. La crisi investe piuttosto la capacità di trasmetterli in maniera significativa alle nuove generazioni, offrendo anzitutto un aiuto e un modello: «In questo senso un “patrimonio” – come dice la parola – ha bisogno di una funzione “paterna”, cioè della buona autorità che accompagni al senso vivibile delle cose» (Com. Prog. Culturale CEI, La sfida educativa, cit. 11).

L’uomo e la donna diventano veramente adulti quando generano, dando vita a un essere distinto da loro che li continua nel tempo. L’esercizio della paternità e della maternità non è ovviamente limitato alla sua dimensione biologica, ma attraversa ogni aspetto della vita umana ed è anche segno della salute di una civiltà: «Non è pensabile che l’uomo faccia esperienza della vita da solo, ma deve essere in certo modo generato all’esperienza, Solo l’esperienza suscita esperienza e quindi mette l’uomo nella capacità di compierla […]. Il bambino impara a vivere dal genitore, il piccolo guardando al grande, l’amico nella compagnia dell’amico […]. Al cuore dell’educazione sta dunque la dimensione generativa umana, che è genesi e legame, relazione e riconoscimento, trasmissione e tradizione, responsabilità e fedeltà, interessamento e cura» (Com. Prog. Culturale CEI, La sfida educativa, cit. 11).

Generare implica un «lasciar andare», non trattenere presso di sé, in modo che un altro, distinto e differente, possa prendere vita. Questo lasciare è anche alla base del compito educativo: rendere capace il figlio di autonomia e responsabilità.

Risulta senz’altro inquietante l’odierna crisi della generatività che attraversa la maggior parte delle società del benessere, anzitutto a livello demografico, con gravi ripercussioni per la loro stessa sopravvivenza: «Il tasso di ricambio generazionale, che si attua di norma a 2,1 figli per donna, è sceso a 1,3 in Giappone e in Germania e a 1,1 in Spagna, e in certe regioni dell’Italia sprofonda a 0,8. Seguendo questa tendenza, la popolazione italiana dovrebbe passare da 55 a 20 milioni di abitanti alla fine del XXI secolo; quella giapponese da 125 a 50 milioni […]. Per quanto senso possa avere aggregare questa miriade di microdecisioni individuali sotto l’etichetta di spirito oggettivo di un’ epoca, siamo obbligati ad affermare che le nostre società, nella loro gran parte, esprimono un profondo rifiuto per ciò che il bambino rappresenta per la specie: la possibilità di un avvenire al di là del presente» (M.Guachet, Il figlio del desiderio. Una rivoluzione antropologica, Milano 2010, 69).

La crisi della generatività non emerge soltanto dal drastico calo delle nascite; la si ritrova in quasi ogni campo dell’attività umana. Si pensi alla vita politica e sociale: sempre più di rado un uomo di governo, un leader, il fondatore di un movimento o di un’opera pubblica, per quanto brillante e dotato, si mostra capace di preparare qualcuno in grado di continuare la sua opera.

 E invece triste constatare come, sempre più spesso, persone molto avanti negli anni sembrino incapaci di «lasciare spazio» perché altri possano subentrare. Esse si attaccano con morbosità al proprio incarico, al posto di comando, senza rendersi conto che è giunto il momento di «passare il testimone». Anche questa è una sconfitta educativa, forse la più grave, nei confronti delle giovani generazioni.

La generatività suppone una concezione della vita all’insegna del dono e della gratuità: essa è antitetica al possesso. È anche una forma di discernimento dei segni dei tempi: riconoscere il momento in cui è necessario farsi da parte perché altri possano proseguire l’opera intrapresa. La missione educativa può dirsi compiuta quando ha generato qualcuno in grado di continuarla. Saper lasciare è un’attestazione di fiducia nelle generazioni successive, è soprattutto una forma di saggezza.

Come recita un detto orientale: «Sappi fermarti un passo prima che un altro ti dica: basta! Sappi interrompere il tuo cammino prima che un altro ti dica: basta! Sappi lasciare il posto a lungo occupato, prima che un altro ti dica: basta!».

Questo è stato l’atteggiamento di Gesù.

Egli ha preparato con cura questo momento, affidando la sua opera ai discepoli, pur conoscendone a fondo debolezze e fragilità. Si pensi ai cosiddetti «discorsi di addio» (cf. Gv 14-16), in cui risuona un insegnamento paradossale e sconcertante: «È bene per voi che io me ne vada, perchè, se non me ne vado, non verrà a voi il Paraclito; se invece me ne vado, lo manderò a voi» (Gv 16,7). Anche su questo punto Gesù dimostra una fiducia nelle persone spesso assente in progetti e istituzioni che in apparenza si vorrebbero basate unicamente sulle forze umane.

Senza generatività, senza capacità di affidamento, anzitutto a Colui che regge1a storia e conosce il cuore di ogni uomo, l’educatore cessa di essere tale per diventare concorrente, zavorra, ostacolo che rende difficile il cammino e impedisce il rinnovamento.

La crisi attuale può essere un invito a fermarsi e a interrogarsi su ciò che rimane della propria opera, della propria vita, e come essa possa essere affidata ad altri, per poi farsi da parte. Questo è il messaggio più grande che un educatore possa trasmettere, a tutti i livelli, e un concreto segno di speranza, perché egli sa che la vita non muore con lui; «Come diceva R. M. Rilke, deposto il nostro nome, Dio ce ne conceda uno nuovo nel silenzio» (G.Ravasi, Mattutino, Casale Monferrato 1995, 7).