Letture festive – 49. Avvertimenti – 26a domenica del Tempo Ordinario Anno C

Briciole dalla tavola. Vangelo per senza Dio

di Alberto Ganzerli

26a domenica del Tempo Ordinario Anno C – 25 settembre 2022
Dal libro del profeta Amos – Am 6,1a.4-7
Dalla prima lettera di san Paolo apostolo a Timòteo – 1 Tm 6,11-16
Dal Vangelo secondo Luca – Lc 16,19-31


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letture festive 49

Il profeta Amos avverte come ingiusta e intollerabile la condizione economica, politica e sociale del proprio tempo e ne individua come responsabile una classe dirigente concentrata sul proprio benessere, a scapito di quello del popolo, che invece va in rovina. Il contrasto tra la ricerca di un lusso per pochi – che appare scandalosamente superfluo – e la condizione della maggioranza delle persone è acuito dal tema dello sfruttamento. Il cibarsi dei ricchi con gli agnelli del gregge e con i vitelli cresciuti nella stalla potrebbe, infatti, essere inteso come una metafora proprio dello sfruttamento da parte dei capi nei confronti dei sottoposti. L’avvertimento di Amos suona come l’irrompere – nel bel mezzo di una festa definita come orgia dei dissoluti – di un preannuncio della futura rovina, descritta nei termini di una sorta di tragica pena del contrappasso: proprio i capi, che si sono rivelati incapaci di guidare efficacemente il popolo affidato alla loro responsabilità politica, saranno collocati nei primi posti della lunga colonna dei deportati, diretti verso l’esilio in terra straniera. Si tratta di passi – quelli verso l’esilio – che si dovranno compiere, perché non si sono saputi o voluti compiere, per tempo, i passi che sarebbero stati necessari – da parte delle autorità – per porre rimedio all’ingiustizia dilagante.

La prima lettera a Timoteo rivolge al suo destinatario, cui sono state affidate responsabilità nella comunità ecclesiale, una serie di avvertimenti sotto forma di esortazioni e di veri e propri ordini. Si tratta di avvertimenti volti a sostenere e orientare un cammino di servizio alla comunità che si immagina debba svilupparsi nel tempo. Gli avvertimenti riguardano, negativamente, l’evitare alcune cose – l’attaccamento al denaro di cui si parla nei versetti precedenti – e, positivamente, il tendere ad altre: la giustizia, la fede, la carità, la pazienza e la mitezza. Questi ultimi atteggiamenti e comportamenti potrebbero far pensare a un quadro idilliaco ma, al contrario, lasciano intravedere un contesto di vita ecclesiale e comunitaria attraversato da problemi e conflitti, a quali forse allude anche l’esortazione a combattere la buona battaglia della fede. L’avvertimento richiama l’arco temporale nel quale si sviluppa il servizio ecclesiale di Timoteo a partire dalla rievocazione di una iniziale professione di fede in presenza di testimoni, che viene accostata alla testimonianza di Gesù davanti a Ponzio Pilato. Troviamo qui un collegamento piuttosto inquietante, se si considera – oltre al parallelismo tra Timoteo e Gesù – anche quello tra Pilato e i testimoni nel contesto ecclesiale della professione di fede di Timoteo. Ma l’avvertimento a Timoteo contiene soprattutto riferimenti al futuro: la vita eterna a cui si è chiamati e la manifestazione del Signore Gesù, che si attende per un tempo già stabilito, ma per noi ancora ignoto. Troviamo qui il nucleo di ogni avvertimento spirituale: il richiamo a un futuro evocato ma che ancora non conosciamo, delineato nei suoi tratti attesi e sperati, mentre in Amos è delineato con le sue caratteristiche inattese e minacciose. L’avvertimento, tuttavia, per i con Dio e per i senza Dio, non ha lo scopo di informare sul futuro, ma di aiutare ad affrontare il presente nel modo migliore. Che lo si faccia con la promessa o con la minaccia poco importa, perché qui promesse e minacce sono in realtà i generi letterari con i quali l’avvertimento, se accolto, ci vuole far riconoscere la strada che già da ora dobbiamo percorrere.

La parabola del ricco che banchetta, ignorando l’affamato alla sua porta, potrebbe essere letta come la geniale sceneggiatura di una fiction ispirata al testo di Amos, con il suo avvertimento rivolto alla spensierata classe dirigente, che precederà in esilio il popolo da lei sfruttato. Più ancora, potremmo intendere la parabola come una fiction che vuole rappresentare quasi cinematograficamente, per darle forza ed efficacia, quella sorta di proverbio che, alla fine della parabola, viene messo in bocca al patriarca Abramo: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”. È importante, anzitutto, cogliere che di fiction, di finzione, si tratta e non – come forse tradizionalmente si è a lungo pensato – di una minaccia, in una vita dopo la morte, di punizioni infernali per i ricchi che si disinteressano dei poveri. La vicenda della parabola inizia sulla terra, con la descrizione di scene di ordinaria miseria e di ordinaria indifferenza, in un mondo profondamente ingiusto. Bisogna spostare la scena nel cielo perché i destini del povero e del ricco, con le rispettive sofferenze e godimenti, risultino perfettamente ribaltati. È a questo punto che il ricco, dopo aver richiesto invano un sollievo alle proprie sofferenze fisiche, domanda – in un tardivo sussulto di altruismo – di poter almeno evitare ai propri cari un destino simile al suo, nell’unico modo che ritiene davvero efficace: che un morto torni tra i vivi per avvertirli. È qui che la parabola raggiunge il culmine e provoca i suoi ascoltatori di ogni tempo: la scelta di provare a condurre una vita buona e attenta ai bisognosi non richiede l’apparizione di un redivivo. Non serve neppure che il redivivo sia portatore di spaventosi avvertimenti su punizioni atroci minacciate in un aldilà radicalmente binario e inversamente retributivo. Sarebbe sufficiente ascoltare l’avvertimento proveniente da Mosè e dai profeti, anch’essi ormai morti, ma alle cui parole abbiamo accesso in ogni tempo, attraverso il testo biblico e senza bisogno di apparizioni sconvolgenti. L’avvertimento offerto da questa parabola, anche per noi che l’ascoltiamo, è che c’è un abisso che purtroppo ancora separa l’attuale affamato morente dal possibile affamato saziato e che separa l’attuale ricco concentrato sul proprio godimento dal possibile ricco capace di accorgersi delle sofferenze altrui. Si tratta di un abisso che noi come destinatari della parabola, ascoltando l’avvertimento di Mosè e dei profeti, siamo invitati a colmare. Potremo colmare questo abisso, qui e ora sulla terra, a condizione di mettere in pratica, nelle relazioni quotidiane con i poveri, quella realtà ideale che la parabola riesce solo a proiettare per noi, come un avvertimento, sullo schermo del cielo.