Riflessioni teologiche – 44. Cristianesimo ecumenico e pratiche di comunione (parte 5: COMUNITÀ DI PRATICA E REALTA’ ECCLESIALI MIGLIORABILI DAL CONTRIBUTO DI CIASCUNO)

Briciole dalla tavola. Vangelo per senza Dio

di Alberto Ganzerli

Osare un cristianesimo radicalmente ecumenico, dinamicamente inserito nel processo di riconfigurazione in forma sinodale intrapreso da chiese e comunità cattoliche su impulso di papa Francesco, richiede un rinnovato impegno nel praticare forme di comunione ecclesiale capaci di ampliare la varietà di coloro che potrebbero essere raggiunti o accolti o attivamente coinvolti. Nell’intraprendere questo percorso di ricerca teologica, di esperienza vissuta e di pratiche di sperimentazione ecclesiale potrebbero essere di aiuto diversi approcci teorico-pratici provenienti da alcune fonti di ispirazione: elementi ricavabili dall’esperienza vissuta nelle famiglie, riflessioni sulle comunità di pratica, metodologie per l’ascolto attivo e la gestione dei conflitti, approcci filosofici della teoria dell’attore-rete (ANT) e dell’ontologia orientata agli oggetti (OOO), suggestioni collegate alla nozione di terzo paesaggio e possibili applicazioni di questi approcci alla teologia e alla pratica ecclesiale (parte 5: COMUNITÀ DI PRATICA E REALTA’ ECCLESIALI MIGLIORABILI DAL CONTRIBUTO DI CIASCUNO)


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Dopo la “partecipazione periferica legittima” e la “negoziabilità del significato”, la terza caratteristica delle comunità di pratica, viene definita – in modo forse un po’ astruso – come “densità insatura delle reificazioni”. Se con “reificazioni” si intendono qui le realtà di vario tipo in cui si concretizzano le pratiche messe in atto dalle comunità, l’altro riferimento alla “densità insatura” proviene dalla chimica e si può comprendere pensando a un bicchiere d’acqua in cui è possibile sciogliere solo una certa quantità di zucchero, prima che la soluzione diventi satura e lo zucchero in eccesso si depositi sul fondo del bicchiere. La “densità insatura” è perciò la condizione di un bicchiere dove è possibile ancora introdurre e sciogliere ulteriore zucchero, ottenendo quindi una soluzione che viene modificata, passando così attraverso diverse e successive “reificazioni”, che la trasformano fino al risultato finale. Questo risultato può essere, in ambito ecclesiale, una pratica liturgica innovativa, un nuovo servizio che si intende offrire a persone in difficoltà, un processo di trasformazione che si intende attuare all’interno della comunità, una decisione importante sull’utilizzo di risorse, un documento programmatico su aspetti rilevanti, una proposta di incontro, conoscenza e collaborazione con realtà altre e diverse, un’iniziativa che si intende rivolgere al territorio, ecc. Nelle comunità di pratica – comprese quelle ecclesiali – si arriva a concretizzare qualcosa grazie alla partecipazione di tutti, per cui ciascuno, nell’offrire il proprio contributo, deve prevedere e accettare che questo non costituisca già il risultato finale, ma possa – e anzi debba – poter essere ulteriormente modificato e migliorato dal contributo e dalla proposta di qualche altro partecipante alla comunità di pratica.

Non è per nulla scontato che le comunità ecclesiali – dove spesso i vertici gerarchici hanno la prima e l’ultima parola – accettino di essere introdotte a questa dinamica di programmatica incompiutezza, provvisorietà e apertura che dovrebbe caratterizzare ogni contributo offerto e ogni proposta avanzata da ciascun componente la comunità di pratica. Eppure, un autentico riconfigurarsi della chiesa in forma sinodale richiede precisamente questo tipo di processo e di dinamica. Riuscire a intendere il frutto del proprio lavoro come una concretizzazione provvisoria, intenzionalmente offerta al miglioramento operato da altri attraverso ulteriori elaborazioni, richiede da parte di tutti un atteggiamento sinceramente umile e convintamente cooperativo, anche perché comporta la rinuncia a possedere l’esclusiva di un risultato destinato a diventare comune. L’altro aspetto che, infatti, va colto nella “densità insatura delle reificazioni” è la disponibilità a riconoscersi non solo e non più nel proprio contributo individuale offerto alla comunità, ma anche nel risultato comune e comunitario che alla fine si arriva a concretizzare. Anche se la “reificazione” in cui infine si concretizza il processo portato avanti con il contributo di tutti non può rispecchiare compiutamente le specificità e le preferenze di ciascuno, è necessario che ciascuno possa in qualche modo riconoscere che vi è una parte del proprio contributo in ciò che si è arrivati a condividere e comporre in modo comunitario. Solo così potrà esservi, nel modo in cui si metterà in atto la “reificazione” elaborata dalla comunità, la partecipazione attiva e convinta di ciascuno, una partecipazione basata non tanto sul sacrificio e sulla mortificazione della propria individualità, ma piuttosto sulla consapevolezza di aver dato il proprio contributo a un risultato comune nel quale ciascuno può davvero riconoscersi.

Se si pensa alle potenziali differenze presenti in un cristianesimo radicalmente ecumenico, capace di ricomprendere al proprio interno teisti e non teisti, si può intuire quale sia l’importanza – ma anche la difficoltà – di processi che portino a “reificare” attraverso dinamiche di “densità insatura”. Si sarebbe persino tentati di ritenere che in realtà sia impossibile far interagire, nella medesima “soluzione chimica” ecclesiale, teismo e non teismo e che, a maggior ragione, sia impossibile per teisti e non teisti riconoscersi in una medesima “reificazione” comunitaria. Sul piano della condivisione delle idee e delle opinioni teologiche riguardanti la verità, questa interazione in una medesima “soluzione chimica” e questo comune riconoscimento tra teisti e non teisti sarebbero forse davvero impossibili. Per questo, infatti, abbiamo dovuto introdurre (dal n. 31 al n. 39 di queste riflessioni teologiche) il tema della reciproca tolleranza e legittimazione dell’errore. Sul terreno delle pratiche, invece, e in particolare delle pratiche di comunione, le persone – anche quelle che presentano alterità e differenze anche profonde sul piano delle convinzioni e delle idee – possono riuscire più agevolmente – purché animate da un desiderio cristiano di unità – a comprendere motivazioni, rispettare pratiche, accogliere suggerimenti, rivedere proposte, condividere modifiche, fino a riconoscersi in una concretizzazione pratica diversa da quella propria, così come la si era immaginata inizialmente. Da processi comunitari ispirati alla “densità insatura” ci si possono attendere, grazie al contributo di tutti e di ciascuno, “reificazioni” innovative e creative già in comunità molto omogenee al loro interno. A maggior ragione, da comunità composte da soggetti eterogenei, come potrebbero essere teisti e non teisti, ci si potranno attendere, qualora si riescano ad affrontare e superare le maggiori difficoltà dei processi ispirati alla “densità insatura”, “reificazioni” ancora più innovative e ancora più creative, se davvero in esse tutti – pur così diversi – potranno davvero riconoscersi.

Riferimenti:

Stella Morra – Marco Ronconi, Incantare le sirene. Chiesa, teologia e cultura in scena, EDB, Bologna 2019, pp. 196-219.

Etienne Wenger, Comunità di pratica. Apprendimento, significato e identità, Raffaello Cortina, Milano 2006.