“Bando alla menzogna e dite ciascuno la verità…
Germogli
“germogli” è una collanina, nata quasi per caso, dopo una riunione nella quale mi era stato chiesto di proporre una breve meditazione;
“germogli” è una cosa piccolissima, debole, un timido inizio, niente di ambizioso;
“germogli” ha la pretesa di mettere in comune qualche passo nel cammino di fede guardando alla Scrittura e sapendo che «né chi pianta è qualcosa, né lo è chi irriga, ma è Dio che fa crescere» (1Cor 3,7).
Alberto Bigarelli
Assistiamo tutti al degrado della parola sia nei rapporti interpersonali che in quelli della vita pubblica. Questa degenerazione è moltiplicata dai media, sbandierata, negata, rilanciata in modo assordante al punto tale che, volendo capire, ci si trova spiazzati, disorientati. La mancanza di sincerità e di trasparenza infetta i rapporti umani dilagando nell’illusorietà, nell’inconsistenza, nella doppiezza per non parlare di slealtà, di inganno, di impostura. Il giornalista, scrittore, poeta italiano Erri de Luca ha scritto: «Noi siamo in un tempo ciarlatano, nel quale i discorsi vengono pronunciati e smentiti il giorno dopo; frasi che contano esattamente lo sputo e il fiato per emetterle…». Un tale degrado svela un’evidente disonestà nelle azioni e nei comportamenti che alterano e falsificano pesantemente l’esistenza umana. Questo numero di Germogli è dedicato a questo ed esprime, forse, il desiderio ingenuo di pulizia, di aria fresca. Parto da lontano.
L’uomo, scrive Aristotele, è «il vivente che ha la parola» (Aristotele, Politica 1,2 (1253a, 10), è l’essere che parla. L’uomo è il solo animale parlante. La parola è la realtà umana e personale come si fa strada nell’espressione. La parola è anzitutto corporea: parliamo con le corde vocali, ma anche grazie a certe strutture cerebrali, con l’aiuto dei polmoni, della lingua, dell’intera bocca, della laringe e dell’apparato uditivo. Possiamo dire che la parola è il nostro corpo in quanto si esprime. I primati (gli scimpanzé, per esempio, o gli orangutàn), possiedono tutte le componenti fisiche, ma arrivano solo a emettere suoni, non la paro
La parola poi non ha puramente una funzione organica, ma ha una valenza intellettuale e spirituale, affettiva ed emotiva. Di più, la facoltà di parola è universalmente umana, quale che sia la lingua specifica in cui uno si esprime.
La parola è originaria nell’uomo. La parola è prima, la comunicazione è seconda. In questo senso è troppo riduttivo dire che la parola è strumento per comunicare. La parola è fine, la comunicazione è mezzo, non il contrario. Anche gli animali comunicano, e spesso in maniere raffinate, ma solo l’uomo parla. La parola non è semplicemente una tecnica, né un puro contenitore: è la facoltà che l’uomo ha, in quanto persona, di avere un punto di vista proprio, che poi discute con gli altri e con se stesso. La parola è l’insieme di ciò che abbiamo da dire al mondo, del mondo e a noi stessi e di noi stessi. Essa è a monte di tutti gli strumenti linguistici che concretamente usiamo per parlare. Certo, i mezzi incidono sulle finalità e un conto è parlare nella propria lingua madre e altro conto è parlare una lingua straniera. Il filosofo francese Jacques Derrida scomparso nel 2004 ha mostrato che l’essere strappati alla propria lingua madre è una delle prime violenze che subisce chi oggi deve emigrare dai propri paesi fuggendo guerre e miseria. Insomma, la parola, sostiene un altro filosofo francese filosofo scomparso nel 2000, Georges Gusdorf: «è ciò che fa di noi degli esseri umani» (La parole, Paris 1952). Per l’uomo venire al mondo è accedere alla parola, prendere la parola. Con essa l’uomo si situa in rapporto al reale e ne esercita un dominio, ne prende possesso. Tra sé e il mondo l’uomo interpone la rete delle parole e così egli domina il mondo, lo conosce, lo elabora, lo significa.
Il racconto biblico della creazione mediante la parola (cf. Gen 1) dice che la parola mette ordine nel mondo: essa stabilisce confini, pone limiti, assegna un posto, conferisce compiti, dà forma. La parola creatrice del libro della Genesi è luogo di apparizione dello spazio. Il mondo viene all’essere ed esiste perché è parlato. Jacques Lacan, uno dei maggiori psicanalisti francesi, ha formulato il neologismo “parlessere”, per indicare l’essere umano, a significare che non è anzitutto la comunicazione, ma la parola, che caratterizza l’uomo. La parola è il luogo della nostra umanità singolare, ancorata com’è nella nostra carne, nella nostra condizione sociale, nella nostra sessualità, nella nostra storia personale e nella nostra biografia. La parola esprime la nostra coscienza e ci dà coscienza. Essa ci situa davanti agli altri. Insomma, la parola è l’esperienza umana come apertura, è una sorta di trascendenza nell’immanenza: ciò che manca al comportamento animale è proprio questa breccia che apre un’infinità di prospettive possibili sull’essere. Non a caso in tante culture e mitologie la parola ha un’origine sacra. «In principio era la parola», recita l’incipit del quarto vangelo (Gv 1,1). Nella tradizione biblica la parola fa parte dell’immagine di Dio che l’uomo deve realizzare mediante il lavoro della somiglianza: «Dio disse: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza” … E Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creo»(Gen 1,26-27).
La dialettica fra “immagine” (tzelem) e “somiglianza” (demùt) è quella del dono e della responsabilità. E poiché si può affermare che è l’umano l’immagine divina deposta come dono nell’uomo e che questi ha la responsabilità di nutrire, coltivare, perseguire e realizzare, ecco che l’uomo ha come proprio compito di umanizzazione la parola: imparare a parlare, fare del parlare un’arte, e un’arte che possa incontrare quel giudizio positivo etico-estetico (buono-bello) che il Dio creatore rivolge alle sue creature al termine di ogni giornata creazionale: «Dio vide, ed ecco era cosa buona-bella (tob)» (Gen 1,10.12.18.26…)
Dunque, la parola è la realtà umana che si manifesta nell’espressione, è il prezioso strumento che ci lega a noi stessi (perché non smettiamo mai di parlare a noi stessi) e agli altri: essa è al cuore di tutte le relazioni sociali e politiche. Scrive, esagerando un pò, Michel Eyquem de Montaigne. «Noi siamo uomini e legati gli uni agli altri solo per mezzo della parola» (Saggi, Milano 2012, p. 57). Prendere coscienza dello statuto della parola e della responsabilità che essa richiede rientra nel cammino di umanizzazione che è il compito di ogni persona. Compito che comprende anche la lotta per uscire dalla volgarità e dalla superficialità, dalla banalità e dalla manipolazione della parola. Infatti, solo un uso appropriato della parola rende intelligibile il mondo e vivibili le relazioni umane, interpersonali, sociali e politiche.
Aristotele, in un celebre passaggio della Politica, parla dell’uomo come animale politico e come animale che ha la parola: parola e politica sono strettamente interrelate. «L’uomo è animale politico, socievole più di ogni ape e di ogni altro animale che viva in greggi. Infatti, secondo quanto sosteniamo, la natura non fa nulla invano e l’uomo è l’unico animale che abbia la parola: la voce è semplice segno del piacere e del dolore. Invece la parola serve a indicare l’utile e il dannoso e perciò anche il giusto e l’ingiusto e questo è proprio dell’uomo rispetto agli altri animali» (I,2 (1253a,8-17). Che la parola serva per significare il giusto e l’ingiusto, il bene e il male, come dice Aristotele, o per manifestare l’unicità della persona umana, come sostiene Hannah Arendt, filosofa e storica ebrea di origine tedesca, svolge un ruolo fondamentale nell’edificazione della polis: «Ogni volta che è in gioco il linguaggio, la situazione diviene politica per definizione, perché è il linguaggio che fa dell’uomo un essere politico» (Vita Activa. La condizione umana Milano 2003, p. 3).
Dunque, la parola è al cuore del processo di soggettivazione, di individuazione, della capacità di dire “io”, ma è anche al cuore di ogni processo di socializzazione, della capacità umana di esprimersi al “noi”.
Qui si pone la constatazione del degrado della parola nel panorama politico attuale. Certamente nel panorama italiano, ma non solo. Denunciando la degenerazione della parola nello spazio politico denunciamo la strategia di delegittimazione della parola che vi sottostà e che batte vie svariate, ma convergenti nell’opera di destabilizzazione del tessuto connettivo stesso di una società democratica. Ogni tanto sui quotidiani qualche voce esprime l’indignazione di fronte allo strame che vien fatto della parola nell’arena pubblica, ma occorrerebbe una riflessione molto più profonda e radicale.
Anche perché il problema, che oggi avvertiamo con tanta acutezza e drammaticità, accompagna da sempre la vicenda politica. Nel I sec. a.C., Sallustio poteva far dire a Catone: «Già da tempo abbiamo perduto il significato vero delle parole: perché dilapidare i beni altrui si chiama generosità, l’audacia nei misfatti fortezza, e perciò la repubblica è allo stremo» (La congiura di Catilina 52,11).
La democrazia vive di parole scambiate, di dialogo, di confronto di opinioni, di concertazione, di parole che stringono alleanze, di dibattiti, di parole scelte e condivise che diventano leggi, regole, norme, dunque la parola democratica è lo strumento che elabora spazi sostitutivi della violenza rendendo possibile la convivenza civile e creando possibilità di pacificazione di conflitti. La democrazia viene corrosa anzitutto con la corruzione delle parole. Scrive in modo sublime M. de Montaigne: «Poiché i nostri rapporti si regolano per la sola via della parola, colui che la falsa tradisce la pubblica società. È il solo strumento per mezzo del quale si comunicano le nostre volontà e i nostri pensieri; è l’interprete della nostra anima: se ci viene a mancare, non abbiamo più nessun legame, non ci conosciamo più tra noi. Se ci inganna, distrugge ogni nostro scambio e dissolve tutti i vincoli del nostro ordinamento» (Saggi, p. 1237).
Quando nello spazio pubblico e da parte di chi ha responsabilità della cosa pubblica, e poi dalla stampa e dai mezzi di informazione, la parola è svilita, abusata, manipolata, distorta, utilizzata come arma, allora viene destabilizzato il terreno di intesa democratica. Non a caso, ogni volontà dittatoriale inizia con l’uccisione della parola. Ma se la dittatura schiaccia la parola alla sua fonte distruggendola in radice, la modernità la fa proliferare in maniera incontrollata, la svuota dall’interno, la inflaziona fino a banalizzarla e a suscitare indifferenza per essa. Privata la parola del suo potere, sorge la tentazione di sostituirla con l’affidamento alla parola del potere, alla parola del capo. Dove non è più importante la parola e il suo contenuto ma il capo che pronuncia quel che vuole (cf. Ph. Breton, Elogio alla parola. Il potere della parola contro la parola del potere, Milano 2004).
Esdra Pound, poeta, saggista e traduttore statunitense, dice che la difesa della democrazia è anzitutto difesa della parola perché «con la falsificazione della parola ogni altra cosa viene tradita» e, soprattutto, viene minata in radice la fiducia. «Quando la lingua si corrompe, la gente perde fiducia in quello che sente, e questo genera violenza», ha scritto il poeta Wystan Hugh Audent. La fiducia è legata all’uso della parola: se la parola mente e manipola, nascono confusione, smarrimento, sfiducia. Si rischia di scoraggiarsi, di dire “non ne vale la pena”, “non c’è niente da fare”. L’esito, a livello psicologico e sociale è il senso di impotenza, e a livello politico, l’affidarsi all’“uomo forte”.
Lo scempio della parola passa attraverso molte vie. Per esempio, la riduzione della parola a scherzo o a barzelletta. Il libro biblico dei Proverbi dice: «Come un pazzo che scaglia tizzoni e frecce di morte così è colui che inganna il suo prossimo e poi dice: “Ma si è trattato di uno scherzo”» (26,28-29). L’irresponsabilità politica rende la parola sempre ritrattabile. Ha scritto il saggista e filosofo italiano Mario Perniola: «Il capo di un partito fece un’affermazione pubblica, provocatoria e aggressiva nei confronti di un gruppo socio-professionale, cosa che suscitò in molti scandalo e indignazione. Dopo poche ore ritornò sull’argomento ritrattando parzialmente la propria dichiarazione. Il giorno dopo sostenne che la frase incriminata era scherzosa e del tutto priva di intenzioni offensive. In serata affermò che essa conteneva in ogni caso una parte di verità. Il terzo giorno disse che era stato interpretato male. Nel pomeriggio aggiunse infine che si era fatto soltanto portavoce di un’opinione molto diffusa, che non condivideva. Tuttavia fu per tre giorni alla ribalta» (Contro la comunicazione, Torino 2004, 4-5).
E ancora, lo storpiamento delle parole per cui la laicità diviene laicismo, la giustizia, giustizialismo, il rigore etico, moralismo, la bontà, buonismo, il bene diviene male e il male diviene bene. Oppure, la mistificazione e la falsificazione delle parole per cui l’azione di sganciare bombe o lanciare missili su un paese straniero non si chiama bombardamento, ma missione di pace o intervento umanitario. Tutto questo risponde a una strategia globale di delegittimazione della parola e della verità. La parola viene svuotata di consistenza. Il culmine lo si raggiunge con la menzogna, ovvero con le tante forme del mentire: occultamento della verità, distorsione del significato degli eventi, presentazione come veri difatti non veri. Sappiamo ora tutti che erano false le notizie che affermavano che l’Iraq era in possesso di armi di distruzione di massa. Tuttavia, nel perverso sistema delle comunicazioni una menzogna ripetuta e ribadita diventa verità, o meglio, ha il potere di intervenire sulla realtà. Fino a scatenare una guerra con un ampio consenso.
Il problema riguarda in primo luogo le autorità politiche, ma riveste anche una dimensione preistituzionale: esiste una mentalità diffusa, un modo di parlare, e quindi di pensare (o di non pensare) e di agire che, facendo strame della parola, offende le persone e mina la convivenza civile. Ralf Dahrendorf, filosofo, sociologo e politico tedesco, ha scritto: «L’ora del legista e l’ora del politico servono a poco senza l’ora del cittadino». Quell’ “asceta della vita” che è l’uomo è chiamato ad assumere un ascesi della parola per compiere il suo lavoro di umanizzazione. Scrive il filosofo tedesco Max Scheler: «L’uomo è “colui che può dire di no”, “l’asceta della vita”, l’eterno protestante nei confronti della semplice realtà» (Le situation de l’bomme dare la monde, Paris 1951, p. 72).
Ora, in una situazione in cui la parola è compromessa, la verità è beffeggiata, la manipolazione delle parole, che mira a manipolare le coscienze e a ottenere potere su di esse, “l’uomo di parola”, colui che è veridico, che osa una parola limpida, rigorosa e si dispone a pagarne il prezzo, si troverà emarginato. L’aveva ben capito C.L. de Montesquieu nel suo Elogio della sincerità: «Un uomo semplice che ha solo la verità da dire, è visto come il perturbatore del piacere pubblico. Lo si fugge perché non piace affatto; si rifugge dalla verità che egli proclama, perché è amara, dalla sincerità che egli professa perché dà solo frutti aspri, e la si teme perché è umiliante, perché ferisce l’orgoglio, passione prediletta, perché è un pittore vendico, che ci mostra deformi come in realtà siamo» (Milano 2007, p. 25).
Il compito politico-educativo di Socrate analogo a quello di un fastidioso tafano, li compito etico-religioso dei profeti biblici che procurava loro ostilità nel seno dello stesso popolo d’Israele, la “franchezza/libertà/audacia” (parrhesia) di Gesù di Nazaret di fronte ad autorità religiose e politiche, dicono il prezzo alto della parola veritiera. Dicono che, a fronte di persone che uccidono le parole, possono esistere uomini che si lasciano uccidere per difendere le parole, possono esistere dei martiri della parola. E sia Socrate che Gesù non hanno scritto nulla, ma la loro parola ha mostrato una potenza e una forza straordinarie.
Ogni parola ha una dimensione espressiva (il locutore esprime se stesso, le sue idee, si rivolge ad altri, al destinatario del suo parlare. Questo significa che ogni atto di parola ha valenza etica e richiede una responsabilità. Elementare responsabilità della parola è questa, così espressa da un altro filosofo tedesco, Hans-Georg Gadamer: «La parola pronunciata non è più mia, ma è abbandonata all’udire. Appartiene alla più grande responsabilità del parlare il fatto che la parola pronunciata non possa più essere richiamata indietro. La parola pronunciata appartiene a chi la ode» (La responsabilità del pensare. Saggi ermeneutici, Milano 2002, pp. 37-58).
L’etica della parola implica il rigore della verità. Sia nel senso della sincerità, sia nel senso della franchezza. L’etica della parola è direttamente rispetto e riconoscimento della persona umana e rende colui che parla l’essere che risponde delle sue parole. Essa non demonizza l’avversario, non soffoca le sue parole gridando più forte di lui, non nega di aver detto ciò che si è appena detto, né getta sugli altri la colpa del fraintendimento, ma esige che l’interlocutore sia considerato con rispetto, che la parola pronunciata non possa essere smentita, negata, ritrattata, banalizzata, e infine che la parola stessa sia custodita nella sua valenza di espressione umana per eccellenza, dunque espressiva di colui che parla. L’etica del dialogo e del confronto dice che l’opinione dell’altro, l’opinione diversa dalla mia è per me importante tanto quanto la mia. Quale verità, dunque? Quella costruita con il faticoso lavoro del dialogo e dello scambio, del confronto e della discussione. Ovvero la verità lontana dall’assolutezza e prossima alla mitezza. E la mitezza, come il dialogo, è un metodo più che un contenuto o una virtù. È il metodo di cercare insieme la verità e di edificare insieme un senso. Metodo che accorda importanza essenziale all’interlocutore come soggetto e non lo considera mero terminale della propria opera di convinzione o di propaganda. È un cammino costruito insieme con le parole, è sinodale, e non tende alla sopraffazione dell’altro, ma all’edificazione comune della verità. Il metodo del dialogo socratico ha ancora molto da insegnare, a credenti e non credenti, soprattutto quanto al rispetto per l’interlocutore. Polemizzando con gli eristi e con tutti coloro che discutevano solo per far prevalere la propria opinione, Socrate dice a Menone: «Quando due amici, come tu ed io, hanno voglia di discutere, occorre che lo facciano in maniera meno aspra e più dialettica. Mi pare che “più dialettica” significhi che non solo si danno risposte vere, ma che si fonda la propria risposta su ciò che l’interlocutore riconosce di sapere egli stesso» (75c-d).
L’etica della parola implica tre livelli: a. rispetto per l’altro a cui si parla; b. rispetto per la parola che viene pronunciata; c. rispetto per se stessi cioè, per il parlante: dire è sempre dirsi. Questo rispetto manca al menzognero. Scrive Kant: «La comunicazione dei propri pensieri a un altro con parole che indicano (intenzionalmente) il contrario di ciò che pensa chi sta parlando rappresenta uno scopo esattamente opposto alla finalità naturale della sua facoltà di comunicare i propri pensieri e, perciò, una rinunzia alla propria personalità, così che il mentitore risulta essere solo un’apparenza d’uomo, non un vero uomo» (Sulla menzogna, in I. Kant, B. Constant, La verità e la menzogna. Dialogo sulla fondazione morale della politica, Milano 1996. pp. 307-308).
Custodire lo statuto umano della parola esige il rigore nella comunicazione e la critica dei meccanismi di manipolazione della parola che sono alla base di tanta parte della comunicazione oggi. Mai come oggi, infatti, il potere politico necessita della comunicazione per influenzare la volontà dei cittadini, per “plasmare la mente umana”, come afferma il sociologo Manuel Castella nel suo saggio su Comunicazione e potere, Milano, 2009). La comunicazione cerca e crea il consenso e oggi il politico vincente è colui che meglio domina la scena, il teatro dello show politico. Il politico vincente è il seduttore. Euripide ha descritto il demagogo come un grande seduttore: «Il demagogo è capace di adattarsi alle circostanze più diverse e sconcertanti, di assumere i volti delle diverse categorie sociali e dei tipi umani presenti nella polis, di inventare le mille forme che renderanno efficace la sua azione nelle situazioni più svariate» (citato in Ph. Breton, Elogio della parola, p. 85).
Ed è il giocoliere delle parole, l’illusionista (parola che rinvia a ludus, “gioco”) della parola. Colui che fa della parola uno strumento potere. Colui che si serve delle parole per usare le persone. La parola come impegno è una delle forme più esigenti e più antiche della parola: il giuramento, il patto, la promessa. Mantenere la parola data è il segno della fedeltà alla promessa, è segno di responsabilità etica. Il ritratto weberiano del politico come «eroe come colui che riesce a raggiungere il possibile perché tenta e ritenta sempre l’impossibile» (M. Weber, Il lavoro intellettuale come professione, Torino 1966, p. 122) deve comprendere l’aspetto della responsabilità della parola e del coraggio della parrhesia. Quella dote che l’antica democrazia ateniese ci ha lasciato in eredità ma che oggi si fatica a trovare nelle personalità politiche. Quella dote che Michel Foucault, filosofo, sociologo, storico, accademico e saggista francese, ha magistralmente descritto in questi termini: «La parrhesia è una specie di attività verbale in cui li parlante ha uno specifico rapporto con la verità attraverso la franchezza, una certa relazione con la propria vita attraverso il pericolo, un certo tipo di relazione con se stesso e con gli altri attraverso la critica (autocritica o critica di altre persone), e uno specifico rapporto con la legge morale attraverso la libertà e il dovere. Più precisamente, la parrhesia è un’attività verbale in cui un parlante esprime la propria relazione personale con la verità, e rischia la propria vita perché riconosce che dire la verità è un dovere per aiutare altre persone (o se stesso) a vivere meglio. Nella parrhesia il parlante fa uso della sua libertà, e sceglie il parlar franco invece della persuasione, la verità invece della falsità o del silenzio, il rischio di morire invece della vita e della sicurezza, la critica invece dell’adulazione, e il dovere morale invece del proprio tornaconto o dell’apatia morale» (Discorso e verità nella Grecia antica, Roma 1996, pp. 9-10)
In particolare, poiché la parola instaura relazioni ed è apertura verso l’alterità, essa deve sempre accompagnarsi all’attitudine fondamentale dell’ascolto. Del resto, ricorda E. Lèvinas, filosofo francese: «Parlare e ascoltare sono una sola cosa, non si alternano» (Difficile liberté. Paris 1976, p. 20). L’ascolto è atto intenzionale, mosso da una decisione e da una volontà, esige tempo, pazienza, profonda interiorità, si configura come ospitalità e accoglienza, accetta di rimuovere i pregiudizi sull’altro e di vederlo con occhi nuovi, accoglie l’altro così come questi si definisce e si comprende ed esce dalla pigrizia delle etichette e dalla violenza delle precomprensioni. Questa parola, che è al contempo anche ascolto, e dunque silenzio per lasciare spazio all’altro, è la parola comunicativa, che edifica relazioni, che accetta di inserirsi nella dinamica dialogica propria della democrazia.
In particolare, occorre porre l’attenzione su un tipo di parola che mi pare particolarmente in crisi: la promessa. Promettere e mantenere le promesse è ciò che consente di creare un clima di fiducia tra generazioni, tra padri e figli, tra responsabili politici e cittadini. C’è un tipo di discorso politico che è particolarmente ricco di promesse ma spesso menzognere, irrealizzabili, false: il discorso in campagna elettorale. Un antico manualetto per la campagna elettorale, il Commentariolum petitionis che Quinto Tullio Cicerone indirizzò al più famoso fratello Marco Tullio che sì accingeva ad affrontare le elezioni a console nella Roma del 64 a.C., esprime con cinismo la strategia comunicativa che deve guidare il candidato: «La lusinga, anche se è uno squallido difetto nelle altre circostanze della vita, tuttavia è necessaria in una campagna elettorale. Infatti essa, quando con l’adulazione rende qualcuno più amico, non è tanto da biasimare, ma è necessaria al candidato, il cui aspetto, il cui volto e il cui discorso si devono cambiare e adattare secondo il sentire e la volontà di chiunque egli incontri» (11).
La dimensione etica e impegnativa della promessa è evidente: con la parola della promessa colui che promette si obbliga e suscita nel destinatario della promessa l’attesa del suo adempimento. Chi promette si sottomette e obbedisce alla parola che pronuncia, ma si lega anche a un’altra persona, e impegna il proprio tempo, il futuro, in vista di dare realizzazione alla parola. Pro-mittere è perciò “porre davanti”, è “mandare avanti”. La parola della promessa agisce sul futuro e crea speranza. La promessa crea futuro, dà forma e direzione al tempo, dà senso. Spesso è una promessa che dà forma alla nostra vita. La parola della promessa è più che mai una parola che sollecita la responsabilità umana. F. W. Nietzsche parla spesso della promessa come della memoria della volontà. La promessa, come memoria della volontà, tiene insieme passato (memoria) e futuro (volontà) nel presente dell’atto stesso di promettere. Per F. W. Nietzsche, ripreso su questo punto da Hannah Arendt, «la memoria della volontà» Vita activa, p. 181), ovvero la facoltà di promettere, è la vera distinzione che separa la vita umana da quella animale. Chi è l’uomo? E l’essere capace di promettere. Scrive Nietzsche che promettere è un «continuare a volere quel che si è voluto una volta, una vera e propria memoria della volontà: cosicché tra l’originario “io voglio”, “io farò” e il caratteristico scaricarsi della volontà, il suo atto, può essere agevolmente interposto un mondo di nuove cose sconosciute, di circostanze e persino di atti volitivi, senza che questa lunga catena del volere abbia a incrinarsi. Ma che cosa non presuppone tutto ciò! Quanto deve aver prima imparato, l’uomo, per disporre anticipatamente del futuro in tal modo, quanto deve aver prima imparato a separare l’accadimento necessario da quello casuale, a pensare secondo causalità, a vedere e ad anticipare il lontano come presente, a saper stabilire con sicurezza e calcolare e valutare in generale quel che è scopo e quel che è mezzo in tal senso; quanto, a questo fine, deve prima essere divenuto l’uomo stesso, calcolabile, regolare, necessario, facendo altresì di se stesso la sua propria rappresentazione, per potere alla fine rispondere di sé come avvenire, allo stesso modo di uno che fa promessa» (Genealogia della morale 2,1 in Al di là del bene e del male, Milano 1986, p. 256)).
Il promettere rappresenta una componente fondamentale dei rapporti interpersonali. Ma vale anche per i rapporti politici: la costruzione della polis occidentale si fonda sulla facoltà di fare e di mantenere promesse. La stabilità della polis, della convivenza sociale si fonda sul rispetto delle regole, degli accordi, dei patti, delle alleanze (pacta servanda): c’è un potere di stabilizzazione inerente la promessa. La promessa, a livello politico, ha la valenza di scongiurare l’imprevedibilità da un lato del cuore umano, l’oscurità del cuore di ogni singolo soggetto, la fluidità dell’uomo che non può garantire oggi chi sarà domani (con la promessa io mi costringo liberamente e dunque offro una garanzia agli altri), dall’altro, l’impossibilità di prevedere le conseguenze di un atto su una comunità, su altri che hanno altrettanto potere quanto me di agire e interagire. La promessa afferma che non siamo unici padroni né di noi stessi, né degli altri, né degli eventi.
La promessa non è arrogante, è volontà umile: nel promettere io so di affrontare l’incognito, in me e negli altri. E mi dispongo a pagarne il prezzo. La funzione della facoltà di promettere è proprio quella di dominare questa duplice oscurità delle faccende umane ed è la sola alternativa a una padronanza affidata al dominio di sé o al dominio sugli altri. La promessa è un dominio mite, a differenza dei domini in cui io mi impongo agli altri o mi disumanizzo nel volontarismo violento, nel lasciarmi guidare da un Super-io. Con la promessa si gettano basi di prevedibilità e di fiducia in un contesto in cui l’imprevedibilità rischia di farla da padrona e tenere le persone in situazione di insicurezza paralizzante. Con la promessa io mi faccio rispondente delle parole solennemente pronunciate promettendo. Ne rispondo. E così manifesto la mia umanità che si esprime essenzialmente nella parola. Non a caso Nietzsche, in Genealogia della morale, continua il suo discorso sulla promessa affermando che la storia dell’uomo che ha imparato a rispondere di sé come avvenire, a fare promesse, a dare durata alla volontà fino a costruire storie, legami, appartenenze, «è la lunga storia dell’origine della responsabilità» (Ib. 2,2).
Certo, promettere è delicato. La parola della promessa ha dei limiti. Non si può promettere qualsiasi cosa (promettere “mari e monti”, promettere “la luna”), così come non si può volere qualsiasi cosa (non posso volere l’impossibile). La volontà ha una misura. La dismisura nella promessa è ingannevole, diventa menzogna. Promette in modo autentico chi è cosciente della propria fragilità: con la promessa egli quasi mette un argine alla propria fragilità prefigurando il futuro con la parola impegnativa, ponendo se stesso come caparra del compimento della promessa. Promettere è sempre promettersi, è rispondere di sé come futuro. Questo è particolarmente problematico nel contesto culturale sviluppatosi a partire dal dopoguerra in cui la categoria della definitività è venuta progressivamente scomparendo dall’orizzonte. Nel promettere “io voglio davanti agli altri”, davanti a testimoni: istituisco un’obbligazione verso me stesso e un diritto nei confronti di coloro verso i quali mi impegno. Ecco la potenza e l’estrema delicatezza della promessa, anche nello spazio politico. In essa è implicata la responsabilità verso se stesso, verso gli altri e verso il futuro. E verso la parola pronunciata al cui servizio colui che promette si pone.