Letture festive – 115. Sorprendente – 33a domenica del Tempo ordinario – Anno A

Briciole dalla tavola. Vangelo per senza Dio

di Alberto Ganzerli

33a domenica del Tempo ordinario – Anno A – 19 novembre 2023
Dal libro dei Proverbi – Prv 31,10-13.19-20.30-31
Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Tessalonicési – 1Ts 5,1-6
Dal Vangelo secondo Matteo – Mt 25,14-30


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letture festive 115

Sorprendente può essere ciò che risulta gradito pur essendo inatteso, ma anche ciò che delude mentre ci si sarebbe aspettati altro. La domanda retorica che apre questo testo del libro dei Proverbi presuppone come risposta che sia molto difficile trovare una donna forte. Se si pensa alla cultura e mentalità patriarcale e maschilista nella quale si sono formati per lo più gli autori biblici non è per nulla sorprendente che anche quello che si presenta come un elogio della donna – anzi della moglie – riveli in realtà la propria provenienza da questa medesima cultura. Se letta oggi in modo critico e da una prospettiva femminista, questa pagina veterotestamentaria rivela a con Dio e a senza Dio tutti i propri limiti. La parzialità e i pregiudizi di uno sguardo maschile – e anzi patriarcale e maschilista – potrebbero essere colti in quasi tutte le affermazioni: che la donna valga più delle perle (e non meno) dovrebbe essere qualcosa che non ha bisogno di essere esplicitato; l’elenco delle sue virtù non dovrebbe essere così strettamente legato all’interesse del marito, del quale si dice che può confidare in lei, senza che gli manchi il profitto, ricevendone felicità e non dispiacere, anche grazie all’impegno di lei nel lavoro e nell’adempimento del dovere dell’elemosina ai poveri, azioni queste che meritano riconoscenza e lode pubblica. La stessa frase sulla illusorietà del fascino e sulla fugacità della bellezza femminile, alle quali sembra quasi che il marito debba – nel momento in cui vengono meno – cercare una sorta di compensazione, trovandola nella religiosità della moglie, rappresenta l’ulteriore testimonianza di una concezione maschilista. Ma l’aspetto più sorprendente – tristemente sorprendente – è la constatazione di come queste concezioni maschiliste e patriarcali, dentro e fuori dalla chiesa, tra con Dio e tra senza Dio, rimangano ancora oggi così presenti, radicate e attive, in forme alcune volte evidenti e grossolane, altre volte subdole e nascoste, ma non meno violente sul piano del linguaggio e dei comportamenti. Si tratta di forme che in certi casi sono persino inconsapevoli o involontarie, come ci ha insegnato a riconoscere criticamente, attraverso i suoi scritti, le sue parole e la sua testimonianza, Michela Murgia, donna forte, femminista e teologa.

Questo sorprendente testo di Paolo ai cristiani di Tessalonica è tutto giocato su una serie di contrapposizioni che arrivano al paradosso: appartenere al giorno e alla luce anziché alla notte e alle tenebre, ritenersi in una condizione di pace e sicurezza da contrapporre non solo a una rovina incombente ma anche alle doglie del parto, destinatari a cui Paolo scrive per comunicare che su un determinato tema non c’è bisogno di scrivere loro… ma soprattutto una venuta del “giorno del Signore” che viene presentata – anziché come un incontro atteso e desiderato – come un evento ambiguo e anzi apparentemente negativo, come un ladro che viene di notte per derubare di qualcosa. L’incertezza riguardo al futuro ci accomuna tutti – con Dio e senza Dio – e si tratta di un’incertezza che per lo più vorremmo evitare, dal momento che sul piano emotivo preferiamo tutti sperimentare quella che Paolo chiama “pace e sicurezza”. Per questo il sorprenderci del “giorno del Signore” come un ladro di notte è qualcosa che ci destabilizza per almeno due ragioni: l’imprevedibilità del momento, che produce in noi tensione e ansia, e lo sperimentare la sottrazione di qualcosa di nostro o addirittura la completa sottrazione a noi del nostro stesso essere. L’atteggiamento della vigilanza e dell’essere sobri è ciò che Paolo suggerisce per fronteggiare questa condizione potenzialmente angosciosa che rischia di estendersi all’intera durata dell’esistenza umana. Ma interpretare la vigilanza e la sobrietà come atteggiamento di difesa che cerca di tenere lontane in tutti i modi possibili la notte, il buio e la morte, è solo una delle possibili scelte che, come con Dio o come senza Dio, abbiamo a disposizione. Un’alternativa potrebbe essere il rinunciare a una ricerca troppo individualistica ed egoistica di “pace e sicurezza”, in un mondo e in un tempo dove troppi vengono privati di ogni pace e di ogni sicurezza. L’alternativa potrebbe essere quella di accettare ciò che di sorprendente il “giorno del Signore” comporta per ciascuno dei noi. L’antidoto all’angoscioso veleno che ci viene instillato dalla paura del buio, della notte, del venire derubati di qualcosa o di noi stessi, potrebbe consistere allora nell’arrenderci davanti a un “giorno del Signore” che ci sorprenda e persino ci sottragga qualcosa che riteniamo nostro. Ma si tratta di un’esperienza che a quel punto non dovrebbe più farci paura, in quanto esperienza attesa, accettata e accolta. Solo allora la difesa di una pace e di una sicurezza troppo individualistiche ed egoistiche potrebbe lasciare il posto all’esperienza delle doglie di un parto che, attraversando la notte e le tenebre, consenta a qualcosa di nuovo di vedere la luce.

Nel finale della parabola dei beni prima affidati e poi richiesti ai servi, Matteo sembra voler indurre nel suo lettore una duplice e opposta esperienza di ciò che risulta sorprendente, a seconda del personaggio con il quale il lettore, con Dio o senza Dio, sceglierà di immedesimarsi. Il lettore potrà, infatti, immedesimarsi con il servo eccessivamente timoroso che, consapevole delle pretese del padrone, per paura di perdere il patrimonio ricevuto lo ha sepolto e può così ora riconsegnarlo intatto al padrone ritornato. In questo caso il lettore troverà sorprendente e probabilmente ingiusto il rimprovero cui segue una così severa punizione da parte del padrone. Se invece il lettore si immedesimerà con il padrone, troverà sorprendente il comportamento del servo, che – pur nella scarsa o nulla capacità di far fruttare personalmente il patrimonio ricevuto e pur consapevole delle pretese del padrone – non è stato neppure in grado di affidare il patrimonio ad altri che lo facessero almeno minimamente fruttare. Già così la parabola si conferma, per con Dio e per senza Dio, un potente dispositivo di provocazione narrativa e letteraria che, mentre mostra al proprio lettore quanto possa essere diversa la percezione di ciò che è sorprendente, invita – se non addirittura costringe – questo medesimo lettore a scegliere dove collocarsi e che cosa di conseguenza ritenere sorprendente. Ma volendo cercare quale sia l’ulteriore elemento sorprendente che sta al centro della parabola lo si potrebbe trovare forse nell’invito a prendere atto che – per accedere a quella particolare realtà che nei vangeli viene chiamata “Regno di Dio” – rimanere fermi dove ci si trova per conservare intatto ciò che si ritiene di aver ottenuto è – se non impossibile – per lo meno controproducente. Su questo punto non è difficile evidenziare – nei sostenitori di un tradizionalismo conservatore, se non reazionario – come minimo delle inadeguatezze precisamente nel modo di intendere la fedeltà al “deposito della fede”, inadeguatezze in realtà non così sorprendenti se si pensa all’approccio dottrinale coltivato e imposto per quasi un cinquantennio in molte realtà ecclesiali cattoliche, dopo la conclusione del Concilio Vaticano II. La fedeltà che viene richiesta e apprezzata nei servi della parabola non è quella di chi volutamente cerca di evitare il rischio del cambiamento permanendo nella medesima condizione degli inizi, ma piuttosto quella di chi, senza rimanere fermo, sceglie di impegnarsi nella trasformazione richiesta. Solo così, infatti, il patrimonio ricevuto ha l’opportunità di rimanere utile e fecondo in una realtà in continuo movimento. E non si tratta qui di lanciarsi in un attivismo frenetico e fine a sé stesso, ma di un impegno ragionato, operoso e lungimirante. Come lettori odierni, con Dio o senza Dio, siamo invitati ad apprendere l’unica fedeltà apprezzata in questa parabola evangelica, quella dei servitori che – proprio per trasmettere il patrimonio affidato – scelgono di non restare nell’immobilità. Si tratta di una fedeltà che – impegnandosi nel poco per riuscire nel molto – osa dare credito alle straordinarie potenzialità di trasformazione che questo patrimonio possiede, potenzialità che chiedono di essere sperimentate con coraggio perché vi sia gioia da condividere con il maggior numero possibile di persone.