Letture festive – 116. Rimedi – 34a domenica del Tempo ordinario – Solennità di Gesù Cristo Re dell’Universo – Anno A

Briciole dalla tavola. Vangelo per senza Dio

di Alberto Ganzerli

34a domenica del Tempo ordinario – Solennità di Gesù Cristo Re dell’Universo – Anno A – 26 novembre 2023
Dal libro del profeta Ezechièle – Ez 34,11-12.15-17
Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi – 1Cor 15,20-26.28
Dal Vangelo secondo Matteo – Mt 25,31-46


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letture festive 116

Sono molte le situazioni della vita nelle quali – come con Dio o come senza Dio – cerchiamo e desideriamo rimedi di varia natura, ad esempio quando veniamo colpiti da malanni o danneggiati da qualcosa o da qualcuno, quando ci troviamo posti di fronte a difficoltà e a problemi complessi da risolvere. Il profeta Ezechiele si aspetta che sia il Signore Dio colui che si assume la responsabilità di trovare e offrire rimedi ai bisognosi ed esprime questa convinzione e questa promessa utilizzando l’immagine del pastore e del suo gregge. L’elenco delle azioni con le quali il pastore offre rimedi e si prende cura del gregge e delle singole pecore consente indirettamente di riconoscere le difficoltà e i bisogni di queste ultime: a un trovarsi disperse in luoghi diversi e in giorni di oscurità corrisponde il venire cercate, radunate e passate in rassegna affinché nessuna manchi all’appello; alla necessità di nutrimento e riposo corrisponde l’essere condotte a un pascolo dove potersi nutrire e riposare; al perdersi e allo smarrirsi corrisponde la ricerca fino al ritrovamento e all’accompagnamento nel luogo sicuro in cui potersi riunire al gregge; al trovarsi ferita o al giacere ammalata corrisponde il ricevere il soccorso e le cure necessarie; persino alle esigenze delle pecore più forti e con meno difficoltà corrisponde il ricevere attenzione e ciò di cui si dovesse aver bisogno. Offrire rimedi a chi ne ha necessità sembra essere, secondo Ezechiele, compito e responsabilità di Dio e tuttavia non solo i senza Dio ma anche i con Dio potrebbero domandarsi se non debbano essere comunque degli esseri umani a esprimere questa sollecitudine e tradurre questi rimedi in pratiche concrete a favore dei bisognosi. In molte culture e tradizioni, più o meno antiche, i re e i governanti erano ritenuti i primi a dover garantire tali rimedi su ampia scala per le loro popolazioni, quasi fossero luogotenenti in questo compito e in questa responsabilità della sollecitudine divina. Si tratta di un approccio che trova riscontro anche nelle tradizioni veterotestamentarie, ma in realtà queste ultime spesso invitano ciascun lettore delle pagine bibliche a mostrarsi sollecito verso i bisognosi, offrendo con generosità e in nome di Dio i rimedi possibili. Se poi, spingendoci ancora oltre, volessimo leggere il testo di Ezechiele ponendoci dal punto di vista di odierni senza Dio, nulla impedirebbe di sentire rivolto anche a noi l’invito a cercare rimedi alle necessità dei bisognosi, perché – anche nel caso non vi fosse un Dio che opera attraverso noi umani – non per questo i rimedi che siamo invitati a offrire generosamente sarebbero meno apprezzati, meno necessari o meno privi di valore e significato per coloro che ne ricevessero beneficio.

Rivolgendosi ai cristiani di Corinto, Paolo presenta – tra i diversi possibili rimedi ai tanti malanni della vita – quello che ritiene di aver individuato come il rimedio decisivo a ciò che per molti con Dio e senza Dio sembra essere il più grave dei malanni, cioè la morte. Il rimedio offerto da Paolo è la figura del Cristo risorto dai morti, inteso come primizia, cioè come il primo cui altri devono seguire. Paolo pone a confronto Adamo e Cristo e sembra voler evidenziare in queste due figure dei poli diametralmente opposti, appunto come se al primo, Adamo, si dovesse attribuire la condizione mortale mentre nel secondo, il Cristo risorto, si potesse trovare il rimedio ai danni causati dal primo. La vicenda del mondo descritta sinteticamente da Paolo in una visione dai toni apocalittici si sviluppa poi attraverso un progressivo prevalere sulle potenze avverse del Cristo vittorioso, che offre così il rimedio decisivo al problema della morte, fino alla sconfitta finale di questo nemico ultimo e al ritorno di tutto e di tutti sotto il dominio di Dio Padre. Si tratta, da parte di Paolo, di una concezione religiosa e culturale del mondo, della storia e del loro compimento ultimo, che appare molto diversa non solo da quella degli odierni senza Dio ma anche da quella degli odierni con Dio. Per questa ragione, riletture del testo che mettano tra parentesi gli aspetti apocalittici potrebbero renderlo più vicino ed eloquente anche per noi lettori odierni. Una rilettura potrebbe essere quella che coglie nel Cristo e in Adamo due figure emblematiche di come la percezione della propria mortalità umana possa essere vissuta, in questo mondo e in questo tempo, da con Dio e da senza Dio. Se la figura di Adamo rappresenta un’umanità incapace di sottrarsi al vivere l’esistenza come gravata dall’ipoteca della morte, la figura del Cristo risorto, come primo che altri devono seguire, indica come rimedio il superamento del pregiudizio che la morte sia più forte della vita. Si tratta di un rimedio che, attraverso le parole di Paolo sul Cristo risorto, agisce in noi, con Dio o senza Dio, quando coltiviamo la convinzione che la vita – pur nel suo limite e nel suo riconoscersi sottomessa a forze più grandi di lei – può scoprirsi e rivelarsi più forte della morte e di tante forze negative che minacciano la vita stessa. Tra queste forze negative – nel caso dei femminicidi – vi sono purtroppo anche quelle forme di violenza estrema che, in con Dio e in senza Dio, si alimentano di un maschilismo patriarcale possessivo e profondamente radicato. Quest’ultimo arriva a pervertire radicalmente il rapporto tra morte e vita e a vedere come unico possibile rimedio ai problemi della propria vita di maschio l’uccisione della donna di cui ci si ritiene proprietari.

Un mondo e un tempo popolati da affamati e assetati, da stranieri e da poveri privi di abiti per coprirsi, da malati e da carcerati – e cioè un mondo e un tempo come quelli descritti dall’evangelista Matteo – sono un mondo e un tempo in attesa di rimedi, che da parte di con Dio e di senza Dio vanno tentati anche se parziali e vanno riconosciuti nella loro urgenza e valenza evangelica. E proprio perché questi rimedi siano tentati con urgenza da parte dei suoi lettori, l’evangelista compone questa sua pagina straordinaria come un provocatorio dispositivo parabolico, travestito da visione apocalittica. Matteo parte, infatti, da quella che apparentemente si presenta sulle labbra di Gesù come la descrizione anticipata di una visione del giudizio finale. La descrizione attinge all’immaginario apocalittico dei due raggruppamenti opposti, con i benedetti e salvati a destra e i maledetti e condannati a sinistra. Si tratta di un immaginario che l’arte ha spesso e volentieri rappresentato, con il rischio di farci ritenere che si trattasse di una descrizione realistica di quanto avverrà alla fine del mondo. Se però torniamo al testo evangelico vediamo come i due dialoghi che Matteo introduce – tra il re e i benedetti e il re e i maledetti – trasformino la scena apocalittica di una futura fine del mondo in una provocazione parabolica rivolta, nel loro concreto presente, ai suoi lettori di ogni tempo, compresi noi odierni con Dio o senza Dio. Che cosa è più importante per te oggi – sembra chiederci il Gesù di Matteo – impegnarti nel trovare rimedi ai malanni dei bisognosi che incontri o chiederti come fare qualcosa di buono per il tuo sovrano divino? La trappola tesa dalla parabola può essere vista solo da chi riconosce che non vi è alternativa possibile tra le due opzioni proposte: che lo si sappia o no, che se ne sia consapevoli o che se ne sia inconsapevoli, si può fare qualcosa per il sovrano divino unicamente e precisamente nel trovare rimedi per i bisognosi. E questo perché i bisognosi, che attendono da noi rimedi, sono il sovrano divino e si identificano con lui. Ma l’ulteriore particolarità di questa pagina di Matteo – che da questo punto vista non ha eguali in tutti gli scritti neotestamentari – consiste nel collocare con Dio e senza Dio così vicini tra loro da renderli praticamente indistinguibili. Qui, infatti, la distinzione che l’evangelista pone arriva fino a una separazione e contrapposizione radicale, non però sulla base dell’essere con Dio o senza Dio, bensì sulla base dell’offrire o del non offrire rimedi ai bisognosi incontrati. In questo brano, cioè – benché si faccia riferimento diretto al riconoscimento di una figura divina, il Figlio dell’uomo che siede come re sul trono della sua gloria – la differenza tra con Dio e senza Dio diventa del tutto irrilevante. Se è così – e nel dubbio su chi sia maggiormente nel vero riguardo al tema Dio – ciò che in ogni caso può accomunare con Dio e senza Dio è la scelta di cercare rimedi per i bisognosi, una pratica che conserva tutto il suo significato e valore. In ogni caso, infatti, in loro è presente il Figlio dell’uomo e re evangelico, sia nel caso in cui (come pensano i con Dio) esista anche nella propria trascendenza, sia nel caso in cui (come pensano i senza Dio) così non sia. Ciò su cui tutti possono concordare è che – anche indipendentemente dalla sua esistenza al di fuori della pagina evangelica – il Figlio dell’uomo e re divino del testo di Matteo rappresenta già in sé un rimedio, dal momento che ha il notevole potere di attivare i propri lettori affinché si cerchino e si producano rimedi concreti per i bisognosi.