Letture festive – 107. Superiorità – 26a domenica del Tempo ordinario – Anno A

Briciole dalla tavola. Vangelo per senza Dio

di Alberto Ganzerli

26a domenica del Tempo ordinario – Anno A – 1 ottobre 2023
Dal libro del profeta Ezechièle – Ez 18,25-28
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Filippesi – Fil 2,1-11
Dal Vangelo secondo Matteo –  Mt 21,28-32


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letture festive 107

La prima superiorità apparentemente indiscutibile e che, invece, viene messa in discussione nel brano del profeta Ezechiele è quella di Dio stesso, nel momento in cui la voce del popolo sembra contestare la rettitudine del suo modo di agire. Ma la replica di Dio, di cui il profeta si fa portavoce, non invoca una propria indiscutibile superiorità per mettere a tacere i propri contestatori. Viene invece avviato, proprio da Dio, attraverso il suo porta-parola profetico, una sorta di dialogo fatto di domande e di argomentazioni proposte all’interlocutore, che invitano, da una parte, a indagare quale sia la condotta davvero retta e indicativa di una superiorità morale e, dall’altra, a mettere in discussione, sottoponendola a critica, la presunta iniziale superiorità del giusto rispetto al malvagio. Il tema etico al centro della controversia tra il Dio, qui rappresentato dal suo profeta, e il popolo è centrale, in realtà, tanto per i con Dio quanto per i senza Dio, dal momento che riguarda la possibilità che i comportamenti etici, buoni o cattivi, risultino o meno decisivi nel cambiare in modo anche radicale la propria condizione di superiorità e adeguatezza morale o – per converso – la propria condizione di inferiorità e colpevolezza morale, fino a determinare la vita o la morte di chi agisce. Il popolo sembra presupporre che il comportamento moralmente corretto che porta a ritenere giusta una determinata persona, con Dio o senza Dio, possa funzionare come una sorta di rendita di posizione che colloca questa stessa persona in una condizione di superiorità etica stabilmente acquisita e virtualmente non modificabile. Per contro, il medesimo popolo sembra presupporre che il comportamento moralmente scorretto che porta a ritenere ingiusta una determinata persona, con Dio o senza Dio, possa funzionare come una sorta di stigma che colloca questa stessa persona in una condizione di inferiorità etica stabilmente acquisita e virtualmente non modificabile. Si tratta, per certi versi, di una forma di radicalizzazione di ciò che la riflessione etica cristiana – ma prima ancora filosofica e in particolare aristotelica – suggerisce quando parla di virtù o di vizio come di una sorta di abitudine a un comportamento, rispettivamente, buono o cattivo, abitudine che predispone, facilita, e inclina a perseverare nel proprio orientamento a praticare, rispettivamente, il bene o il male. Ma questo fissare la virtù o il vizio, progressivamente consolidatisi, in una superiorità o inferiorità etica immutabile viene radicalmente contestato da parte del profeta che parla a nome di Dio, sulla base di una convinzione fondamentale: quella che il cambiamento del comportamento etico – verso il bene o verso il male – rimanga sempre possibile e possa modificare o persino rovesciare completamente – nel bene o nel male – il corso e persino il compimento finale di ogni esistenza umana, tanto per i con Dio quanto per i senza Dio.

Nel testo che Paolo indirizza ai cristiani di Filippi, il tema della superiorità viene presentato da tre prospettive diverse, successive e complementari. Il primo sguardo consiste in una descrizione, in chiave positiva, di come si caratterizzi, anzitutto sul piano umano, per con Dio e per senza Dio, una vera superiorità nell’ambito delle relazioni interpersonali e comunitarie: la superiorità che merita di essere ricercata è quella che si manifesta nelle esperienze della consolazione e del conforto, nei sentimenti dell’amore e della compassione, nella gioia prodotta da un comune sentire che coltiva l’unione e la concordia. La seconda prospettiva su quale sia la superiorità che dovrebbe caratterizzare i credenti in Cristo, con Dio o senza Dio, si ricava indirettamente e per contrasto dalle stesse richieste, divieti ed esortazioni che Paolo rivolge ai destinatari della lettera, i cui atteggiamenti e comportamenti da modificare sono evidentemente i seguenti: fare tutto per rivalità o vanagloria, considerare sé stessi superiori agli altri, mostrandosi in questo modo privi di umiltà, cercare solo l’interesse proprio e non anche quello degli altri. Si tratta di atteggiamenti e comportamenti che qui vengono espressamente criticati, benché alcuni li possano ritenere utili o addirittura necessari per aprire la strada al raggiungimento di una condizione di superiorità rispetto ad altri sul piano sociale, economico o anche ecclesiale. Ma vi è una terza prospettiva che Paolo offre, oltre che ai lettori suoi contemporanei, anche a noi suoi lettori odierni, con Dio o senza Dio, per introdurci al tipo di superiorità che andrebbe ricercata. Questa prospettiva si apre con un’esortazione: abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù. Si tratta, come noto, dell’introduzione al famoso – ma anche enigmatico – inno che celebra il percorso di discesa e risalita di Cristo Gesù. Questi, infatti, pur essendo nella privilegiata forma di Dio – così il testo greco – svuota sé stesso e lo fa attraverso l’assunzione di quella che, in modo appunto enigmatico, viene definita come una forma di servo simileagli uomini – anziché uguale agli uomini – e come una condizione nella quale dall’aspetto viene riconosciuto come uomo – anziché essere riconosciuto come realmente uomo. In ogni caso – quale che sia il tipo di condizione umana che l’inno intende riconoscere a Cristo Gesù – il modello di superiorità che intende proporre riguarda sentimenti di rinuncia ai privilegi posseduti, di auto-svuotamento e auto-umiliazione, di obbedienza fino a una morte – almeno apparentemente – non nobile ma ignobile. Si tratta di un modo di interpretare la superiorità che la svuota dall’interno, per sostituirla con qualcosa di molto diverso da ciò che con Dio e senza Dio comunemente intendono con questo termine.

Come si possa riconoscere la presunta superiorità tra persone e tra gruppi di persone è il tema sotteso a questo passo di Matteo, dove Gesù, in una sorta di parabola, parla anzitutto di due figli, messi a confronto nelle loro modalità di risposta a una richiesta del padre. Dalla domanda che Gesù rivolge ai suoi interlocutori al termine di questa parabola e dalla loro risposta prende spunto una sorta di confronto e giudizio da parte dello stesso Gesù su due gruppi: pubblicani e prostitute da una parte, capi dei sacerdoti e persone ritenute autorevoli dall’altra. Per cogliere il significato di queste superiorità apparenti o reali può essere utile, per con Dio e per senza Dio, prendere spunto dal modo in cui papa Francesco parla di superiorità, quando presenta in Evangelii Gaudium (dal numero 222 al numero 237) quattro principi, le cui polarità sono formulate appunto in termini di superiorità di un elemento sull’altro: il tempo è superiore allo spazio, l’unità prevale sul conflitto, la realtà è più importante dell’idea, il tutto è superiore alla parte. A partire da qui potremmo anzitutto notare come nel brano evangelico la realtà del comportamento da parte di ciascun figlio sia superiore all’idea riguardo al proprio comportamento e all’impegno che si intende prendere o non prendere, così come risulta da quanto ciascuno dei due figli dichiara di voler fare. Nell’intervallo, poi, tra la dichiarazione iniziale di ciascun figlio e il comportamento effettivo tenuto dall’uno e dall’altro, anche il tempo risulta decisivo e superiore allo spazio occupato nel presente, perché il tempo consente alla realtà di avviare un processo di maturazione verso il suo compimento, svelando ciò che prima si trovava ancora in uno stato potenziale e aperto a diverse possibili realizzazioni. Nella dinamica della parabola, il riconoscimento della superiorità del primo figlio da parte dei suoi interlocutori, offre a Gesù la possibilità di un attacco alla presunta superiorità etica e religiosa del loro gruppo (capi dei sacerdoti e persone “perbene”) rispetto al gruppo dei pubblicani e delle prostitute (peccatori e peccatrici per antonomasia). Ma l’obiettivo dell’evangelista qui non è tanto la sostituzione di una persona o di un gruppo che si ritiene superiore con un’altra persona o un altro gruppo. L’obiettivo della provocazione narrativa che la parabola ci offre sembra piuttosto essere quello di mettere radicalmente in discussione la categoria stessa di superiorità, in modo che – direbbe forse papa Francesco – l’unità comunitaria e fraterna prevalga sul conflitto tra persone e categorie, in modo che il tutto di una comunità – in sostanza priva di superiori – emerga come superiore alla parte, intesa come singole persone o singoli gruppi che si ritengono superiori agli altri. Con Dio e senza Dio, dentro e fuori le comunità ecclesiali, potrebbero trovare in questa pagina evangelica ispirazione per improntare il vissuto delle loro relazioni reciproche a un’autenticità più umile, ma anche più realistica e concretamente feconda.