Letture festive – 131. Contaminazioni – 6a domenica del Tempo ordinario – Anno B

Briciole dalla tavola. Vangelo per senza Dio

di Alberto Ganzerli

6a domenica del Tempo ordinario – Anno B – 11 febbraio 2024
Dal libro del Levìtico – Lv 13,1-2.45-46
Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi – 1Cor 10,31-11,1
Dal Vangelo secondo Marco – Mc 1,40-45


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letture festive 131

Le contaminazioni di ogni tipo rappresentano per molte culture e società con Dio o senza Dio, un tema delicato e spesso un problema da gestire, perché vengono viste – come recitano i dizionari – quali forme di contatto fisico o morale perturbatrici dell’equilibrio igienico o dei valori tradizionali o individuali. Questo sovrapporsi di aspetti igienici, sanitari, sociali, culturali ed etici – a cui si devono certamente aggiungere anche gli aspetti religiosi – si può notare anche nel testo del libro del Levitico che prescrive come gestire i casi di lebbra. Si tratta di una malattia antica ma che colpisce ancora oggi moltissime persone in particolare nei paesi poveri, una malattia purtroppo caricata di valenze simboliche che ne hanno amplificato gli effetti negativi: averla associata al peccato, quasi ne fosse la meritata punizione; aver stabilito l’esclusione degli ammalati dalla vita sociale; averne gestito la cura in luoghi segregati; averla collegata al concetto religioso di impurità. Lo stigma sociale e religioso di cui gli ammalati sono stati vittime, fin dalle pagine bibliche veterotestamentarie, ha caratterizzato – anche nel cristianesimo – un lungo periodo di pratiche discriminatorie, segregazioniste ed espulsive, culminate in epoca medievale con i pronunciamenti di due concili. Atteggiamenti e pratiche si sono modificate anche in ambito ecclesiale solo più recentemente, riconoscendo e valorizzando l’atteggiamento verso i lebbrosi del Gesù raccontato nei Vangeli e promuovendo perciò l’accoglienza, l’assistenza e la cura dei malati. Se si considera che – per lo meno oggi – la lebbra non è particolarmente contagiosa nei pazienti non trattati e non è affatto contagiosa una volta iniziato il trattamento, tutti questi aspetti di esclusione, discriminazione e segregazione, appaiono oggi a con Dio e a senza Dio particolarmente ingiusti e odiosi, oltre che in contrasto, appunto, con l’atteggiamento del Gesù presentato dai Vangeli. Ma ciò che il Levitico prevede nella gestione degli ammalati di lebbra, cioè nella gestione di una condizione di impurità che tiene lontani dal divino e con la quale non si deve entrare in contatto, per evitare una contaminazione che renderebbe a propria volta impuri, ebbene questo tipo di approccio e di procedura si può riconoscere anche in altre pratiche di discriminazione, segregazione ed esclusione rivolte a con Dio e a senza Dio, dentro e fuori la Chiesa, nel passato e nel presente. Si tratta in particolare di tre elementi che riguardano il modo nel quale alcuni gruppi o comunità, ecclesiali e non, gestiscono persone che per la loro condizione o il loro comportamento sono ritenute potenzialmente pericolose e dannose per gli altri componenti il gruppo o la comunità, potendo in qualche modo contaminarli. Primo elemento: il fatto che, per attivare procedure di esclusione nei confronti di una determinata persona basti il sospetto di qualcosa anziché una sua prova certa; secondo elemento: il fatto che la persona in questione debba essere in qualche modo pubblicamente individuabile e riconoscibile dai componenti della comunità come un individuo da tenere a distanza; terzo elemento: il fatto che l’imposizione di una condizione di isolamento e solitudine non abbia un termine temporale certo, essendo subordinata a un eventuale attestato cambiamento della condizione della persona.

Contesto e problematica che stanno dietro questo testo riguardano verosimilmente il dibattito – che sembra molto rilevante nelle comunità paoline – sull’eventuale contaminazione prodotta nei credenti cristiani dal nutrirsi di cibi o bevande provenienti da riti pagani o in qualche modo collegate a tali riti. Si tratta di una problematica che oggi potremmo forse assimilare a quelle riguardanti materie e questioni controverse che possono contrapporre, anche all’interno delle comunità cristiane, con Dio e senza Dio. Nelle prime comunità cristiane il problema richiamato da Paolo veniva vissuto probabilmente in modo molto diverso da chi proveniva dall’ebraismo e da chi invece proveniva dal paganesimo, soprattutto se si considera il significato e il valore delle regole alimentari e di purità all’interno dell’ebraismo. La compresenza di sensibilità diverse e potenzialmente conflittuali suggerisce a Paolo di intervenire, ma di farlo spostando il problema su un diverso piano. E quindi non si tratta più – per i cristiani – di capire se determinate regole e pratiche rituali siano ancora valide e vincolanti e se sia quindi necessario anche per loro rispettarle o meno. No, ciò che Paolo sottolinea in primo luogo è l’atteggiamento che deve stare alla base di qualunque pratica si scelga di seguire, un atteggiamento – il fare tutto per la gloria di Dio – che potremmo interpretare collegandolo all’invito, sempre di Paolo, a superare ogni eventuale interesse egoistico o di parte. In secondo luogo, Paolo invita a tenere un comportamento che non diventi motivo di scandalo, cioè di ostacolo, per Giudei o per i Greci o per la Chiesa di Dio. Da Paolo in poi, il tema della contaminazione e quello – per certi versi analogo – dello scandalo da evitare si sono intrecciati per tutta la storia della Chiesa in modi che ancora oggi impediscono di ipotizzare soluzioni troppo chiare o troppo semplici, richiedendo invece la fatica di discernimenti individuali e comunitari. Nella storia cristiana ed ecclesiale, infatti, la salvaguardia di una purità etica e di una sacralità religiosa ha tradizionalmente prevalso sui tentativi di contaminazione attraverso l’incontro e il confronto con il mondo profano, condannando questi tentativi anche quando avevano lo scopo di elaborare nuove forme praticabili di vissuti cristiani. Se il primo tema, caro soprattutto ai Giudei del tempo di Paolo – il tema di una purità etica e di una sacralità religiosa – oggi è caro probabilmente a molti con Dio del nostro tempo ecclesiale, il secondo tema, caro soprattutto ai Greci del tempo di Paolo – il tema dei tentativi di contaminazione attraverso l’incontro e il confronto con il mondo profano – oggi è caro probabilmente a molti senza Dio del nostro tempo ecclesiale. Così, se per molti con Dio possono essere scandalose, cioè di ostacolo nel cammino di fede, le contaminazioni, per molti senza Dio possono essere scandalose, cioè di ostacolo nel cammino di fede, le chiusure ecclesiali nei confronti di contaminazioni potenzialmente fruttuose. La via da cercare con coraggio e pazienza diventa allora – in comunità ecclesiali chiamate a vivere la comunione tra diversi – quella che consente di evitare lo scandalo della separazione più di quello della contaminazione, in comunità ecclesiali dove con Dio e senza Dio dovrebbero insieme potersi ritrovare.

Per rispondere alla supplica di purificazione e guarigione da parte di un lebbroso che viene a incontrarlo, il Gesù di Marco, mosso dalla compassione, imbocca immediatamente e con decisione la via di una contaminazione sul piano della fisicità corporea che risulta esplicita e pubblica. Gesù, infatti, tende la mano, tocca il lebbroso e gli rivolge parole – lo voglio, sii purificato – che spiegano il gesto inatteso, proibito e paradossale che Gesù compie. Si tratta di un brano nel quale forse, più che i con Dio, sono proprio i senza Dio quelli che maggiormente possono riconoscersi, coltivando la speranza di vedersi accolti e riammessi in comunità ecclesiali dalle quali forse erano stati esclusi o potevano pensare di essere stati esclusi. Se si considera poi il significato nel mondo giudaico dell’impurità e delle relative prescrizioni, si può notare come Gesù, volendo purificare il lebbroso impuro, si trovi a contrarre una impurità rituale, diventando egli stesso impuro. Si tratta – come spesso nei Vangeli – di un paradosso: Gesù tocca l’intoccabile lebbroso impuro, infrangendo così la prescrizione della Torah di evitare la contaminazione, perché Gesù vuole che il lebbroso sia purificato e guarito, attraverso un contatto umano. E così in realtà avviene. Le prescrizioni del Levitico in materia di gestione dei lebbrosi vengono superate da un gesto proibito associato a una parola che esprime con efficacia una volontà. Si tratta di una struttura che ricorda in qualche modo quella sacramentale della Chiesa: gesti e parole che convergono per comunicare in modo efficace una qualche forma di salvezza e di guarigione. Quello che invece sembra fallire miseramente è il tentativo del Gesù di Marco di recuperare almeno in parte l’osservanza delle prescrizioni religiose, attraverso il riconoscimento dell’avvenuta guarigione da parte del sacerdote al tempio e la relativa offerta. Il lebbroso, infatti, guarito grazie alla contaminazione operata dal gesto di Gesù, non solo non obbedisce all’invito dello stesso Gesù a recarsi al tempio, ma non obbedisce neppure alla richiesta che Gesù gli fa di non dire niente a nessuno. Come ai tempi dell’evangelista Marco, anche oggi provare a far rientrare nelle forme istituzionali e rituali coloro che – con Dio o senza Dio – hanno sperimentato salvezza grazie precisamente al superamento di queste forme e di questi rituali, sembra un’operazione difficile e fondamentalmente destinata al fallimento. Rimane, perciò, in noi lettori con Dio o senza Dio del Vangelo, il dubbio su come si debba interpretare la frase finale di Gesù che sembra invitare a compiere la purificazione rituale al tempio. Questa frase, infatti – se solo provassimo a immaginarla pronunciata con un tono e uno scopo ironici – finirebbe per suggerire l’esatto contrario, quasi che il Gesù di Marco in realtà intendesse dire: va pure al tempio e compi davanti ai suoi custodi gli adempimenti prescritti della legge, anche se, come hai potuto sperimentare, non è certo dall’evitare ogni contaminazione – ma, al contrario e precisamente, dal praticare la contaminazione – che possono derivare guarigione e salvezza!