Letture festive – 135. Grazia – 4a domenica di Quaresima – Anno B

Briciole dalla tavola. Vangelo per senza Dio

di Alberto Ganzerli

4a domenica di Quaresima – Anno B – 10 marzo 2024
Dal secondo libro delle Cronache – 2Cr 36,14-16.19-23
Dalla lettera di san Paolo apostolo agli Efesìni – Ef 2,4-10
Dal Vangelo secondo Giovanni – Gv 3,14-21


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letture festive 135

Grazia è parola che nel cristianesimo, soprattutto a partire dal suo utilizzo nelle lettere paoline, ha assunto un’importanza centrale nel modo di intendere la relazione tra Dio ed esseri umani e la condizione nella quale gli umani si possono trovare a vivere. E questo, ovviamente, con significati e in forme almeno parzialmente diverse nel caso dei con Dio e nel caso dei senza Dio. Nel leggere questo passo veterotestamentario del secondo libro delle Cronache potremmo essere tentati di utilizzare la parola grazia – nel suo significato di graziare o concedere la grazia – per indicare ciò che Dio compie a favore del proprio popolo deportato a Babilonia, servendosi di Ciro re di Persia come liberatore. Ma una lettura più attenta del testo sembra suggerire che Dio in questo caso non conceda la grazia, cioè una remissione o uno sconto di pena, ma si limiti a garantire la liberazione e il ritorno dopo che la pena inflitta è stata interamente scontata. Nell’interpretazione della storia proposta qui dall’autore veterotestamentario, Dio sembra manifestare eventualmente la propria grazia non alla fine ma all’inizio della vicenda storica, se si può intendere come grazia divina il comportamento che l’autore biblico descrive come il mandare premurosamente e incessantemente i suoi messaggeri ad ammonire il suo popolo, avendone compassione. Se la grazia divina è ciò che muove inizialmente l’atteggiamento e il comportamento di Dio, i passaggi successivi mettono in crisi questa iniziale attitudine divina, che viene radicalmente trasformata dal comportamento del popolo. Respingendo infatti questa offerta di grazia divina e gli inviti alla conversione, il popolo finisce per suscitare un’ira divina che produce distruzione, deportazione e l’esilio per settanta anni degli appartenenti al popolo eletto. Addirittura il versetto 17 – omesso nella proclamazione liturgica di questo brano – specifica che «il Signore fece salire contro di loro il re dei Caldei, che uccise di spada i loro uomini migliori nel santuario, senza pietà per i giovani, per le fanciulle, per i vecchi e i decrepiti. Il Signore consegnò ogni cosa nelle sue mani». Come possono con Dio e senza Dio che oggi leggono questa pagina ritenere adeguato o anche solo accettabile un comportamento di questo tipo e collegarlo alla grazia divina? Ciò cui assomiglia di più è la crudeltà vendicativa di un patriarca ambivalente che esercita il proprio potere con violenza sproporzionata e che condiziona la propria benevolenza all’obbedienza nei confronti di ciò che ordina, richiede o anche solo di ciò che esorta a fare. Si tratta di una di quelle narrazioni bibliche che richiedono a credenti con Dio o senza Dio uno sforzo notevole, tanto sul piano critico che su quello interpretativo e re-interpretativo, per poter continuare ad associare in qualche modo la grazia al divino o a ciò che il divino può rappresentare.

Questo passo della lettera agli Efesini conduce con Dio e senza Dio al centro della concezione paolina della grazia: una salvezza ricevuta gratuitamente che, attraverso l’amore, la bontà e la misericordia, fa uscire da una condizione di morte, esito delle colpe compiute, per resuscitare e rivivere orientati a quel punto di convergenza che trova la sua rappresentazione centrale nella figura di Cristo Gesù. Al centro di questo denso nucleo dell’insegnamento di Paolo si trova tuttavia un nucleo ancora più denso e incandescente: quello del radicale paradosso dell’essere salvati per grazia mediante la fede. Il paradosso consiste nel fatto che tanto la fede quanto la grazia sono entrambe necessarie e indispensabili per la salvezza ma – nello stesso tempo – entrambe sono gratuite, cioè possibili ma non date, non scontate né tantomeno imposte. La teologia ha cercato lungamente soluzioni a questo paradosso, senza probabilmente giungere mai a risultati pienamente convincenti. Anche perché uno dei problemi centrali rimane – in particolare per i con Dio – quello di una concezione del Tu divino del quale si predicano libertà e amore che però vengono associati a onnipotenza e onniscienza, elementi questi ultimi difficilmente separabili da un approccio in termini di dominio necessario e totalizzante nei confronti della realtà, del mondo e della storia, tanto quella su grande scala, quanto quella – al confronto minuscola – dei singoli umani. Da questo punto di vista i senza Dio possono avere meno difficoltà nell’affrontare il paradosso paolino di un essere salvati per grazia mediante la fede. Partendo dal basso, infatti, la grazia può essere riconosciuta come proveniente da innumerevoli direzioni e fonti: altre persone, eventi, beni e realtà che ci sono state trasmesse attraverso lunghe catene di molteplici tradizioni, persino circostanze inattese, fortuite e – in questo senso – gratuite. Davanti a questa possibile multiforme grazia non necessariamente divina, la risposta di fede dei senza Dio può consistere semplicemente anche solo nel riconoscimento libero, grato e  gratuito di tale multiforme grazia e nella scelta di corrispondervi – in modo altrettanto libero, grato e gratuito – semplicemente e concretamente attraverso il vissuto della propria esistenza di credenti senza Dio.

Anche se il termine grazia non viene utilizzato espressamente in questo brano di Giovanni, con Dio e senza Dio potrebbero leggere questa pagina evangelica come un possibile antidoto alla concezione di grazia che abbiamo trovato nel secondo libro delle Cronache dove la grazia della benevolenza iniziale sembra rovesciarsi in una successiva spietata violenza. Un antidoto al veleno contenuto in questa concezione che ricorda l’antidoto utilizzato da Mosè contro i morsi di serpente: guardare ora al Figlio innalzato, così come allora si doveva guardare il serpente innalzato nel deserto, secondo il racconto di Numeri al capitolo 21. Non che Giovanni sia privo di ambivalenze e ambiguità, ma per lo meno la sua concezione di grazia può essere interpretata, da parte di con Dio e da parte di senza Dio, anche in una direzione nonviolenta. Qui lo scopo è che il mondo e chi crede abbiano vita e siano salvati per mezzo del Figlio. Se poi si può e si deve parlare di condanna, questa è l’effetto implicito di un agire umano inadeguato e fallimentare, anziché essere – come nel secondo libro delle Cronache – una condanna e una pena inflitte da Dio, quello stesso Dio che in altri momenti aveva mostrato il suo volto benevolo. Ciò che consente di superare la potenziale ambiguità di violenza presente nella rappresentazione giovannea di un Dio che manifesta il suo amore per il mondo consegnando alla morte il Figlio unigenito è la tendenziale identificazione con il Padre che il Gesù di Giovanni esprime in un altro passaggio del quarto Vangelo quando afferma: «Chi ha visto me ha visto il Padre». Se è così, con Dio e senza Dio possono interpretare il Dio di Giovanni che consegna il Figlio come il Dio che in realtà consegna liberamente alla morte sé stesso. Ciò consente di continuare a parlare di Dio come capace di amore e gratuità in modo nonviolento, dal momento che l’eventuale violenza viene esercitata nei suoi confronti da altri, evitando l’impressione che sia questo Dio a consegnare qualcun altro a una morte violenta. Già in questo modo alla violenza religiosa viene sottratta parte del suo veleno, ma il passo successivo è quello di sottoporre a critica la violenza insita in ogni condanna religiosa, quando la si interpreta come decisa e inflitta da Dio stesso o anche – in suo nome – dai suoi rappresentanti religiosi. Il passo di Giovanni, da questo punto di vista, può essere di aiuto nel trasformare la condanna inflitta da un’autorità religiosa divina in un comportamento autolesionistico, nel senso che la condanna di chi non crede consiste precisamente nel privarsi di ciò che il credere potrebbe offrirgli e nel senso che la preferenza del singolo per le tenebre rispetto alla luce è quella che lo condanna alla privazione di questa stessa luce. Di conseguenza, la grazia che corrisponde a questo tipo di condanna non è uno sconto di pena benevolmente concesso dalla stessa autorità che ha inflitto la condanna. La grazia, questo tipo di grazia, diventa invece, per con Dio e per senza Dio, lo spazio inatteso e creativo di gratuità e di amore che può invitare chi ha già condannato sé stesso a sottrarsi a questa condanna. La grazia, questo tipo di grazia, diventa per con Dio e per senza Dio, il tempo nel quale lo sguardo può essere educato a preferire la luce alle tenebre. Solo così, infatti, lo sguardo può diventare sufficientemente limpido per guardare al Figlio dell’uomo innalzato e crocefisso e riconoscere in lui la rappresentazione non solo di una violenza insensata e perversa, ma anche la rappresentazione di un amore che si effonde come grazia donata su chiunque, con Dio o senza Dio, voglia lasciarsene ispirare e trasformare.