Letture festive – 134. Libertà – 3a domenica di Quaresima – Anno B

Briciole dalla tavola. Vangelo per senza Dio

di Alberto Ganzerli

3a domenica di Quaresima – Anno B – 3 marzo 2024
Dal libro dell’Èsodo – Es 20,1-17
Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi – 1Cor 1,22-25
Dal Vangelo secondo Giovanni – Gv 2,13-25


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letture festive 134

Il decalogo veterotestamentario, qui nella sua versione contenuta nel libro di Esodo, potrebbe essere considerato – anche oggi, da parte di con Dio e da parte di senza Dio – come una legge di libertà, nel senso che il popolo liberato dalla schiavitù dell’Egitto deve osservare questa legge riconoscendo in essa la condizione necessaria per mantenere la libertà ottenuta. Le dieci parole, infatti, vengono pronunciate da un Signore, il Dio del popolo, che rivendica anzitutto di essere stato il liberatore di questo stesso popolo dalla condizione servile patita in Egitto. Ma non si tratta – tra l’osservanza della legge e la condizione di libertà – di un rapporto e di un collegamento arbitrario ed esteriore, estrinseco e legalistico; non si tratta, cioè, di osservare una legge semplicemente perché imposta dall’autorità divina; non è che la divinità impone questa osservanza come condizione per garantire una libertà che di per sé non avrebbe nessuna relazione con l’osservanza della legge. No, al contrario, l’osservanza della legge è, per l’autore veterotestamentario, l’unica via che consente al popolo liberato di essere e rimanere libero, evitando ciò che lo potrebbe rendere nuovamente schiavo. Per questo la formulazione negativa scandita da una ripetizione di “non”, più che come una proibizione potrebbe essere letta anche oggi come la messa in guardia da quanto potrebbe rendere con Dio e senza Dio nuovamente schiavi: l’attribuire valore divino e assoluto a ciò che non lo merita, il diventare artefici di ciò a cui – in modo contraddittorio – si finisce per sottomettersi, l’appellarsi all’autorità divina in modo improprio e strumentale ai propri interessi, il trascurare ciò che aiuta a vivere con sapienza il tempo, il dimenticare coloro a cui si deve il formarsi della propria identità, il togliere argini alla violenza e alle pulsioni orientate a possedere persone e cose, senza curarsi degli altri e lasciandosi invece guidare solo dai propri desideri individuali. Ma il decalogo veterotestamentario nella sua lunga storia non ha sempre avuto questo significato di legge di libertà: in certi casi è stato inteso, vissuto o addirittura imposto e subìto – da parte di con Dio e da parte di senza Dio – come un codice di limitazione della libertà, codice le cui violazioni sono state sanzionate sul piano religioso e civile con punizioni anche gravissime. In reazione a tutto ciò, alcuni con Dio e alcuni senza Dio si sono presi la libertà di proporre non solo libere re-interpretazioni del decalogo veterotestamentario, ma anche sue aperte e dirette contestazioni. Tra queste assume un significato particolare – per il suo valore e la sua notorietà – la contestazione che Fabrizio De André, nel suo album del 1970 La buona novella (di cui abbiamo parlato anche al n. 7 delle nostre riflessioni teologiche), affida al testo della canzone Il testamento di Tito. Qui De André immagina uno dei due poveri cristi crocefissi accanto a Gesù che, rivolto alla madre e a partire dal proprio punto di vista di umano morente, nelle parole che costituiscono il suo lascito testamentario contesta e rovescia, richiamandoli uno dopo l’altro, ciascuno dei dieci comandamenti. Si tratta di uno sguardo dal basso che critica molto duramente i possibili utilizzi del decalogo che si appellano a un legislatore divino per poter opprimere e asservire, reprimere e usare violenza, soprattutto nei confronti dei poveri e dei deboli. E tuttavia questo canto estremo – capace di esprimere con libertà dolente la radicale protesta di un senza Dio che però si rivolge direttamente a Dio – si conclude affermando di aver imparato l’amore nella pietà che non cede al rancore.

Paolo, scrivendo ai cristiani di Corinto, si prende la libertà di annunciare un Cristo diverso da quello che i suoi interlocutori Giudei e Greci richiederebbero e ricercherebbero. I primi – i Giudei, ai quali potremmo forse assimilare gli odierni con Dio – chiedono segni, essenzialmente miracolosi, che attestino il potere di Dio sulla realtà. I secondi – i Greci, ai quali potremmo forse assimilare gli odierni senza Dio – cercano sapienza, una comprensione della realtà che consenta di padroneggiarla, utilizzando gli strumenti della conoscenza. Ma a queste richieste e a queste attese Paolo si sente libero di non corrispondere, per poter mantenere fermo il nucleo del proprio annuncio riguardante la figura di Gesù. Quello che Paolo propone nella figura del Cristo crocefisso costituisce, infatti, da una parte, per i Giudei di un tempo e per i con Dio di oggi, uno scandalo, cioè un ostacolo e un impedimento per la loro fede e per le loro convinzioni religiose, essendo simbolo di debolezza umana fino alla morte e non di potenza divina. Ma questa stessa proposta della figura di un Cristo crocefisso rappresenta, dall’altra parte, per i Greci di un tempo e per i senza Dio di oggi, una stoltezza, cioè qualcosa di poco intelligente, se non addirittura assurdo e privo di senso, qualcosa che comunque non è possibile recepire in una visione sapiente della realtà. In questo testo, alla libertà esercitata da Paolo corrisponde una sorta di mancanza di libertà da parte di Giudei/con Dio e da parte di Greci/senza Dio, presentati come prigionieri di convinzioni che sono in realtà pregiudizi, dai quali sembrano incapaci di liberarsi. Paolo, tuttavia, da buon evangelizzatore, non cessa di sperare che la chiamata alla conversione, rivolta a Giudei/con Dio e a Greci/senza Dio, possa infine essere accolta e così liberare ciascuno dai propri pregiudizi. Solo così Giudei e Greci, con Dio e senza Dio, potranno ammettere che quella che appariva alla loro miopia come scandalosa debolezza o poco verosimile assurdità, in realtà è da a riconoscere come autentica potenza e sapienza. Paolo nel proprio linguaggio religioso, consonante con quello dei con Dio, la presenta come una contrapposizione tra approccio umano e approccio divino, ma i senza Dio (e forse anche i con Dio) potrebbero intenderla come l’opposizione – valida appunto per senza Dio e per con Dio – tra un approccio autenticamente libero alla realtà e ai modi di comprenderla e affrontarla e un approccio prigioniero invece dei propri pregiudizi di con Dio o di senza Dio.

L’evangelista Giovanni in questa narrazione presenta la libertà di Gesù in tre aspetti diversi, che possono essere di ispirazione, anche oggi, tanto per con Dio quanto per senza Dio che desiderino compiere un cammino di libertà. Il primo aspetto riguarda la libertà di Gesù nel contestare la concezione – propria, peraltro, di molte religioni – che vede la religione stessa essenzialmente come una pratica di scambio, nella quale il divino concede benessere e favori al fedele che riconosce il potere divino e vi si sottomette attraverso l’osservanza delle pratiche religiose. Gesù esprime questa contestazione con un’azione simbolica che ricorda lo stile e le pratiche dei profeti veterotestamentari e che oggi potremmo interpretare come una sorta di provocatoria performance artistica: l’azione simbolica di rovesciare i banchi dei cambiamonete nel tempio di Gerusalemme. Con Dio e senza Dio che cercano ispirazione nelle pagine evangeliche possono quindi lasciarsi provocare dalla domanda su che cosa cerchino veramente nella propria esperienza cristiana e se lo cerchino attraverso pratiche di scambio che il Gesù rappresentato da Giovanni avrebbe invece rovesciato. Il secondo aspetto riguarda la libertà di Gesù rispetto alla propria morte, una libertà che Gesù in questo brano mostra di possedere come libertà dalla paura della propria morte e come libertà dal timore che la morte, ponendo fine alla vita, possa annichilirne ogni significato e ogni valore. Il segno di autorevolezza che Gesù è pronto a dare a chi glielo chiede consiste precisamente nel non ritenere la morte e la distruzione del proprio corpo come un ritornare nel nulla, ma piuttosto come il crearsi delle condizioni per una resurrezione. Tutti, con Dio o senza Dio, vengono posti prima o poi davanti alla propria morte e ciò può avvenire in momenti critici e dolorosi dell’esistenza, in fasi esistenziali più serene dove però ci si trova a riflettere su questi temi, o ancora nei momenti che potrebbero precedere la propria morte. Ebbene tutti, con Dio o senza Dio, sono invitati a sperare di poter condividere questa libertà di Gesù raccontata da Giovanni, una libertà che scaturisce dalla speranza di una qualche resurrezione, quale che ne sia, per con Dio o per senza Dio, il significato che le si può attribuire. Il terzo e ultimo aspetto è la libertà di Gesù rispetto alla conoscenza di ciò che c’è nell’essere umano. Si tratta di una libertà che a prima vista potrebbe sembrare difficile da comprendere nel suo significato, ma se si pensa a quanto possa diventare difficile accettare che gli altri siano così come sono, in particolare nei loro limiti e difetti più grandi, quando non addirittura nella loro malvagità o nella loro resistenza ai cambiamenti necessari, allora il valore di questa libertà diventa più chiaro. Si tratta, infatti, di quella libertà che ci consente di guardare alla realtà così come è anche nelle sue dimensioni più abissali e tragiche, assurde e prive di significato e di senso. Ebbene il Gesù di questo passo di Giovanni non si fida degli esseri umani, proprio perché conosce gli esseri umani e ciò che c’è in loro. La libertà che questa conoscenza richiede al Gesù di Giovanni, ma anche a noi lettori con Dio o senza Dio di questo testo, è la libertà dal doversi raccontare menzogne o mezze verità per vivere le relazioni interpersonali e comunitarie, potendo, quindi, affrontare persone e situazioni con una libertà simile a quella che possiamo riconoscere nella figura di Gesù.

Riferimenti:

Il testo della canzone Il testamento di Tito tratta da F. De André, La buona novella (LP musicale), Produttori Associati, 1970, si può trovare sul sito Ufficiale della Fondazione Fabrizio De André Onlus.

Su questo sito del Centro Informazione Biblica si può leggere:
Riflessioni teologiche – 7. La buona novella di De André