Letture festive – 136. Imparare – 5a domenica di Quaresima – Anno B

Briciole dalla tavola. Vangelo per senza Dio

di Alberto Ganzerli

5a domenica di Quaresima – Anno B – 17 marzo 2024
Dal libro del profeta Geremìa – Ger 31,31-34
Dalla lettera agli Ebrei – Eb 5,7-9
Dal Vangelo secondo Giovanni – Gv 12,20-33


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letture festive 136

Secondo il profeta Geremia vi è qualcosa che si può imparare senza necessità di essere istruiti e che oggi potrebbe valere per con Dio e per senza Dio. Richiamando l’esperienza negativa dell’infrangersi dell’alleanza di Dio con i padri al tempo della liberazione dall’Egitto, sembra quasi che con Dio e senza Dio possano imparare davvero solo quando la realtà concreta di una liberazione e di un essere condotti altrove trovi corrispondenza in un’interiorità trasformata. Quest’ultima, infatti, deve essere in grado di partecipare attivamente alla liberazione offerta e a quell’incamminarsi che tale liberazione richiede. Se dunque all’esperienza reale riconoscibile nella storia manca la necessaria capacità interiore di riconoscerla e comprenderla non è possibile imparare nulla. Il grande tema collegato a questo imparare da una legge scritta nel cuore è per noi oggi quello della coscienza morale, intesa come capacità di riconoscere con verità il bene che richiede di essere compiuto e il male che invece si deve evitare di compiere. Si tratta di un tema decisivo per con Dio e per senza Dio, anche perché costituisce uno degli snodi da affrontare, se si vuole rendere possibile una comunione tra con Dio e senza Dio nella medesima comunità ecclesiale. Il fatto di non doversi istruire a vicenda, perché ciascuno già conosce il Signore Dio, risulta in realtà oggi molto problematico, non solo per i senza Dio – come è ovvio attendersi – ma persino per i con Dio. Uno dei fattori che indeboliscono la pretesa di verità di questa conoscenza interiore di Dio è la molteplicità di rappresentazioni e di percezioni soggettive che impediscono di riconoscere alla figura di Dio che ciascuno può delineare interiormente un’unicità chiara e definita. Se questo aspetto di conoscenza immediata e interiore di Dio risulta problematico non solo per senza Dio ma anche per con Dio, l’interpretazione della conoscenza scritta nel cuore, di cui parla il profeta Geremia, come coscienza morale mantiene, invece, una propria consistenza e un proprio valore. E questo pur nella conflittualità del confronto tra convinzioni di coscienza diverse o addirittura opposte che, dentro e fuori la Chiesa, attraversa anche trasversalmente gruppi e singoli persone, con Dio e senza Dio. Ma il complesso intrecciarsi di conoscenza e di coscienza nell’interiorità umana è riconosciuto e accolto anche dalla dottrina tradizionale della Chiesa. Questa insiste sulla necessità di ricercare con impegno e libertà ciò che è vero e buono, ma nello stesso tempo afferma la necessità di rispettare la coscienza anche quando invincibilmente erronea. Come abbiamo sottolineato al n. 36 delle nostre riflessioni teologiche, il vicendevole rispetto della coscienza altrui anche quando invincibilmente erronea è una delle condizioni per giungere a un cristianesimo radicalmente ecumenico, nel quale con Dio e senza Dio possano vivere in comunione all’interno della medesima comunità ecclesiale.

Che si possa imparare a essere obbedienti grazie a ciò che si patisce e si soffre è qualcosa che fa problema per tutti, con Dio e senza Dio. Ci si potrebbe peraltro chiedere, quando ci si trova a patire e soffrire qualcosa che non è stato scelto, dove si possa trovare quella libertà che l’obbedienza richiederebbe per non diventare costrizione. Ma se vogliamo partire da questo testo della lettera agli Ebrei dobbiamo anzitutto precisare che quanto viene tradotto con «giorni della sua vita terrena» in realtà nel greco sarebbe «giorni della sua carne». Anche per questo la scena descritta in questo passo neotestamentario sembra voler narrare non una vicenda storico terrena ma un evento salvifico che si svolge nei cieli e che si caratterizza per una sorta di necessità divina. Quest’ultima richiede che l’obbedienza del Figlio – figura divina che ha assunto la carne umana per salvare l’umanità – si trovi a convergere con l’obbedienza dei destinatari della salvezza. E quindi, che cosa propriamente si può imparare da questo tipo di rappresentazione? Qual è la perfezione e la forza salvifica che si possono riconoscere in questo tipo di obbedienza? E ancora, come va compreso l’esaudimento – per il pieno abbandono a Dio – di una preghiera che chiede salvezza dalla morte? Si tratta di domande per con Dio e per senza Dio. Ed entrambi potrebbero forse imparare che i limiti posti e imposti, in modi ovviamente diversi, all’esistenza di tutti e di ciascuno, quali ne siano le cause, gli attori o i responsabili, ebbene tali limiti anticipano in modo più o meno intenso e significativo la inevitabilità della morte. Ma se questo vale per tutti, con Dio e senza Dio, ciò che il testo della lettera agli Ebrei suggerisce può essere imparato soltanto da con Dio e da senza Dio che compiano due scelte ben precise. La prima scelta è quella di credere che si possa essere salvati dalla morte precisamente attraversandola, sperando in una vita dopo la morte se si è dei con Dio, ma anche – se invece si è dei senza Dio e non si spera in una vita dopo la morte – confidando che la morte non sia più forte della verità e del bene, della bellezza e dell’amore che ogni vita è in grado di esprimere durante il suo corso e persino nel suo morire. La seconda scelta– anziché esprimersi in un ribellarsi alla morte o negarla con una disperazione rabbiosamente avvinghiata alla vita – ebbene la seconda scelta è quella che in qualche modo liberamente obbedisce alla morte, interpretandola e vivendola come momento di compimento e di congedo e vi si abbandona con fiducia nella vita che prosegue dopo di noi. Non è un caso che questo atteggiamento davanti alla morte sia uno di quelli che secondo Karl Rahner (come abbiamo sottolineato al n. 2 delle nostre riflessioni teologiche) caratterizzano quella tipologia di senza Dio che lui chiama cristiani anonimi.

In questa narrazione l’evangelista Giovanni ci mostra qualcuno che vuole imparare anzitutto attraverso il vedere Gesù: sono alcuni Greci, i quali si rivolgono a un Filippo dal nome greco, a ricordarci che per imparare, con Dio e senza Dio devono avere certamente il desiderio di farlo, ma devono anche trovare mediazioni e mediatori in una cultura e in una lingua che risulti comprensibile e in qualche modo vicina. Ma cos’è che con Dio e senza Dio potrebbero o dovrebbero imparare? Stando a questo passo si potrebbe e si dovrebbe imparare anzitutto e fondamentalmente a diventare come un seme, si potrebbe e si dovrebbe imparare a morire per produrre frutto, per far germogliare nuovo amore e nuova vita. Vi è poi la domanda retorica che il Gesù di Giovanni rivolge anche ai noi lettori con Dio o senza Dio di questa pagina evangelica: «Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome». Si può notare come questo testo descriva l’atteggiamento di Gesù davanti alla propria morte in un modo apparentemente opposto a quello della lettera agli Ebrei. Là Gesù sembrava invocare salvezza, mentre qui sembra rinunciarvi. In realtà, come abbiamo visto, l’atteggiamento nei confronti della morte sembra essere analogo: tanto il Gesù della lettera agli Ebrei quanto il Gesù di Giovanni non si sottraggono alla morte ma la attraversano, dando compimento alla loro missione e creando le condizioni per una relazione salvifica. Quest’ultima nella lettera agli Ebrei riguarda coloro che obbediscono a Gesù e nel vangelo di Giovanni quei tutti che il Gesù innalzato attira a sé. Imparare a comprendere e interpretare in modo adeguato i testi biblici, metterli a confronto tra loro e con la nostra situazione contemporanea di con Dio e di senza Dio può risultare decisivo per il cammino di fede. Così come decisivo può rivelarsi l’imparare a riconoscere – tra le tante voci che ci capita di udire – quelle destinate a raggiungere proprio noi o quelle che comunque faremmo bene ad ascoltare. A volte, infatti, anche noi, come la folla nel vangelo di Giovanni, saremmo tentati di ritenere le voci che non ci interessano come rivolte all’interiorità altrui o come rumori privi di significato. E tra le tante possibili voci, quelle delle pagine bibliche, se le lasciamo interiormente risuonare, hanno quasi sempre qualcosa da dire o da far imparare a ciascuno di noi con Dio o senza Dio.