Letture festive – 141. Cura – 4a domenica di Pasqua – Anno B

Briciole dalla tavola. Vangelo per senza Dio

di Alberto Ganzerli

4a domenica di Pasqua – Anno B – 21 aprile 2024
Dagli Atti degli Apostoli – At 4,8-12
Dalla prima lettera di san Giovanni apostolo – 1Gv 3,1-2
Dal Vangelo secondo Giovanni – Gv 10,11-18


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letture festive 141

La cura, in questo brano di Atti degli Apostoli, è quella esercitata nei confronti di un uomo infermo, che ora, risanato, sta innanzi ad autorità le quali, a suo riguardo, stanno interrogando Pietro. Le autorità sono interessate – non a caso – a capire con quale autorità il prendersi cura di un infermo abbia condotto addirittura a risanarlo. Anche noi, odierni lettori con Dio o senza Dio di questa pagina biblica, potremmo essere interessati a capire in che modo il prendersi cura di qualcuno può condurlo a essere risanato. La risposta che in questo testo di Atti viene data, attraverso le parole di Pietro, si collega alla figura di Gesù in un triplice modo particolarmente significativo. Il primo modo consiste in una sorta di parallelismo tra l’infermo risanato e il Gesù Cristo crocifisso che Dio ha resuscitato dai morti. Si tratta di una risposta che stabilisce un collegamento tra due coppie di esperienze o di quasi-esperienze: l’infermità e la morte, da una parte, e il trovarsi risanati e l’essere resuscitati dall’altra. Se, infatti, l’infermità e l’essere risanati si possono definire esperienze umane quasi ordinarie, la morte e l’essere resuscitati, con le loro rispettive e diverse particolarità, si collocano in un ambito certamente diverso da quello delle esperienze umane ordinarie. Si tratta, in effetti, di coppie di esperienze o quasi-esperienze che – per lo meno sul piano metaforico dell’utilizzo dei termini che le indicano – si richiamano vicendevolmente. Tanto con Dio quanto senza Dio possono arrivare a sperimentare l’infermità come una quasi-morte e il trovarsi risanati come una quasi-resurrezione. Così, reciprocamente, la quasi-esperienza della morte può essere immaginata come una infermità mortale e la quasi-esperienza dell’essere resuscitati come una cura che risana dalla morte, anche se probabilmente con Dio e senza Dio si rappresentano queste quasi-esperienze in forme diverse. Il secondo modo nel quale questo testo di Atti collega la cura alla figura di Gesù evidenzia un legame ancora più profondo tra le due figure dell’infermo risanato e del crocefisso risuscitato, dal momento che, secondo le parole di Pietro, è per mezzo e nel nome di Gesù che ci si è presi cura dell’uomo infermo fino a risanarlo. Gesù è addirittura l’unico nome, dato agli uomini sotto il cielo, nel quale è stabilito che noi – afferma Pietro – possiamo essere salvati. Questo noi collegato alla salvezza è importante perché consente a con Dio e a senza Dio di ricordare come la destinazione universale del messaggio cristiano di salvezza debba sempre evitare gli estremi tanto dell’uniformità impersonale quanto dell’esclusività totalizzante. Si deve infatti ricordare che per altri – che non siamo noi – il nome o i nomi che portano salvezza potrebbero essere anche altri, ma ciò non toglie che per noi che siamo inseriti in una relazione significativa, biografica e personale, linguistica e socio-culturale, con la figura di Gesù, questa rimane – salvo eventuali eccezioni – la via attraverso la quale, come con Dio o come senza Dio, rimane sensata, per noi, una ricerca di salvezza, comunque la si voglia intendere. Il terzo modo nel quale questo testo di Atti collega la cura alla figura di Gesù riguarda, di questo stesso Gesù, l’essere in realtà come una pietra scartata divenuta pietra d’angolo. Anche qui la cura e la salvezza provengono da una qualche somiglianza e parallelismo. Ogni infermo infatti si trova esposto, nella sua condizione di debolezza, al rischio di essere scartato come non più utile o non più pienamente efficiente. E anche in questo caso il riferimento alla figura di Gesù cura, risana e salva nel suo essere la rappresentazione di una condizione nella quale precisamente la debolezza e la fragilità estrema possono diventare il punto da cui ripartire, per ricostruire qualcosa di importante e di solido.

Questo brano della prima lettera di Giovanni sembra presentare il prendersi cura come il comportamento di un amorevole Dio Padre nei confronti dei propri figli. Ma questa esperienza dell’essere oggetto di cura amorevole presenta tre caratteristiche in qualche modo insolite, che però possono gettare una luce interessante su ciò che la cura è capace di produrre, tanto in con Dio quanto in senza Dio. Una prima caratteristica consiste nel fatto che questa esperienza di una cura ricevuta rimane per lo più non visibile, non conosciuta e non riconosciuta da parte dello sguardo pubblico di quello che viene chiamato il mondo. Una seconda caratteristica consiste nel fatto che questa esperienza di una cura ricevuta rientra all’interno delle dinamiche – tipiche nelle Scritture bibliche – di un già presente che però non è ancora giunto al proprio compimento e alla propria piena manifestazione. La cura, infatti, non è in genere un atto singolo e puntuale, ma piuttosto un processo che avviene per la durata di un certo periodo di tempo, più o meno lungo. Ma la terza e sorprendente caratteristica è che questo particolare e amorevole prendersi cura, da parte di un Dio Padre nei confronti dei figli, rende questi stessi figli simili al loro Dio e Padre, in virtù della visione di come questo stesso Dio e Padre è. Se i con Dio possono riconoscere in questo processo di assimilazione tramite visione una sorta di cammino mistico di divinizzazione, i senza Dio devono ricercare un’interpretazione di tipo diverso, se vogliono che questo testo parli con verità anche a loro. Ma in questa ricerca potrebbero trovare forse un’interpretazione che risulti significativa anche per i con Dio, soprattutto se si intende l’assimilazione come rivolta al processo stesso del prendersi cura con amore, che il testo attribuisce a Dio. In questo caso, la visione assimilatrice di cui si parla qui potrebbe riguardare precisamente il fatto che ciò che si intende quando si parla di Dio si esprime nel modo più autentico, vero e profondo precisamente così: nel diffondersi di esperienze nelle quali il sentirsi soggetti cui è rivolta amorevole cura trasforma questi stessi soggetti fino a renderli simili a chi si è preso cura di loro. E cioè renderli capaci, a loro volta, di prendersi cura di altri, come avviene in realtà in molte relazioni sane e riuscite sul piano umano tra genitori e figli. In questo diventare capaci di cura perché qualcuno si è preso cura di noi potrebbe quindi consistere (soprattutto se siamo senza Dio, ma forse anche se siamo con Dio) ciò di cui parla la prima lettera di Giovanni: quel diventare simili a Dio perché lo si vede così come egli è.

Nel suo vangelo Giovanni, per esprimere il modo in cui Gesù si prende cura, utilizza alcune metafore potenzialmente ricche di suggestioni anche oggi per noi, lettori con Dio o senza Dio dei testi evangelici, metafore che si collegano al mondo animale, ai suoi rapporti con il mondo umano, al modo in cui il denaro può determinare la qualità delle relazioni di cura. Viene delineata, infatti, contrapponendola alla figura del mercenario, la figura di un pastore del tutto particolare, dal momento che sviluppa in relazione alle pecore un rapporto di reciproca conoscenza che è sorprendentemente analogo al rapporto di reciproca conoscenza che Gesù sviluppa con il Padre. Già qui risulta evidente un approccio insolitamente orizzontale alla natura e alla forma delle relazioni tra soggetti apparentemente molto diversi tra loro. Ma ancora più sorprendente risulta il fatto che questo pastore è disposto a dare la vita per le pecore, e cioè si pone in un atteggiamento e comportamento di dedizione che si spinge fino al punto di non sottrarsi alla morte, qualora ciò venga richiesto. L’atteggiamento e comportamento del mercenario in relazione alle pecore è invece specularmente opposto, per cui non vi è conoscenza, non vi è dedizione, non vi è protezione rispetto alle possibili minacce. E la ragione è che al mercenario – interessato unicamente al proprio compenso economico – delle pecore in realtà non importa nulla. Il prendersi cura di qualcuno, infatti, può avere – per con Dio e per senza Dio – origini e motivazioni, modalità e intensità di coinvolgimento molto diverse le une dalle altre. Si può andare, quindi, dalla dedizione fino alla morte, da parte del pastore, all’abbandono e alla fuga davanti al pericolo, da parte del mercenario, notando come implicitamente in questo confronto il denaro venga rappresentato come un elemento di per sé incapace di sostenere comportamenti di cura che siano autentici e duraturi. All’opposto, questo pastore così particolare e improbabile si prende cura anche di altre pecore che, pur essendo fuori dal suo recinto, sono disorientare e hanno necessità di ascoltare la sua voce e di lasciarsene guidare, per potersi unire a quella sorta di comunità che viene definita come un unico gregge. Ma un’ultima e paradossale caratteristica di questo pastore è la libertà che il Padre gli comanda di esercitare addirittura riguardo al potere di dare e di riprendere la propria vita, senza che questa gli possa essere davvero tolta da nessuno. I lettori con Dio e senza Dio di questa pagina evangelica possono chiedersi allora in che modo possano sperimentare in termini di cura ricevuta la relazione con la figura di Gesù, rappresentata in questa forma di pastore. Uno dei modi possibili è quello di interpretare come cura indirettamente ricevuta grazie alla figura di Gesù ogni cura direttamente ricevuta da altri soggetti – con Dio o senza Dio – che nella prossimità e nella concretezza si sono presi cura di noi con lo stile del pastore descritto nel vangelo di Giovanni. Si tratta, allora, come con Dio o come senza Dio, di richiamare alla memoria ogni cura ricevuta e di chiedersi se in essa si possano riconoscere questi tratti caratteristici: una reciprocità di conoscenza, una dedizione che non si sottrae davanti ai rischi della morte, una sollecitudine anche per chi si trova fuori dal proprio recinto, un’obbedienza che diventa libertà di poter dare e poter riprendere la propria vita, senza che nessuno possa davvero toglierla.