Letture festive – 148. Apparenze – 10a domenica del Tempo ordinario – Anno B

Briciole dalla tavola. Vangelo per senza Dio

di Alberto Ganzerli

10a domenica del Tempo ordinario – Anno B – 9 giugno 2024
Dal libro della Gènesi – Gn 3,9-15
Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi – 2Cor 4,13-5,1
Dal Vangelo secondo Marco – Mc 3,22-30


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letture festive 148

Le apparenze giocano un ruolo importante in questo passo di Genesi e invitano anche noi odierni lettori con Dio o senza Dio a esplorarne le molteplici valenze, a partire dal significato dell’apparire e sentirsi nudo dell’uomo, dopo aver mangiato del frutto dell’albero. Le apparenze si collegano qui a un aumento di consapevolezza, a un nuovo sapere, dal momento che anche prima di mangiare del frutto dell’albero l’uomo era e quindi appariva nudo allo sguardo altrui, ma l’apparire nudo da condizione inizialmente neppure avvertita come rilevante e perciò vissuta in modo inconsapevole ora diventa invece problema e fonte di paura. Qui le apparenze non nascondono né falsificano ciò che realmente si è, ma sono qualcosa di cui si arriva a una consapevolezza prima assente. Da questo punto di vista ciascuno di noi, con Dio o senza Dio, può facilmente immaginare che ci siano aspetti o condizioni che ci appartengono, ci caratterizzano e che appaiono agli sguardi altrui anche se noi non vi poniamo attenzione e ne siamo inconsapevoli. E questo fino a quando qualcosa o qualcuno non attiva, nei modi più diversi, la nostra consapevolezza e – in alcuni casi – la nostra paura, verosimilmente quella di non essere ciò che vorremmo essere e di apparire più deboli e più fragili, meno belli e meno buoni di come vorremmo apparire ed essere. Ma vi sono nel racconto di Genesi altre apparenze che nascondono e falsificano una realtà e una verità che sono invece diverse, non corrispondenti e anzi opposte. Appartengono a questo tipo di apparenze l’offerta apparentemente convincente del frutto da parte della donna nei confronti dell’uomo e l’apparente bontà di un frutto dalle apparenze gradevoli o l’apparente ragionevolezza del discorso con il quale il serpente inganna la donna. Queste sono ovviamente le apparenze più difficili da riconoscere e da evitare, ma anche le più pericolose per i danni che possono produrre se non vengono riconosciute e smascherate come false apparenze. E anche qui, ciascuno di noi odierni con Dio o senza Dio potrebbe facilmente richiamare alla memoria offerte apparentemente convincenti che non hanno mantenuto le loro promesse, frutti apparentemente buoni e dalle apparenze gradevoli ma rivelatisi poi in qualche modo velenosi, discorsi apparentemente ragionevoli che hanno invece falsificato la verità. Un ultimo tipo di apparenze che gioca un ruolo decisivo nel brano di Genesi è costituito dalla conformazione fisica con la quale appare il serpente che, strisciando privo di zampe, suggerisce all’autore biblico un racconto eziologico che ne spieghi la perdita delle zampe. Si tratta in questo caso di quelle apparenze altrui che ci sembrano strane e per le quali riteniamo di dover cercare una spiegazione, magari provando a ricostruire con la nostra immaginazione cosa potrebbe essere accaduto nel passato per spiegare le apparenze del presente. Anche noi odierni con Dio o senza Dio, quando componiamo questi racconti eziologici sugli altri, corriamo il rischio di inventare spiegazioni che – anche se le troviamo funzionali al nostro modo di rappresentarci le apparenze altrui – risultano infine prive di fondamento, come quella di Genesi sulle zampe del serpente, che ovviamente non ne è privo a causa di una punizione divina.

In questo testo paolino che tratta di vita, morte e resurrezione, le apparenze sono quelle che sembrano scandire per con Dio e per senza Dio il decorso dell’esistenza umana in particolare in una età matura che si avvicina alla morte. Il Paolo che scrive ai Corinzi insiste sul credere che motiva il suo parlare e cioè la convinzione che colui che ha resuscitato il Signore Gesù resusciterà anche i suoi ponendoli accanto a lui in una dimensione di vita nuova gratuitamente data. Questo sfondo viene evocato da Paolo per ridimensionare il significato e il valore dell’apparente disfacimento dell’essere umano che invecchia. Questo processo, infatti, va interpretato distinguendo l’aspetto esteriore, che effettivamente è soggetto a un progressivo deteriorarsi delle apparenze, dal continuo rinnovarsi dell’uomo interiore, che non necessariamente appare all’esterno. Nella rappresentazione paolina dobbiamo certamente riconoscere un’antropologia di matrice ellenistica che contrappone esteriorità e interiorità, tribolazioni e cose terrene e visibili di un momento a fronte di gloria e cose celesti invisibili ed eterne. Si tratta di un’antropologia dualistica che ha influenzato le concezioni escatologiche cristiane di molti con Dio fino ai nostri giorni, con risposte che tuttavia oggi un numero crescente di credenti trova inadeguate e insoddisfacenti; e non sono solamente – come è ovvio attendersi – i senza Dio, ma anche molti con Dio. In ogni caso, con Dio e senza Dio possono trovare interessante il tema di come il disfacimento dell’uomo che appare possa coesistere, fino alla morte ed eventualmente anche oltre la morte, con il rinnovarsi giorno dopo giorno di qualcosa di vitale del medesimo uomo che però non appare. I credenti senza Dio, ma forse anche i credenti con Dio, possono infatti arrivare a intendere il decorso cronologico della propria esistenza umana come un processo che arriva inevitabilmente alla conclusione della morte, ma che non si configura necessariamente come progressiva decadenza del loro essere e diventare umani. L’essere e il diventare umani, infatti, può essere in certi casi un processo che sul piano qualitativo e spirituale cresce con l’età anche nella fase del decadimento fisico e trova la forza di andare oltre la propria morte con generosità in termini di dono per altri. Qualcosa di analogo, del resto, avviene nel mondo vegetale, per i frutti che una volta maturi scompaiono alimentando chi se ne nutre e così avviene anche dei semi che muoiono perché, grazie al proprio disfacimento, vi sia nuova vita e nuovo nutrimento per altri.

Vi sono apparenze che, secondo questo testo di Marco, inducono gli scribi, i teologi del tempo, a ritenere il Gesù che scaccia i demoni come in qualche modo colluso con il capo dei demoni. Ma l’appartenenza di Gesù al mondo satanico al quale si ritrova a dare ordini è solo apparente, perché, in realtà, la sostanza del loro rapporto è quella di una opposizione radicale e irriducibile. Tra i con Dio così come tra i senza Dio, chi non riconosce questa opposizione, chi non distingue il bene dal male, chi vede all’opera gli spiriti del male in chi, invece, è abitato e guidato dal Santo Spirito del bene, costui non può essere perdonato perché neppure coglie questa necessità o esprime questo desiderio. Questo peccato contro lo Spirito Santo, del resto, è quello che, mentre non distingue il bene dal male, neppure ricerca una guida per individuare e poter seguire il giusto cammino. L’argomento che il Gesù di Marco utilizza per negare la propria connivenza con il capo dei demoni si riferisce all’impossibilità di restare in piedi per una casa lacerata da divisioni e purtroppo la storia bimillenaria della Chiesa con le sue molteplici e ricorrenti lacerazioni e divisioni sembra confermare questa che appare come un’ovvia constatazione di buon senso. Ciò non deve impedire tuttavia al desiderio cristiano ed ecumenico di unità di cercare con perseveranza e caparbietà l’incamminarsi delle comunità cristiane sulle strade di una diversità riconciliata che coltivi pratiche di comunione e tolleri i reciproci errori, là dove non sia possibile la convergenza delle convinzioni. Ma oltre alle divisioni tra le Chiese cristiane vi sono divisioni ancora più insidiose, che non sono quelle tra con Dio e senza Dio. Si tratta, invece, di quelle che, indipendentemente dall’essere con Dio o senza Dio, separano anche all’interno delle nostre odierne comunità ecclesiali chi, andando oltre le apparenze, distingue il bene dal male da chi non vuole farlo. A questa divisione si collega anche quella tra chi, andando oltre le apparenze, riconosce dove abita e verso dove guida il Santo Spirito del bene, e chi all’opposto vede all’opera gli spiriti del male in chi, invece, è abitato e guidato dal Santo Spirito del bene. Non è un caso che in situazioni come queste – che con Dio e senza Dio oggi collegherebbero all’essere radicalmente in malafede – il vangelo riconosca gli unici casi nei quali i peccati non possono essere perdonati e il bestemmiare lo Spirito impedisce di aprirsi a questo stesso Spirito per esserne perdonati. Ciò non significa tuttavia, che si debba perdere la speranza nella conversione e nel ravvedimento, dal momento che l’obiettivo di questo brano evangelico è precisamente quello di rivolgersi a con Dio o senza Dio che si trovassero ad essere schiavi delle apparenze e in una condizione di radicale malafede, per suscitare in questi propri lettori ravvedimento e conversione.