I fondamenti biblici del giubileo

  di Jean Louis Ska

Pubblichiamo un intervento del biblista padre Jean Louis Ska, gesuita belga – ben noto a chi frequenta le conferenze del C.I.B. – ,che presenta i presupposti biblici del Giubileo che inizia in questi giorni.

Il Giubileo, o anno santo, che viene celebrato ogni cinquant’anni è, in realtà, una festa di origine biblica. È nel capitolo 25 del libro del Levitico che troviamo la legislazione riguardo a questa festa. In breve, si dice che ogni cinquant’anni sarà proclamato un anno santo chiamato “Giubileo”. La parola francese Jubilé, che ha il proprio equivalente in numerose lingue, viene dal verbo latino “jubilare”, che significa “rallegrarsi”. In ebraico, la festa ha un nome molto simile, “yôbel”, la cui etimologia è incerta. Alcuni accostano questo nome a quello del corno di montone di cui cisi serviva per annunciare l’inizio delle celebrazioni. Ma nulla è sicuro al riguardo.
Resta tuttavia che alcuni Padri della Chiesa, a partire da San Girolamo, hanno avvicinato le due parole, “jubilare” e “yôbel” quando hanno parlato di questa usanza.
In breve, la legislazione sull’anno santo contiene quattro articoli importanti. Innanzi tutto l’anno santo è un anno sabbatico. Ciò vuol dire che la terra si riposa poiché resta a maggese: non si semina, non si miete, non si vendemmia, e non si raccolgono le olive. Ciascuno riacquista la sua proprietà. Chi ha dovuto vendere la propria terra la recupera nell’anno giubilare. La stessa cosa vale per le case e i beni immobili. Nell’anno santo, tutte le persone che sono state costrette a vendersi come schiave per pagare i propri debiti devono essere liberate. Infine, le leggi del Giubileo contengono alcune norme sul prestito senza interesse concesso a una persona in ristrettezze finanziarie.
Tuttavia, prima di commentare questo capitolo e i pochi testi biblici che fanno allusione al “Giubileo”, mi sembra utile, anzi necessario, precisare quale può essere l’importanza di una riflessione biblica sull’anno santo. Una prima serie di osservazioni avrà per oggetto l’interpretazione e l’attualizzazione dei testi biblici in generale. In un secondo momento, parlerò delle condizioni di vita all’epoca in cui le leggi sul Giubileo sono state redatte. Quest’ultimo punto è essenziale per poter cogliere qual è il senso di questa festa assai particolare. Infine, spiegherò nel dettaglio le diverse leggi del Giubileo e ne metterò in evidenza il messaggio teologico.

  1. Come leggere i testi biblici?

Innanzitutto c’è un principio che non bisogna mai dimenticare quando si legge la Bibbia, soprattutto l’Antico Testamento: è meglio non cercare nella Bibbia risposte immediate alle nostre questioni e delle soluzioni preconfezionate ai nostri problemi. La Bibbia risponde alle questioni e risolve i problemi che si ponevano all’epoca in cui i libri che essa contiene sono stati redatti. Certamente leggere la Bibbia non è inutile. Ciò che è stato scritto, è stato scritto per la nostra istruzione. Ma, per comprendere il suo messaggio, è importante vedere come gli autori biblici risolvono i problemi che si sono posti nella loro epoca, per potere – a nostra volta – trovare le risposte adeguate a problemi simili che si pongono nella nostra epoca. Sarà dunque importante domandarsi perché e per rispondere a quali bisogni le leggi sul Giubileo sono state scritte, prima di vedere come noi possiamo applicarle ad altre situazioni. Il fondamentalismo, o interpretazione letterale, è sempre pericoloso. In termini molto semplici e per usare un’immagine altrettanto semplice, la Bibbia non è stata scritta nella nostra lingua. Le parole della Bibbia non hanno dunque esattamente lo stesso senso che le parole delle nostre lingue moderne. È dunque necessario tradurre per poter comprendere.

  1. Le condizioni di vita all’epoca biblica o veterotestamentaria

Come tutte le leggi, quelle sul Giubileo volevano rispondere a delle questioni precise. Non si redige una legge se non per modificare una situazione insopportabile o per correggere degli abusi. Perché allora le leggi di Lv 25 domandano di lasciare i campi incolti, di restituire i campi e le case ai loro proprietari originari, di liberare gli schiavi e di aiutare finanziariamente gli indigenti? Si tratta, con ogni probabilità, di una risposta a una situazione endemica. In realtà la società biblica – e su questo punto essa è simile a numerose società contemporanee, soprattutto in quello che si è soliti chiamare il Terzo Mondo – è composta in maggioranza di persone che lottano per la sopravvivenza. Alcuni arrivano a dire che in quell’epoca il 90% della società poteva vivere al di sotto della soglia della povertà. Tutto questo mondo doveva considerarsi fortunato se non moriva di fame o di malattia. Ciò significa che l’equilibrio economico era assai instabile. Bastavano davvero poche cose per far precipitare una famiglia nella miseria nera: un cattivo raccolto, una carestia, una malattia del bestiame, una guerra, un mutamento economico troppo brusco o un indebitamento, potevano avere immediatamente delle conseguenze catastrofiche. Per poter sopravvivere, bisognava acquistare del cibo o prendere in prestito del denaro ad un tasso proibitivo. Per acquistare, bisognava dunque indebitarsi. Per pagare i propri debiti, bisognava vendere i pochi beni che si possedevano: la propria casa, i propri campi o la propria libertà; cioè, in quest’ultimo caso, si vendevano i propri figli o sé stessi come schiavi.
Non tutti erano ridotti a tale eccesso. Ma molti erano minacciati e molti di coloro che erano minacciati finivano per dover alienare ciò che avevano di più prezioso. In fin dei conti solo i più ricchi riuscivano a cavarsela ogni volta che la situazione diventava difficile. Allora, come oggi, i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri e sempre più numerosi. Soltanto i più ricchi e i più potenti hanno in effetti i fondi di riserva necessari per far fronte alle situazioni più difficili, come le carestie. Quando questi problemi si ripetono, tuttavia, il numero dei poveri può aumentare considerevolmente. Ad un certo momento ci sono tanti poveri e indigenti che la situa- zione diviene intollerabile e rischia di esplodere. Bisogna dunque reagire. È qui che intervengono leggi simili a quelle del Giubileo biblico.
In tutto il Vicino Oriente antico esistono delle leggi simili. Tra l’altro, in Mesopotamia, i re avevano l’usanza, soprattutto all’inizio del loro regno, di proclamare una specie di amnistia e, ad esempio, di far liberare le persone che avevano dovuto vendersi come schiave per pagare i propri debiti. Questa liberazione aveva certamente come effetto di rendere il re popolare, ma una tale misura aveva anche un effetto benefico sull’economia. Molte attività lasciate in sospeso potevano riprendere grazie a questo apporto di nuove energie. Quanto ai grandi proprietari fondiari, essi avevano sempre sufficiente mano d’opera a loro disposizione e non dovevano soffrire oltre misura di questa decisione regale.
Nella Bibbia la legge sul Giubileo si distingue in due punti essenziali da questi decreti mesopotamici. Da una parte le misure non sono prese da un re e non dipendono dunque dalla buona volontà di un sovrano. Esse vengono da Dio e perciò stesso esse sono sottratte all’arbitrio umano. D’altra parte le leggi sono applicate a intervalli regolari (ogni cinquant’anni) e non secondo il bisogno, le circostanze o allorché un re lo giudichi opportuno.

  1. I valori in gioco

Tutte le leggi – le leggi bibliche così come le altre – difendono un sistema di valori contro gli abusi o gli squilibri cronici che colpiscono ogni società. Le leggi sul Giubileo non fanno eccezione. Esse fanno risaltare con più chiarezza che, nel mondo d’Israele, due valori sono fondamentali, poiché è Dio stesso che ne assume la difesa, e non un’autorità umana. Questi due valori sono la terra e la famiglia.

3.1. La terra

La terra innanzi tutto. Secondo il racconto biblico del libro di Giosuè, quando il popolo ha raggiunto la terra che Dio gli aveva promessa e poi data, Giosuè ha proceduto alla ripartizione del territorio. Ogni tribù, ogni clan e ogni famiglia ricevette una porzione di terra. Poco importa qui quando e come ciò sia accaduto in realtà. È importante comprendere bene l’intenzione di questo racconto. La terra è stata data da Dio, non da Giosuè o da un capo carismatico o politico. Israele non ha ottenuto la terra di sua propria iniziativa o perché il popolo sarebbe riuscito ad impadronirsene con le proprie forze. Se Dio, il Signore che l’ha fatto uscire dall’Egitto, non fosse intervenuto, il popolo non sarebbe mai potuto entrare nella terra per conquistarla. Come dice Georges Auzou, la terra è «il dono di una conquista». Ogni famiglia possiede dunque una porzione della terra e la riceve da Dio solo. In termini giuridici, ciò significa che la terra è inalienabile. Se Dio stesso l’ha data, quale potenza umana può impadronirsene? Questa verità è ben illustrata dal racconto della vigna di Nabot (1Re 21). Il re d’Israele, Acab, come molti grandi proprietari, vuole ingrandire i propri possedimenti. Egli decide dunque di acquistare un terreno adiacente al suo, quello di Nabot. Gli offre del denaro o anche di scambiare la sua vigna con un’altra migliore. Ma Nabot rifiuta e tale rifiuto alla fine comporterà la sua morte, secondo il ben noto racconto. Ma perché rifiuta? Egli stesso fornisce le proprie ragioni: «Il Signore mi guardi dal cederti l’eredità dei miei padri!». Nabot comincia la sua frase con una formula di giuramento che, in questo contesto, è più di una formula. Egli riceve la sua terra da Dio, il Signore, ed è in virtù di questo diritto “divino”, se così si può dire, che egli rifiuta di vendere la propria vigna. Essa è in effetti inalienabile e Nabot non ha il diritto di cedere questo terreno che ha ricevuto dai suoi antenati e – è senza dubbio il punto più importante – che egli deve a sua volta trasmettere intatto ai suoi discendenti. Questa vigna è intoccabile e nemmeno il re può fare uno strappo a questo diritto imprescindibile. Il testo, secondo diversi esegeti, mette in rilievo due concezioni opposte del diritto fondiario, quella di Nabot, secondo la quale la terra è un bene inalienabile, e la concezione di Acab, per il quale non è il caso. Questo diritto alla terra, fondamentale in Israele, aveva come scopo di impedire che la famiglia perdesse le risorse necessarie alla propria sopravvivenza. In un mondo in cui la maggior parte della popolazione si dedicava alla produzione dei beni di prima necessità, cioè all’agricoltura e all’allevamento, è normale che il diritto assicurasse a ciascuna famiglia il possesso di un pezzetto di terra, cosa indispensabile alla sua sussistenza.

3.2. La famiglia

Finora ho sempre parlato della famiglia e non di individui o di persone. Di proposito ho optato per questo linguaggio, perché, nel mondo della Bibbia, è pressoché impensabile parlare dell’individuo isolato senza parlare della famiglia o del clan. Una persona sola è senza difesa e rischia di ritrovarsi assai rapidamente esposta a diverse forme di sfruttamento. In un mondo che non conosce la previdenza sociale, lo Stato assistenziale o anche la Stato democratico fondato sul diritto, non è possibile vivere isolati. L’individuo nasce, cresce e muore in una famiglia senza la quale non può sussistere. Quando parlo di famiglia, parlo anche della famiglia allargata, cioè di tutti i discendenti – bambini, nipoti – di una coppia. In una società patriarcale come quella della Bibbia, i bambini restano sottomessi ai loro genitori, in particolare a loro padre, finché egli è in vita e formano tutti insieme la famiglia. Non si tratta della famiglia nucleare che è comune nel mondo occidentale (una coppia e i suoi figli), ma della famiglia allargata ove convivono più generazioni, spesso sotto uno stesso tetto, e sempre sotto la stessa autorità del “padre di famiglia” che è assai spesso un nonno. Riassumendo, è difficile parlare dell’essere umano, della persona o dell’“uomo” in generale nella Bibbia senza parlare al plurale. L’esistenza umana è dapprima e innanzi tutto esistenza collettiva e comunitaria. Le leggi bibliche sul Giubileo suppongono questa concezione della vita umana. È per questo che esse vogliono proteggere la “famiglia” e impedire che essa sia dispersa o indebolita. Se la famiglia venisse a scomparire, sarebbe in pericolo l’esistenza del popolo stesso. Il problema è dunque assai grave e, per questo motivo, è Dio stesso che protegge la famiglia. In termini giuridici, ciò significa che la famiglia è sottratta ad ogni autorità umana; essa è sacra e non appartiene che a Dio solo.
A questi due grandi principi se ne aggiungono altri, più particolari, che è meglio spiegare insieme alle leggi.

  1. Il testo della legge

4.1. L’anno sabbatico

Il testo della legge sul Giubileo comincia col parlare dell’anno sabbatico, celebrato non  ogni cinquant’anni, ma ogni sette anni. Questa istituzione è più antica e meglio conosciuta. Se ne trova una prima formulazione in Es 23,10 e una seconda in Dt 24,19. Ogni sette anni bisogna, secondo queste leggi, lasciare i campi a maggese. La ragione di questa legislazione è duplice.
La prima ragione è di ordine pratico. All’epoca in cui questa legge è stata redatta, le tecniche agricole non erano molto sviluppate. I concimi naturali erano rari e i concimi artificiali non esistevano ancora. Inoltre il materiale agricolo era anch’esso assai primitivo. Aratri, erpici, trattori e altri utensili moderni che permettono di lavorare il suolo in profondità sono delle invenzioni recenti, che possono difficilmente essere comparate con l’attrezzatura di questa epoca. Bisognava accontentarsi, oltre a ciò, della trazione animale e la maggior parte dei lavori era manuale. Il suolo, naturalmente, si inaridiva e dopo aver coltivato per un certo numero di anni le stesse terre per raccogliervi gli stessi prodotti, i rendimenti diminuivano sensibilmente. La sola soluzione era dunque di lasciare la terra riposare per una stagione almeno. I contadini lasciavano dunque i loro campi a maggese a intervalli regolari affinché il suolo potesse “rifarsi”, cioè ritrovare tutti gli elementi che lo renderanno di nuovo fertile. Più tardi, nel Medio Evo, i monaci inventeranno l’avvicendamento triennale o rotazione delle colture: il primo anno si semina del grano, il secondo del foraggio e il terzo si lascia il suolo a maggese. Ma ritorniamo al nostro testo.
A questa ragione d’ordine economico si aggiunge una ragione d’ordine teologico. In poche parole, il popolo della Bibbia, come tutti i popoli della terra, pensa che il suolo e la sua fertilità venivano da Dio. Perché il suolo conservasse o ritrovasse la sua fertilità, occorreva “renderla” a Dio in un modo o nell’altro. Il modo più semplice è di permettere al suolo di ritrovare lo stato in cui era prima che gli uomini cominciassero a coltivarlo. Lo si lascia dunque a maggese. Questo ritorno allo stato primitivo o “ritorno alle origini” corrisponde a una “ri-creazione” o a un rinnovamento della creazione. Il fatto che ciò accada ogni sette anni rinforza il carattere sacro della consuetudine a causa della cifra sette che ha un valore particolare nella Bibbia come in Mesopotamia.
Le leggi sul Giubileo si innestano su quelle dell’anno sabbatico. In effetti il Giubileo non è che un anno sabbatico “al quadrato”, poiché è celebrato ogni cinquant’anni, cioè sette volte sette anni più un anno. Alcuni dicono che il Giubileo era celebrato in effetti ogni quarantanove anni, secondo un modo di contare assai comune nella Bibbia. Ad esempio, il Nuovo Testamento dice che Gesù è risuscitato il terzo giorno, mentre in effetti ciò è avvenuto due giorni dopo la crocifissione. La cifra è arrotondata, poiché il venerdì e la domenica (il primo giorno della settimana) sono contati come giorni interi. La stessa cosa vale o varrebbe per il Giubileo. La cifra cinquanta sarebbe una cifra “arrotondata”, ottenuta integrando nel computo l’anno giubilare precedente.
Oltre a questo fatto, si hanno delle buone ragioni di pensare che l’anno giubilare doveva essere celebrato di fatto dopo quarantanove e non dopo cinquant’anni. In effetti, il quarantanovesimo anno era già un anno sabbatico. Se anche il cinquantesimo lo fosse, ciò significherebbe che il suolo dovrebbe restare a maggese due anni di seguito. Aggiungiamo a ciò un anno, poiché bisogna attendere il raccolto dell’anno che segue l’anno giubilare per poter di nuovo disporre dei frutti del suolo. Questo è troppo e significa senza dubbio condannare una parte della popolazione a morire di fame. Già l’istituzione dell’anno sabbatico creava delle difficoltà a cui il testo di Lv 25,18-22 tenta di rispondere dicendo che Dio darà un raccolto più abbondante il sesto anno, in modo che sarà possibile sussistere fino alla raccolta che segue l’anno sabbatico. In realtà ci si chiede se la difficoltà non sorgesse in gran parte perché tutti devono lasciare i propri campi a maggese lo stesso anno. Sarebbe più ragionevole alternare e dunque lasciare i campi a maggese gli uni dopo gli altri, ma non tutti allo stesso tempo. È probabilmente ciò che si faceva. La legge cerca di organizzare e di uniformare vecchie pratiche secondo dei principi un po’ astratti e poco realistici. È d’altronde una delle ragioni per le quali si dubita che la legge sia mai stata applicata.

4.2. Le altre leggi

Le tre leggi seguenti hanno come scopo principale di rimediare – come detto in precedenza – le varie conseguenze dell’indebitamento cronico di una gran parte della popolazione. Possiamo ricostruire le tre possibili tappe di questa piaga sociale. In un primo tempo, il contadino impoverito doveva vendere i propri beni: il bestiame, la casa e i campi di coltivazione. Se questo non bastava, doveva chiedere denaro in prestito, o chiedere cibo contro la promessa di pagare più tardi in contente o in natura. Il tasso, per il denaro come per i beni materiali, era spesso proibitivo. Infine, se la situazione peggiorava ancora e l’indigente non riusciva ancora a saldare i suoi debiti che nel frattempo non smettevano di crescere, doveva vendere la propria famiglia e sé stesso come schiavi. La legge prevede misure particolari per queste tre situazioni. Perciò parlerò della legislazione sulle proprietà (soprattutto campi e case), sui debiti e, infine, sugli schiavi.

4.2.1. Le proprietà

Fra i beni immobiliari, la legge tratta solo dei campi e delle case, perché non possono essere venduti per sempre. In termini giuridici la proprietà dei campi e delle case è inalienabile. Colui che “acquista” ha unicamente l’usufrutto del bene che acquista. Su questo punto il testo biblico non può essere più chiaro, poiché afferma che non si vende che un certo numero di raccolti, non il campo stesso (25,16). Come per gli schiavi, i campi che hanno dovuto essere ceduti per pagare dei debiti, possono essere riscattati sia dal primo proprietario, sia da uno dei suoi parenti prossimi. Ad ogni modo, i membri della famiglia hanno diritto di prelazione sul loro patrimonio. Al momento dell’anno giubilare ciascuno rientra in possesso del suo patrimonio. La legge non è sempre esplicita. Essa non dice, ad esempio, chi può coltivare il campo quando una famiglia lo riscatta. Bisogna supporre che sia coltivato dall’acquirente fino all’anno giubilare e che in quel momento egli lo renda al suo proprietario originario. Ma questo non è del tutto certo.
È interessante notare le clausole introdotte dalla legge. Da una parte, Lv 25 esclude da queste leggi restrittive sulla proprietà immobiliare le case costruite in città. È dunque possibile acquistarle e venderle per sempre (25,29-31). La ragione di questa eccezione non viene fornita. In generale i commentatori dicono che la proprietà di una casa in città non è dello stesso tipo del possesso di una casa in campagna, poiché essa è meno necessaria alla sussistenza degli abitanti della città. Ma non è possibile avere certezze a questo proposito. D’altra parte, le case e i campi dei leviti che vivono in città non possono essere alienati. Qui si tratta senza alcun dubbio di beni indispensabili e che la legge vuole dunque proteggere.

4.2.2. I debiti

Può sembrare strano che le leggi di Lv 25 non prevedano un condono generale dei debiti, come era previsto da altre leggi più antiche. Dt 15,1-6 dice esplicitamente che, nell’anno sabbatico, bisogna rendere tutto ciò che è stato dato in pegno. Forse la legge del Levitico suppone che questa antica legge sia ancora in vigore e non giudica necessario ripeterla. Ma c’è un’altra spiegazione. Qui, ancora, sembra che le leggi del Levitico vadano più lontano, abolendo il prestito contro garanzie, cosa che limitava fortemente le conseguenze di un indebitamento. Lv 25,35-38 è esplicito a questo proposito. Secondo questa legge, se qualcuno cade nell’indigenza e diviene debitore di uno dei suoi “fratelli”, bisogna aiutarlo. Non è permesso approfittare della situazione per sfruttarla, non è permesso domandargli degli interessi in più oltre la somma prestata. Non tutti i dettagli della legge sono veramente chiari. Secondo l’esegesi più probabile di questo testo, la legge prevede il caso di un padre di famiglia che si indebita e si trova in una situazione sempre più difficile, cioè egli non riesce più a pagare i suoi debiti, anche dopo aver venduto casa e campi. La legge fa intervenire in questo caso la solidarietà familiare. Fra i suoi parenti più prossimi colui che è più agiato è invitato ad aiutare quest’uomo e la sua famiglia, prestandogli del denaro senza interesse e, all’occorrenza, a fornirgli il nutrimento sempre senza cercare di trarne profitto (25,37). Tutto ciò non è interamente chiaro. Tuttavia l’essenziale è assai comprensibile: colui che cade nella ristrettezza sarà sostenuto e vivrà «con suo fratello». La ragione profonda di questo dovere di solidarietà è l’esperienza comune dell’esodo e del dono della terra (25,38) che fa di Israele un popolo di fratelli (e di sorelle).

4.2.3. La liberazione degli schiavi

Prima di spiegare la legge, occorre precisare che c’erano nel Vicino Oriente antico due sorte di schiavi: gli schiavi perpetui, spesso degli stranieri e dei prigionieri di guerra, e gli schiavi temporanei, cioè le persone che dovevano “servire” un creditore per poter pagare i loro debiti. Le leggi di Lv 25, ben inteso, non parlano che della seconda categoria. Aggiungiamo un’altra precisazione importante a proposito del vocabolario impiegato. La Bibbia parla di acquistare e di vendere degli schiavi, così come parla di acquistare e vendere dei terreni. Questo vocabolario, assai offensivo in certi casi, lo è meno allorché si percepisce meglio la sfumatura di questi verbi. “Acquistare” significa acquisire dei diritti su una persona o un oggetto. “Vendere” significa cedere questi stessi diritti a un’altra persona. “Vendere” un bambino significa in questo caso cedere a qualcun altro l’autorità parentale – l’autorità paterna in una società patriarcale –. L’altra persona può dunque disporre di questo bambino come di uno dei propri figli. Ciò non attenua in nulla la situazione penosa che è propria delle famiglie indebitate ridotte a queste misure estreme, ma almeno il vocabolario impiegato non ha la crudezza che gli si attribuisce a volte.
Nella Bibbia la schiavitù per debiti non dura che sei anni. Secondo la legge di Es 21,2-11 la cosa non vale che per gli uomini. Ma, se qualcuno vende sua figlia come serva, ella resterà serva per tutta la vita. La legge del Deuteronomio cambia la cosa e dice esplicitamente che lo schiavo e la schiava devono essere liberati il settimo anno (Dt 15,12). Certe leggi della Mesopotamia obbligano a liberare gli schiavi per debiti dopo tre anni. Quanto al Levitico, esso parla di una liberazione generale ogni cinquant’anni. A prima vista ciò sembra favorire i grandi proprietari. Perché questo ritardo così lungo? Semplicemente perché la situazione prevista da Levitico è diversa. Innanzitutto la schiavitù come tale è praticamente abolita. La legge dice esplicitamente che, se qualcuno si “vende” come schiavo a un altro membro del popolo di Israele per pagare i suoi debiti, non potrà essere trattato come uno schiavo, ma dovrà essere trattato come un salariato o un ospite (25,40). Questa clausola limita fortemente i diritti del proprietario israelita sul suo “servitore”, anch’egli israelita. In secondo luogo la legge del Levitico introduce un altro modo, più rapido, di liberare gli schiavi che hanno dovuto vendersi a degli stranieri: il riscatto. Colui che si è venduto può “riscattare” sé stesso allorché ne ha la possibilità. Oppure un membro della sua famiglia può riscattarlo. Se dunque un parente prossimo ha i mezzi per cancellare il debito, egli è invitato a farlo in nome della solidarietà familiare (25,47-53). La legge fissa le modalità del pagamento della somma da versare in funzione dell’anno giubilare. Ad ogni modo tutti gli schiavi devono essere liberati in questo anno (25,40-54).

  1. La teologia delle leggi sul Giubileo

A proposito delle persone così come della proprietà, le leggi di Lv 25 affermano la sovranità di Dio, il Signore d’Israele. Per le persone, ecco il testo: «[Gli Israeliti] sono miei servitori, essi che io ho fatto uscire dal paese d’Egitto, e non devono essere venduti come si vendono gli schiavi» (25,42). Il v. 55 ripete la stessa cosa: «Gli Israeliti sono miei servitori, essi che sono miei servitori che ho fatto uscire dal paese d’Egitto. Io sono il Signore, vostro Dio» (25,55). La stessa idea di sovranità è ripetuta a proposito della terra, con altrettanta forza: «Voi non venderete la terra per sempre, poiché è a me che la terra appartiene e voi siete come stranieri e ospiti presso di me» (25,23). Il popolo e la terra appartengono in primo luogo esclusivamente a Dio. Dio stesso ha fatto uscire il suo popolo dall’Egitto e l’ha liberato dalla schiavitù. Nessuno in Israele ha il diritto di ridurre in schiavitù una persona che Dio stesso ha liberata. Allo stesso modo è Dio che ha dato la terra di Canaan al suo popolo (25,38). Nessuno può dunque alienare un bene che viene da Dio stesso. L’esperienza dell’esodo è fondamentale in queste leggi: con l’esodo Dio ha dato la libertà a tutto un popolo. Egli ha messo questo popolo da parte e ne ha fatto un popolo di fratelli (e di sorelle). È anche la ragione per cui questi privilegi non valgono per gli stranieri. È permesso anche di prestare a interesse a degli stranieri (Dt 23,20-21).
Tuttavia l’Antico Testamento contiene già in germe l’idea che tutta la terra appartiene a Dio e che tutta l’umanità forma un solo popolo di fratelli (e sorelle). Secondo il primo racconto della creazione (Gn 1,1–2,4a) è Dio che ha creato tutta la terra e l’ha affidata agli esseri umani (1,28). Quanto alla prima coppia, essa è stata creata «a immagine e somiglianza di Dio»; ciò significa che tutti gli esseri umani possiedono le stesse caratteristiche e sono dunque uguali davanti a Dio, loro creatore e Signore. Sarebbe dunque assai semplice estendere le leggi del Giubileo a tutto il genere umano e dire (1) che la libertà di tutti gli individui e di tutte le famiglie è inalienabile e (2) che i mezzi di sussistenza essenziali, come la terra, sono anch’essi inalienabili. Questa applicazione non viene fatta, come si è già detto, ma è potenziale.

  1. Il Giubileo nell’Antico Testamento

Le allusioni al Giubileo sono assai rare nell’Antico Testamento. Il libro di Ezechiele è uno dei pochissimi a parlare esplicitamente dell’anno della liberazione in una legge concernente la ricostruzione di Gerusalemme (Ez 46,17; cf Lv 25,10). Ma il testo del profeta non precisa quando ha luogo questo affrancamento dalla schiavitù.

6.1. Geremia 34

Altri due testi sono più espliciti. Ger 34 descrive l’affrancamento collettivo degli schiavi e delle schiave che fu deciso dal re Sedecia poco tempo prima della caduta di Gerusalemme. Le buone intenzioni, d’altronde, non durarono per molto tempo. I proprietari cambiarono parere assai rapidamente, fino a ridurre di nuovo in schiavitù i loro vecchi servi e serve. Tuttavia la legge che viene esplicitamente citata non è quella di Lv 25, la legge del Giubileo, ma quella di Dt 15, una delle leggi sull’anno sabbatico che domandava di liberare gli schiavi per debiti al settimo anno.

6.2. Neemia 5

L’altro esempio proviene dal libro di Neemia e la conclusione non è più positiva. Il governatore della Giudea, inviato dal re di Persia, deve far fronte ad un male endemico in Israele: l’indebitamento di una gran parte del popolo. Questi padri e queste madri di famiglia si lamentano presso Neemia perché devono vendere i propri figli come schiavi o dare in pegno i propri campi e le proprie vigne. Tutto ciò ormai è ben noto. Neemia propone una soluzione radicale, il condono dei debiti: «Restituite … immediatamente i campi, le vigne, gli oliveti e le case e rimettete il debito del denaro, del grano, del vino e dell’olio che avete prestato», dice ai creditori che accettano immediatamente (Ne 5). Questa misura ricorda sicuramente le direttive del Deuteronomio a proposito dell’anno sabbatico (Dt 15), che parla chiaro e tondo del condono dei debiti. Ma non si fa alcuna allusione alla celebrazione del Giubileo. Ne 10,32b è un altro testo che si collega all’anno sabbatico, ma non all’anno del Giubileo: «Rinunzieremo ai prodotti del suolo il settimo anno, così come all’intero credito».

6.3. Le leggi sul Giubileo sono mai state applicate?

Bisogna dunque arrendersi all’evidenza: non esiste nell’Antico Testamento una prova categorica che l’anno santo o Giubileo sia mai stato celebrato. Queste leggi non sembrano essere state messe in pratica. Coloro che difendono al contrario la tesi che le leggi siano state rispettate, non possono appoggiarsi che su delle probabilità, non su dei fatti.  Perché la legge non è entrata in vigore? Le ragioni sono molteplici. Con grande probabilità la legge non era veramente praticabile. Cinquant’anni è un tempo lungo che oltrepassa la speranza di vita della maggior parte della gente di quest’epoca. Se qualcuno diveniva schiavo proprio l’anno seguente un anno sabbatico, non aveva alcuna possibilità di essere liberato prima della sua morte. In più, bisogna rendersi conto che il fatto di dovere, nello stesso anno, liberare tutti gli schiavi e restituire ai loro proprietari tutti i campi ceduti per pagare dei debiti, poteva creare una situazione impossibile da gestire.
La teoria più interessante a questo proposito resta quella che vede nella celebrazione del Giubileo un ricordo della fine dell’esilio. In effetti l’esilio era durato circa cinquanta anni, dal 586 al 536 a.C. La fine dell’esilio fu accolta come una liberazione. Dio aveva liberato il suo popolo dalla schiavitù di Babilonia come l’aveva liberato dalla schiavitù d’Egitto (Ger 16,14-15; 23,7-8; Is 4,2). Dio ha anche restituito al suo popolo le sue terre e le sue case. Probabilmente le leggi del Levitico hanno voluto introdurre una festa che ricordi questo avvenimento.
Forse c’è dell’altro. Allorché gli esiliati hanno cominciato a ritornare, avranno trovato le loro terre e le loro case occupate da coloro che erano rimasti in patria.  La legge conterrebbe un appello a rendere agli originari proprietari ciò che apparteneva loro prima della caduta di Gerusalemme, o potrebbe anche giustificare che essi l’abbiano ripreso. Tutto ciò resta comunque congetturale.

6.4. Isaia 61

Esiste un ultimo testo importante dell’Antico Testamento che promette un anno santo. Questo testo è importante perché permetterà di fare un collegamento con il Nuovo Testamento. Si tratta di Isaia 61:

«Lo spirito del Signore è su di me,
poiché il Signore mi ha consacrato con l’unzione;
mi ha inviato a portare il lieto annunzio ai poveri,
a curare i cuori straziati,
ad annunciare la liberazione agli schiavi
e ai prigionieri la scarcerazione,
a proclamare un anno di grazia del Signore
e un giorno di vendetta per il nostro Dio,
per consolare tutti gli afflitti…» (Is 61,1-2).

Questo «anno di grazia» è di fatto l’anno santo o Giubileo, come risulta da un confronto tra l’oracolo e le leggi di Lv 25. È un anno in cui i prigionieri e gli schiavi dovranno essere liberati. Questi schiavi sono gli esiliati che vengono paragonati a coloro che sono diventati schiavi per pagare i debiti. I versetti seguenti sono espliciti circa l’identità dei beneficiari dell’oracolo:

«Ricostruiranno le vecchie rovine,
rialzeranno gli antichi ruderi;
restaureranno le città desolate,
i ruderi delle generazioni passate…» (Is 61,4).

Si tratta proprio degli esiliati che ritornano e ricostruiscono le città distrutte dall’invasione babilonese. Noi avremmo qui un’indicazione supplementare in favore del legame stretto tra il Giubileo e il ritorno dall’esilio. L’anno di grazia è dunque l’anno che mette fine alla deportazione e apre le porte del ritorno nella terra promessa.

  1. Il Giubileo nel Nuovo Testamento

Il Nuovo Testamento cita il testo di Isaia 61 in una pagina celebre del vangelo di Luca. Al momento della sua predicazione inaugurale a Nazareth, Gesù legge pubblicamente la Scritture. Prende il rotolo e legge il passaggio di Isaia 61 che abbiamo appena citato: «Lo spirito del Signore è su di me, egli mi ha consacrato con l’unzione…». Gesù tuttavia si arresta appena prima di parlare dell’anno di vendetta del Signore (Is 61,2b). Si contenta dunque di proclamare un anno di grazia, ma non di vendetta.
Nel vangelo di Luca questa predicazione di Gesù è essenziale. Egli afferma in effetti che questa profezia di Isaia si compie nel momento stesso in cui egli la legge. La sua predicazione inaugura dunque il famoso anno santo, il Giubileo che significa la fine della schiavitù e il recupero di tutti i beni perduti. Senza voler entrare in tutti i dettagli di una lunga spiegazione e di una lunga argomentazione, è certo che questo testo fa allusione al perdono dei peccati e di tutto ciò che può mantenere in schiavitù. Ma il vangelo di Luca è anche molto concreto. Il peccato è una forza distruttrice che consuma la società. Non si tratta soltanto di colpe personali e nascoste. Ora, il vangelo di Luca è quello che insiste di più sulla solidarietà verso i poveri, sulla condivisione dei beni e la rinuncia alle ricchezze. Negli Atti degli Apostoli la prima comunità cristiana vive un ideale che non può mancare di ricordare le leggi dell’Antico Testamento: «Tra i credenti, nessuno era nel bisogno. Poiché tutti coloro che possedevano delle terre o delle case le vendevano, portavano l’importo della vendita e lo ponevano ai piedi degli apostoli. Si distribuiva allora a ciascuno secondo le sue necessità» (At 4,34-35). L’inizio di questo testo afferma chiaramente che la comunità dei primi cristiani era riuscita a realizzare l’ideale progettato dal Deuteronomio nella legge sull’anno sabbatico: «Che non vi siano dei poveri in mezzo a voi!» (Dt 15,4). La predicazione di Gesù, la sua vita, la sua morte e la sua resurrezione avevano come scopo di fondare un nuovo tipo di comunità, una comunità dove si realizzano i sogni più folli del popolo d’Israele, tra gli altri quello di eliminare la povertà.

È venuto il momento di concludere. Oggi l’anno santo è vissuto come un grande condono dei debiti, cioè dei peccati. Il pellegrinaggio a Roma e la visita delle sette grandi basiliche e chiese romane permette anche di ottenere delle indulgenze speciali. Tutto ciò si ricollega alle leggi dell’anno sabbatico e sull’anno santo. Ma la prassi l’ha reinterpretato in un senso particolare, più spirituale e più individuale. Lungi da noi il voler eliminare questi aspetti. Tuttavia, all’alba del Giubileo, noi potremmo domandarci se non potrebbe essere opportuno anche aggiungere l’uno o l’altro elemento più concreto, nello spirito dell’Antico Testamento e del vangelo di Luca. Non sarebbe questa l’occasione di riflettere sul condono dei debiti, quelli che riducono in miseria intere nazioni? Non bisognerebbe riflettere su come creare una comunità cristiana, divenuta internazionale, dove non vi sia più povertà? Quali sono gli schiavi che bisogna ancora liberare? Quali sono le terre che bisogna rendere a coloro che ne hanno diritto? Come salvaguardare e promuovere l’integrità della famiglia e i mezzi di sussistenza? Non bisogna cercare di ritrovare qualcosa di simile a ciò che vivevano i primi cristiani, seconda la descrizione degli Atti degli Apostoli? Non è questo che Gesù è venuto ad annunciare quando ha inaugurato il primo anno santo del Nuovo Testamento?