«Lampada per i miei passi è la tua Parola»
Iniziamo a presentare una serie di riflessioni che il gesuita belga padre Jean Louis Ska – ben noto a chi frequenta le conferenze del C.I.B. – ha scritte sul Vangelo secondo Giovanni. Tutte le meditazioni in origine sono state pubblicate su Rinascere, rivista del Movimento Rinascita Cristiana, che ringraziamo per la gentile concessione.
di Jean Louis Ska
Introduzione alla lettura e alla meditazione di alcune pagine del Vangelo secondo Giovanni
- Un vangelo attuale
Ci proponiamo di leggere e meditare alcune pagine del quarto vangelo. Vi sono due ragioni principali per giustificare questa scelta.
Primo: il vangelo di Giovanni è stato scritto molto tardi ed è il frutto di una lunga riflessione sulla persona di Gesù Cristo in un cristianesimo in piena mutazione. Dopo la conquista e la distruzione di Gerusalemme da parte dell’esercito romano nel 70 d.C., il divario che separava ebrei e cristiani si è rivelato sempre più largo ed è divenuto in seguito incolmabile. Da lì nascono alcune opzioni importanti che saranno decisive per l’avvenire del cristianesimo: l’accoglienza di cristiani di origine “pagana”, vale a dire non ebrei; l’adozione del greco per la redazione degli scritti del Nuovo Testamento; l’espansione del cristianesimo, prima in tutto il bacino orientale del mar Mediterraneo, poi in altre parti dell’Impero Romano.
Il vangelo di Giovanni, scritto probabilmente attorno alla fine del I secolo d.C., cerca di rispondere alle domande del tempo, in particolare alle sfide di un vangelo di origine ebraica in contatto con altre culture, soprattutto la cultura ellenistica, che era una cultura più sofisticata di quella dell’ebraismo, ma anche una cultura politeistica e pagana.
Viviamo una situazione che ha più di un punto in comune con quella del vangelo di Giovanni, mi pare. Il mondo cristiano odierno è anch’esso in piena mutazione, in contatto con altre religioni e altre culture. Il cristianesimo europeo è invecchiato, mentre la fede cristiana si dimostra più vigorosa e più “giovane” in altre parti del mondo. La grande sfida odierna è di arrivare a ripensare il messaggio cristiano in una cultura pluralistica, secolare, multietnica e plurireligiosa.
La seconda ragione di scegliere brani del vangelo di Giovanni è di natura diversa. Il vangelo di Giovanni, fra i suoi tratti specifici, ne conta uno essenziale: l’insistenza sulla conoscenza. «Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo» (Gv 17,3): la vita eterna è un «conoscere». Notiamo che, in questo contesto, Giovanni non parla di credere. Non parla neanche di opere da compiere o di una vita conforme alle convinzioni profonde. Esiste certamente un pericolo di accentuare troppo l’aspetto cognitivo della fede cristiana e questo pericolo si chiama gnosticismo. D’altronde, penso che la maggiore insistenza su tale aspetto possa avere un effetto salutare su un inveterato cristianesimo pietista e moraleggiante. Il vangelo ci offre una sapienza, un modo di capire meglio il nostro destino, la vocazione dell’umanità, l’origine e il fine del nostro universo.
Nel vangelo di Giovanni vi è una relazione stretta fra «conoscere», «vedere» e «credere». L’episodio che illustra di più tale relazione è la guarigione del cieco nato (Gv 9). Il racconto inizia con la guarigione del cieco nato e termina con la sua fede in Gesù Cristo. È stato guarito per poter vedere il Figlio dell’uomo e credere in lui (Gv 9,35-38). I farisei di questo racconto, invece, non vogliono e non possono vedere perché «sanno» (Gv 9,24.29).
- Il vangelo della luce
Per tale motivo il vangelo di Giovanni è anche il vangelo della luce. Lo stesso Gesù affermerà di essere «la luce del mondo» (Gv 8,12; 9,5). Questa luce appare per la prima volta nel prologo (Gv 1,4-5): «[Nel Verbo] era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta». Il prologo inizia con le stesse parole del primo capitolo della Genesi: «All’inizio Dio creò il cielo e la terra» (Gn 1,1) e «All’inizio era il Verbo» (Gv 1,1). Il parallelismo suggerisce che la luce che appare, su ordine di Dio, nel primo giorno della creazione era, in realtà, la luce del Verbo che inizia ad illuminare il mondo. Siamo nel primo giorno della prima settimana della creazione e della storia del nostro mondo. Secondo il vangelo di Giovanni (così come negli altri vangeli) la risurrezione ha luogo anch’essa il primo giorno della settimana: «Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro» (Gv 20,1). «Quando era ancora buio», dice il vangelo di Giovanni, con ogni probabilità perché siamo ancora nella notte, nelle tenebre. Poco dopo splenderà la luce della risurrezione: siamo al mattino del primo giorno della prima settimana della nuova creazione, e la luce di quel giorno è la luce della risurrezione.
Il tema della luce sarà presente nel corso del vangelo, soprattutto nel cap. 3, alla fine della conversazione fra Gesù e Nicodemo che inizia, guarda caso, «di notte» (Gv 3,1). Come abbiamo visto, Gesù ne parla in Gv 8,12, poi nell’episodio del cieco nato (Gv 9,4-5) e in quello della risurrezione di Lazzaro (Gv 11,9-10). Al contrario di quello di Marco, nel vangelo di Giovanni il racconto della passione è un itinerario che conduce dalla notte alla luce. In Marco, in effetti, le tenebre coprono la terra in pieno giorno: «Quando fu mezzogiorno, si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio» (Mc 15,33). Nel vangelo di Giovanni, invece, siamo nella notte quando Giuda esce per tradire suo maestro (Gv 13,30). All’alba Gesù è condotto dalla casa del sommo sacerdote Caifa al pretorio per essere giudicato da Pilato (Gv 18,28). Infine, a mezzogiorno, Gesù si trova davanti a Pilato che lo proclama re davanti alla folla: «Era la Parasceve della Pasqua, verso mezzogiorno. Pilato disse ai Giudei: «Ecco il vostro re!»» (Gv 19,14). È difficile non cogliere il messaggio nascosto nelle tre notazioni di tempo presenti nel racconto giovanneo: passiamo dalla notte del tradimento alla piena luce del giorno quando passiamo dalla casa di Caifa al pretorio ove Pilato, governatore romano e rappresentante dell’imperatore, la più alta autorità politica del momento, proclama Gesù di Nazaret «re dei Giudei». Il giudizio ha luogo nella piena luce del giorno e «fa luce» sul caso Gesù. Come abbiamo visto, l’esperienza della risurrezione è anch’essa legata al mattino, così come il Risorto apparirà un’ultima volta sulla sponda del lago di Galilea «al mattino» (Gv 21,4).
- Le radici nell’Antico Testamento
Fra le tematiche del vangelo di Giovanni che vale la pena di notare, occorre annoverare il suo uso dell’Antico Testamento. Avremo l’occasione di vedere che ogni pagina ha profonde radici nell’Antico Testamento. Un solo esempio basterà: nel cap. 5 Gesù guarisce un uomo che era malato «da trentotto anni» (Gv 5,5). Il dettaglio è stato spiegato in modi diversi e, per alcuni, non ha alcuna importanza. Giovanni, tuttavia, poteva semplicemente dire: «era malato da molto tempo» o «da quasi quarant’anni». Perché proprio «trentotto»? La soluzione – penso – si trova in Dt 2,14, dove Mosè dice: «La durata del nostro cammino, da Kades-Barnea al passaggio del torrente Zered, fu di trentotto anni, finché tutta quella generazione di uomini atti alla guerra scomparve dall’accampamento, come il Signore aveva loro giurato». Siamo nel quinto libro del Pentateuco, Israele è arrivato sulle sponde del fiume Giordano e si prepara ad attraversarlo per entrare nella Terra Promessa. Tutta la generazione ribelle è morta nel deserto e, quindi, Israele si è “rinnovato” e una generazione nuova attraverserà il Giordano. Ai trentotto anni di Dt 2,14 occorre aggiungere i due anni necessari per arrivare dall’Egitto al monte Sinai (che si chiama Oreb nel Deuteronomio), il tempo passato presso il monte Oreb/Sinai e il tempo del viaggio dall’Oreb/Sinai fino a Kades-Barnea. Sono due anni. Il totale è pertanto quaranta, come sappiamo tutti.
La situazione di quel uomo malato da trentotto anni è davvero più che simile alla situazione di Israele nel libro del Deuteronomio. Aspetta la guarigione e una vita normale da trentotto anni, come Israele aspetta di entrare nella Terra Promessa dopo un lungo cammino di trentotto anni. L’uomo si trova davanti a una piscina nella quale deve entrare per essere guarito come il popolo di Israele si prepara ad attraversare il Giordano. La piscina ha cinque portici, come il Pentateuco contiene cinque libri. Alla fine del quinto libro, il Deuteronomio appunto, Mosè muore e Giosuè prende il suo posto per guidare il popolo attraverso il Giordano e farlo entrare in possesso della Terra Promessa. Nel vangelo è Gesù che guarisce il paralitico e lo fa entrare nella vera vita che simboleggia la vita eterna. Ora, ultimo particolare, in aramaico il nome Gesù significa “Il Signore salva”. Ed è esattamente il significato del nome Giosuè in ebraico. Per il vangelo di Giovanni il vero Giosuè che completa l’opera di Mosè e guida il popolo nella vera Terra Promessa, è Gesù. Il passaggio del Giordano è quindi, per il vangelo, il passaggio dall’Antico al Nuovo Testamento, il momento in cui Mosè lascia la guida del popolo a Giosuè/Gesù. Si potrebbe dire che la continuazione del Deuteronomio, secondo Giovanni 5, è il libro di Giosuè/Gesù, vale a dire il vangelo.
Tutto ciò sembra difficile e un po’ arzigogolato, più vicino alle speculazioni di alcuni cabalisti che non al vangelo. Nondimeno, l’affermazione finale è abbastanza chiara: Gesù è annunziato dall’Antico Testamento, è aspettato per completare l’opera incompiuta da Mosè e dai suoi successori. È lui che fa entrare il popolo definitivamente in possesso dei beni promessi da Dio, vale a dire, in fin dei conti, la vita eterna.
- Il «discepolo che Gesù amava»
Per una lettura fruttuosa del vangelo di Giovanni potrebbe servire un ultimo dettaglio. Nel vangelo di Giovanni i discepoli sono chiamati uno dopo l’altro, in una serie di piccole scene che leggiamo alla fine del primo capitolo (Gv 1,35-51) e che culminano nella scena delle nozze di Cana (Gv 2,1-11). Vale la pena leggere la prima scena, la chiamata dei primi due discepoli (Gv 1,35-40):
35Il giorno dopo Giovanni stava ancora là con due dei suoi discepoli 36e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: «Ecco l’agnello di Dio!». 37E i suoi due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù. 38Gesù allora si voltò e, osservando che essi lo seguivano, disse loro: «Che cosa cercate?». Gli risposero: «Rabbì – che, tradotto, significa Maestro –, dove dimori?». 39Disse loro: «Venite e vedrete». Andarono dunque e videro dove egli dimorava e quel giorno rimasero con lui; erano circa le quattro del pomeriggio. 40Uno dei due che avevano udito le parole di Giovanni e lo avevano seguito, era Andrea, fratello di Simon Pietro
Vi sono due domande alle quali il racconto non risponde: uno dei discepoli si chiama Andrea, ma non sappiamo come si chiama il secondo, e il resto del vangelo non risponderà mai a questa domanda. Secondo elemento che sorprende: due discepoli si trovano per la prima volta per un certo tempo con Gesù e non sappiamo di che cosa hanno parlato. Abbiamo un discepolo senza nome e una conversazione senza contenuto.
Tutto ciò incuriosisce il lettore che vorrà sapere chi è il discepolo e che cosa si dicono Gesù e i discepoli quando stanno insieme. Per saperlo, occorre percorrere il resto del vangelo. Sapremo, in questo modo, che cosa significa “essere discepolo” e qual è l’insegnamento di Gesù. C’è pertanto un posto vuoto all’inizio del vangelo che può essere occupato da qualsiasi lettore.
Nell’ultima parte del vangelo di Giovanni riappare un discepolo chiamata «il discepolo che Gesù amava». Alcuni identificano questo discepolo con il discepolo anonimo di Gv 1,35-40 e lo identificano anche con Giovanni. Tutto ciò è certamente possibile; però il vangelo di Giovanni non chiama mai questo discepolo per nome. Il «discepolo che Gesù amava» appare durante i discorsi dopo l’ultima cena e si trova proprio accanto a Gesù in questo momento (Gv 13,22). È anche presente presso la croce (Gv 19,26), con Maria, la madre di Gesù e le altre donne. Solo nel vangelo di Giovanni troviamo un discepolo vicino alla croce. Inoltre sarà questo discepolo ad arrivare per primo alla tomba vuota la mattina di Pasqua, e sarà il primo discepolo in assoluto a credere nella risurrezione senza aver avuto alcuna apparizione o alcun messaggio da un angelo. Entra nella tomba dopo Pietro, vede ciò che Pietro vede, e crede dopo aver visto solo la tomba vuota, il sudario in un posto e le bende da un’altra parte (Gv 20,2-10). Infine è menzionato nell’ultima pagina del vangelo, ossia l’apparizione di Gesù presso il lago di Tiberiade e il racconto della pesca miracolosa, in Gv 21,7.20. Nuovamente, lui riconosce Gesù risorto per primo (Gv 21,7).
Il «discepolo che Gesù amava» rimane anonimo per diverse ragioni. Penso, però, che si tratti di una strategia intenzionale del quarto vangelo. Il «discepolo che Gesù amava» è, in realtà, il modello del discepolo e perciò rimane anonimo: ogni lettore del vangelo può prendere il suo posto. Per Umberto Eco sarebbe “il lettore modello”, presente, però, all’interno del racconto.
Essere molto vicino a Gesù durante i discorsi dopo l’ultima cena; stare presso la croce al momento della crocifissione e della morte di Gesù di Nazaret; ricevere Maria come madre e diventare suoi figli, poi prendere Maria a casa sua; correre al mattino del primo giorno della settimana verso la tomba vuota e credere senza aver bisogno di alcun segno o messaggio particolare; riconoscere immediatamente Gesù risorto nei segni della sua presenza: questo è il programma proposto a tutti i lettori e a tutte le lettrici del vangelo. Spetta a noi essere o non essere «il discepolo che Gesù amava», nella lettura e nella meditazione del vangelo.