Parole che uccidono: Non testimonierai il falso (Es. 20, 13)
di Antonio Nepi
La nona parola del Decalogo in Es 20 suona letteralmente «non deporre contro il tuo prossimo un testimone falso» (v. 16) Il termine testimone (‘ēd), così come il termine «deporre contro» (‘ānāh be, cf. Nm 35,30; Pr 25,18) rinviano ad un mondo giuridico, di relazione e di verità. Originariamente il IX comandamento non riguardava indistintamente qualsiasi genere di falsa testimonianza, ma unicamente la deposizione data o escussa nei tribunali. La fraseologia adottata rientra nel campo delle procedure forensi di Israele, ma anche dell’Antico Vicino Oriente, tra cui si staglia il Codice di Hammurapi, perché consacra i primi paragrafi alla falsa testimonianza (vedi il §3, analogo a Dt 19,16-19).
Un’ovvia premessa: i falsi testimoni possono accusatori a carico di un soggetto in realtà innocente; ma esistevano altri tipi di falsi testimoni che cercavano di coprire un soggetto colpevole, testimoniando a discarico. Al nostro testo interessano quelli a carico, perché si macchiano di un gravissimo omicidio legale.
Il Decalogo parla di un testimone oculare che fissa mentalmente ciò che i suoi sensi hanno registrato, sicché tale ricordo permane vivido. Infatti non si parla di testimonianza, ma di testimone. Pertanto non si può deporre per sentito dire, nemmeno da persone autorevoli e pie. Questo è confermato dal verbo, che, oltre ad «accusare», significa anche «recitare, intonare una canzone» (Dt 21,7; Es 32,18), invece del più normale «non testimonierai» (lō ta’ìd). In altre parole, si evita un processo-farsa e si raccomanda: «puoi essere un testimone solo se sei un verace testimone». Il «prossimo» non è solo il connazionale, ma quello che in un determinato contesto si trova vicino. Il comandamento obbliga quindi a dare una testimonianza genuina; cf. Pro 14,5,25: «il testimone vero non mente; quello falso spira menzogne. Salvatore di vite è un testimone vero, chi spaccia fandonie è un impostore» (in latino versipellis, pari a un lupo mannaro).
La versione di Es 20,16 diverge lievemente da quella di Dt 5,20. Es 20 parla di «testimone mendace», mentre Dt 5,20 «testimone falso/di futilità» =‘ed saw’; in Sal 12,3 è sinonimo di un cuore doppio. La sostanza però è la stessa: alla radice della testimonianza menzognera si trova sempre la mancanza di autenticità. Questa variante crea un legame tra il IX interdetto ed il III «non nominare il nome di Dio invano». Può tradursi con: è vietato l’uso indebito del nome di Adonay (=JHWH), per ingannare, danneggiare, spergiurare (cf. Sal 24,3-4). Per alcuni, oltre che per un giuramento falso, significa utilizzarlo magicamente per un maleficio, per altri in modo inutile, sciocco, irridente. All’epoca della stesura scritta, postesilica, ha un senso sintetico che stigmatizza ogni abuso nel e con il nome del Signore, contrario al «sia santificato il suo nome». Il legame tra III e IX comandamento è intercettabile in quei casi in cui, per dirimere una questione che resta incerta perché l’accusa non poteva addurre testimoni a favore, si ricorreva al giuramento dinanzi ad Adonay.
Nell’antico Israele di solito i processi si facevano alle porte pubbliche della città o dei santuari o nel palazzo reale (Es 21,6; Dt 21,6; Rt 4; 2Sam 15,1). Membri della corte erano i residenti, dotati di diritti civili (non donne e bambini). I casi erano diversi, ma la prassi processuale sostanzialmente invariata. La corte era seduta, i testimoni in piedi. Se uno era a conoscenza di un crimine, si presentava dal giudice, denunciava il reo e chiedeva la sua punizione, per cui il richiedente era simultaneamente accusatore e testimone (cf. 1Re 21,10.13; Mi 1,2). Malgrado la durezza senza sconti, gli abusi e le false testimonianze perpetrati dovevano essere assai frequenti, come si evince dai testi legislativi della Torah (Es 23,1-3; Lv 19,15), nelle invettive profetiche (Is 1,23; Am 5,7-10), nelle querele dei Salmi (Sal 27,12; 35,11), nei consigli dei sapienti (Pro 6,19; 12,17; 19,5.9). In questi testi riaffiora più o meno esplicita la fraseologia del nostro comandamento. Più tardi ci saranno tribunali in seconda istanza e la possibilità del Sinedrio a Gerusalemme.
Al fine di evitare abusi, la legge esigeva due testimoni a carico nei casi più gravi (Nm 35,30; Dt 17,6; Dan 13,34). Essi si assumevano la responsabilità della sentenza, ad esempio iniziando la lapidazione (Dt 17,7; cf. Gv 8,7). Ma, se i giudici nella loro verifica appuravano la falsità dell’accusa, i testimoni fedifraghi erano condannati alla stessa pena comminata all’accusato (Dt 19,18-19; Dn 13,60). La testimonianza era un fatto vitale, serio, perché decideva della vita dell’accusato, come nel caso mortale di Nabot (1Re 21), dove la regina Gezabele, complice del re Acab, dipinto in tutta la sua omertà oppure a quello dei vecchi bavosi che vogliono stuprare Susanna; a quella disperatamente egoista di una madre in 1Re 3. Tutti questi episodi violano la legislazione in merito alla verità processuale, ben riassunta, tra altri testi, da Es 23,1-8: «1Non spargere false dicerie e non favorire il colpevole attestando il falso. 2Non seguire la maggioranza per fare il male e non deporre nel processo schierandoti dalla parte della maggioranza per pervertire la giustizia. Rifuggi da ogni parola bugiarda; e non far morire l’innocente e il giusto; perché io non assolverò il malvagio. (…) 8Non accettare nessun dono; perché il regalo acceca quelli che ci vedono e corrompe le parole dei giusti».
Dal suo contesto forense, questa testimonianza menzognera si estende e pervade la quotidianità della vita. Possiamo pensare alla menzogna dell’avido Giezi in 2Re 5. La Bibbia ci dice che la falsa testimonianza nasce dalla smania di potere e di controllo e, in ultima analisi, è figlia della paura, dell’ignoranza, dell’invidia (da in-video, mai come nel nostro tempo di immagini proiettate a iattura…). Il primo peccato della Bibbia è la falsa testimonianza-proiezione del serpente su Dio. L’esperienza del deserto sarà una continua calunnia contro Dio. Dio non sopporta false o superficiali testimonianze su di Lui, perché coincidono con l’idolatria: il Decalogo si apre con il veto «non esiteranno per te altri dèi sulla mia faccia» (lefanay, non solo «al di fuori»).
Tornando al versante antropologico, la falsa testimonianza in tutte le sue declinazioni (diffamare, calunniare, sparlare, denigrare, mormorare, ritoccare…) attraversa la storia e la letteratura. Esiodo deplorava il pettegolezzo e considerava la calunnia (= Diabolé) una divinità. Erodoto la considerava terribile, perché danneggia chi calunnia, chi la subisce e chi la ascolta. Per Shakespeare persino la casta Ofelia non sarebbe potuta sfuggire al celebre Calomniez calomniez en restera toujours quelque chose, per non parlare della calunnia/Fama mostruosa di Virgilio e del venticello di Rossini. Possiamo ricordare, a mo’ di sintesi, la denuncia biblica di Pr 25,8; «Mazza, spada e freccia acuta, è colui che depone da testimone falso contro il suo prossimo». Nel mondo antico la testimonianza mendace era di importanza vitale. Il processo non era civile, ma penale e determinava la vita dell’accusato, che poteva essere condannato a morte. Responsabilità di vita, dunque. Ma questo accade soprattutto nella quotidianità. I veri testimoni devono porre la verità al servizio della giustizia e dei diritti del prossimo, perché la parola falsa violenta il diritto e mina le fondamenta sociali. Giustamente S. Tommaso nota: «Gli uomini non potrebbero vivere insieme se non esistesse una confidenza reciproca, cioè se la verità non si manifestasse” (Summa IIa IIae, 110,3). La falsa testimonianza spezza i legami della lealtà.
Passando rapidamente al NT, possiamo ricordare che per Giovanni i credenti sono coloro che si lascia guidare dallo spirito di verità: «Chi non ama rimane nella morte. Chiunque odia il proprio fratello è omicida, e voi sapete che nessun omicida possiede in sé stesso la vita eterna» (1Gv 3,14b-15). La lettera di Giacomo è emblematica sui danni della lingua, piccola, ma esiziale (Gc 3,1-12!) e oggi direbbe altrettanto persino di un semplice fotogramma o fake – velenosamente buttato in rete.