Dopo l’ultimo testimone

Dopo l’ultimo testimone

Pensare il futuro tra la fragilità della memoria e le non certezze e della storia

 

di Gianpaolo Anderlini

Anche quest’anno, pur se in forma minore per altri problemi che toccano direttamente le nostre vite, il fuoco di fila mediatico, dai giornali alle tv a pagamento passando per i social network, ci ricorda che il 27 gennaio è il Giorno della Memoria. Articoli, libri allegati ai giornali, nuove pubblicazioni, film, documentari, testimonianze, interviste, special e tanto altro ancora.

            Quest’anno almeno, e ve ne spiegherò le (mie) ragioni, ci è stato evitato lo show mediatico e l’immancabile retorica del Ministro della Pubblica Istruzione di turno che accompagna studenti nel Viaggio della Memoria ad Auschwitz. Così (ed è quello che io penso) non abbiamo dovuto ascoltare di nuovo, e, come la storia mostra, inutilmente, il richiamo all’imperativo morale del “Mai più!” e la retorica del passaggio del testimone. In  molti (anzi, in troppi) insistono, oggi più di ieri, sulla necessità irrinunciabile che i giovani divengano testimoni dei testimoni dato che per motivi anagrafici i superstiti/testimoni ci hanno lasciato e ci stanno lasciando; penso, per citare solo coloro che hanno fatto del testimoniare il senso del loro essere sopravvissuti,  a Elisa Springer (2004), a Shlomo Venezia (2012), ad Elie Wiesel (2016), a Josef Varon (2017), a Piero Terracina (2019) e, da ultimo solo in ordine di tempo, a Nedo Fiano (2020).

            In molte iniziative promosse per celebrare il 27 gennaio si continua a parlare dei giovani come “testimoni dei testimoni”, dando in tal modo voce alla retorica della memoria e del passaggio del testimone.[1]

            Domanda.

            Si può essere testimoni dei testimoni?

            Evidentemente no, per ovvi motivi, a tutti chiari, legati sia alla memoria sia ai contenuti e alle modalità proprie della testimonianza o dell’essere testimoni. Se, infatti, Primo Levi poteva affermare che i veri testimoni sono coloro che non sono tornati e lo poteva fare, lui che molto ha testimoniato e meditato, perché con chi non è tornato aveva condiviso l’esperienza concentrazionaria ad eccezione della morte e della camera a gas; le nuove generazioni, invece, cosa possono testimoniare se non ridire balbettando le parole dei testimoni o, semplicemente, tenere vivo  l’appello a non dimenticare che questi ci hanno lasciato?

            Se le nuove generazioni, come quella che le ha precedute, non possono farsi testimoni dei testimoni, come è possibile trasmettere loro il dovere della memoria, come imperativo morale e come dovere civico?

            Non è facile, perché cambiano i tempi, cambiano i giovani, cambiano le modalità di rapportarsi col passato e di progettare il futuro, cambiano le domande e mutano le aspettative anche nei confronti di ciò che è stato[2].

            Non è facile ma non si può rinunciare a percorrere strade su cui possano camminare anche le nuove generazioni per giungere a scardinare quelle porte che noi non abbiamo nemmeno scalfito.

            Questa almeno è la speranza che mi ha mosso e che mi muove nel continuare a coltivare il seme della memoria.

            Propongo un cammino in tre tappe.

            Una provocazione e due libri che a loro volta sono provocazione.

            Inizio con quella che impropriamente definisco provocazione ma che in realtà dovrei definire una precisazione.

            Rileggiamo insieme l’articolo 1 della Legge n. 211 del 20 luglio 2000 “Istituzione del “Giorno della Memoria” in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti”:

“Art. 1.

  1. La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, “Giorno della Memoria”, al fine di ricordare la Shoah(sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati.”

            Di tutto ciò che cosa manca o continua a mancare nelle pubbliche celebrazioni del 27 gennaio e nelle riflessioni che lo accompagnano?

            Vorrei lasciare a voi la risposta, ma mi preme precisare un punto per non lasciare spazio alle infinite letture possibili.

            Se il titolo della legge è chiaro e non lascia spazio a dubbi, il contenuto dell’art. 1, nell’indicare cosa siamo chiamati a fare memoria è meno preciso non per quanto riguarda la Shoà e la persecuzione degli ebrei, ma in relazione a quanto è accaduto ai “deportati militari e politici italiani nei campi nazisti” ora definiti “gli italiani che hanno subìto la deportazione”, che rischia di essere una tautologia, se si perde il riferimento ai deportati militari e politici italiani, perché gli ebrei erano cittadini italiani, punto e basta.[3]

            Per motivi legati al clima culturale e politico in cui la legge è stata emanata e per l’utilizzo pubblico che se ne è fatto, il Giorno della Memoria si è concentrato quasi esclusivamente sulla Shoà e quindi sullo sterminio degli ebrei in Europa (e del resto la scelta del 27 gennaio spingeva inevitabilmente in quella direzione) a cui si è aggiunto il ricordo della strage dei Sinti e dei Rom e dei Testimoni di Geova negli stessi campi di sterminio.

            Per una sorta di oblio generale, invece, la memoria deportati militari e politici italiani nei campi nazisti e della loro sorte è passata in secondo piano, per non dire nel silenzio, se non fosse per l’attività dell’ANED (Associazione Nazionale ex Deportati) e di altre Associazioni che continuano a mantenere vivo il ricordo di ciò che è accaduto.

            E’ per questo che i Viaggi della memoria, se ancora hanno un valore educativo così come organizzati, dovrebbero mettere insieme la visita ad Auschwitz e a Mauthausen, luoghi simbolo il primo del genocidio degli ebrei e il secondo della sorte dei deportati militari e politici.

            Auschwitz, per quanto riguarda le vicende italiane nel loro complesso, non basta.

            Pur essendo la Shoà, e quindi la dimensione ebraica, il punto focale delle celebrazioni legate al 27 gennaio, non dobbiamo correre il rischio di ridurre la memoria al fatto ebraico per mantenere vivo, al di là dei numeri, il ricordo della sofferenza e della morte di tutti coloro che il regime nazista ha considerato, con diverse motivazioni, non degni di vivere o comunque da eliminare perché o inutili o pericolosi.

            Perché le cose sono andate così e continuano ad andare in questo modo in Italia?

            Do una risposta banale e insieme provocatoria.

            Perché i deportati militari e politici non hanno avuto il loro Primo Levi, un Guccini che li cantasse o un processo Eichmann.

            Questa riflessione ci apre le porte al primo libro: Contro il Giorno della Memoria di Elena Loewenthal.[4]

            L’Autrice parla da ebrea e mette in risalto alcuni punti critici del Giorno della Memoria e, in particolare, stigmatizza l’atteggiamento di chi fa del Giorno della Memoria un atto di omaggio (postumo) agli ebrei, una sorta di memoria riparatrice e consolatoria:

“Da celebrazione introspettiva, il GdM si è ben presto trasformato in qualcosa di diverso: un atto di omaggio al popolo ebraico. A quella sua parte morta ad Auschwitz (e non solo lì, non va infatti dimenticato che l’universo dello sterminio è molto più vasto, nei modi, nei luoghi, nei tragitti compiuti). A quella sua parte sopravvissuta o venuta dopo, che in fondo è e si sente anch’essa sopravvissuta. Ed è anche per questo che ci si sente in dovere di fare, ostentare, inventare in occasione della ricorrenza: per dimostrare l’impegno e lo slancio. Per dar conto, più ad altri che a se stessi, che ci si ricorda, eccome. Che si celebra quel ricordo senza risparmio di impegno e di visibilità.”[5]

            Ma se memoria ha da essere perché ad essa non si deve rinunciare, qual è l’oggetto e quale il soggetto di questa memoria?

            Elena Loewenthal non ha dubbi e sembra dire: non siamo noi ebrei, siete voi il soggetto che deve fare memoria di se stesso!

            Ascoltiamolo dalle sue parole:

“Con ciò, beninteso, non si vuol dire che l’accezione originaria del GdM vada nella direzione di una indiscriminata colpevolizzazione. Non è questione di dare  o rinfacciare colpe, ormai. Si tratta soltanto […] di assumersi la «proprietà» di questa storia. Di riconoscere che non è una storia altrui cui si rende omaggio, ma la propria che si ricorda per quello che è. Anche se è orribile. Ma non si può fare a meno di riconoscerla come qualcosa che ci appartiene: «E’ roba nostra, purtroppo».

Invece no. Invece, con il passar del tempo la memoria di quella storia è tanto enfatizzata quanto misconosciuta, attribuita a quelli che non ne sono i legittimi né tantomeno esclusivi proprietari. […] La storia è di chi la fa, di chi la vede, di chi c’è e di chi viene dopo chi c’era. Non di chi non c’è più per via di quella storia.

Invece il GdM è diventato un atto di omaggio agli ebrei. Visto che siete morti così in tanti, vi celebriamo. Vi ricordiamo. Benissimo (si fa per dire). Ma che c’entra, con il GdM?”[6]

            Se non è degli ebrei che dobbiamo parlare (e questo mi sembra che dovrebbe essere chiaro o diventarlo), di chi e di cosa dobbiamo parlare il 27 gennaio?

            Dobbiamo parlare di noi, dell’Europa, di chi è stato a guardare, di chi ha contribuito a mettere in atto prima la persecuzioni dei diritti (leggi razziali in primo luogo) e poi la persecuzione delle vite. La memoria, di conseguenza, non deve essere un atto di omaggio agli ebrei, ma deve servire “a riconoscere quella storia come propria. Italiana. Altro che ebraica” (p. 64).

            Allora è di questo che dobbiamo parlare, ci ingiunge Elena Loewenthal:

“Perché se gli ebrei ci hanno messo la carne da macello, l’Europa e l’Italia ci hanno messo i fonogrammi diramati a tutti i comandi di polizia della penisola occupata in cui si ordinava di rastrellare gli ebrei. Ci hanno messo gli appelli. Le stazioni ferroviarie dove i deportati venivano caricati su vagoni merci. Il fragore dei vagoni merci sui binari. […] E i campi di concentramento, sul suolo del nostro Paese. E prima ancora le leggi razziali, con tutto quello che hanno comportato. Non è questa la sede per ripercorrere la storia. Certo è una storia abbondante di cose, persone, voci, rumori, immagini. Purtroppo.

Che per lo più non sono di ebrei: loro, in questa storia, per lo più stavano ammassati dentro vagoni merci sigillati e ciechi. Al di là di questa storia. Oltre. Nel silenzio di una morte o annunciata o imminente o realizzata. Tutto il resto, tutto l’armamentario di questa terribile storia, è europeo. Italiano.”[7]

            Se questo avrebbe dovuto essere il percorso da compiere il 27 gennaio e non lo è stato nei vent’anni che hanno seguito l’istituzione della legge, e se non lo è stato per un errore di prospettiva che ci ha portato sì conoscenza ma non consapevolezza, cosa dobbiamo fare per recuperare la giusta prospettiva della memoria?

            E’ un percorso non facile perché ci costringe a mettere in gioco le nostre certezze e ad abbandonare le liturgie pubbliche finora seguite e rinnovate anno dopo anno, per mettere al centro del nostro fare memoria la riflessione necessaria su quanto è accaduto allora in Italia per mano di italiani (prima soli poi assieme ai tedeschi) e per recuperare non una memoria riparatrice ma una memoria che sappia ridisegnare il presente ed aprire le porte del futuro.

            Qui come altrove.

            In ogni luogo.

            Per ogni uomo.

            Per fare questo, oltre ad assumere sulle nostre spalle il peso di ciò che è stato non per rifugiarci nel “Mai piu!” o per chiedere perdono (richiesta peraltro irricevibile dalle comunità ebraiche), è necessario riempire di altri contenuti e vivere con altre modalità il Giorno della Memoria, tenendo ben presente che non è quel giorno a definire e a determinare il nostro (ri)fare memoria se poi si torna a cadere in trecentosessantaquattro giorni di oblio o di totale indifferenza.

            Ma perché la memoria pubblica possa essere un motore capace di consentire a tutti, uno per uno e nessuno escluso, di costruire in noi quegli anticorpi capaci, quando ne sarà e se ne sarà il momento, di fare la scelta giusta per il bene e per la dignità di ogni uomo, è necessario evitare gli errori che abbiamo commesso e che continuiamo a commettere.

            La sovraesposizione e la ripetitività nei gesti e nelle parole della memoria pubblica, infatti, possono dare vita a tre diverse modalità di tradimento della memoria:

  1. la banalizzazione,
  2. la ritualizzazione,
  3. la sacralizzazione.

            La banalizzazione.

            E’ questo il pericolo più diffuso e che si annida in ognuno di noi e nella società intera, a tutti i livelli. Siamo ormai tanto abituati a sentire parlare di Auschwitz e della Shoà e dell’abisso di male e di dolore che li accompagna, che, quando dobbiamo fare i conti con il dolore e il male nel nostro tempo presente, ci viene quasi naturale utilizzare quei nomi per stigmatizzare, anche se in modo improprio ciò che sta accadendo.

            Faccio alcuni esempi.

            La shoà dei migranti.

            “Quel canile è un lager”.

            “Il vaccino rende liberi” (accompagnato da una foto del cancello di Auschwitz).

            “I miei figli come ebrei sotto Hitler” (detto da Berlusconi).

            “Se questo è un paese. P2 macht frei” (pubblicato nel blog di Beppe Grillo).

            “Ci vorrebbe una bella cura con lo ZyklonB” (invettiva di un politico di destra contro la mancata raccolta dei rifiuti).

            E da ultimo il sindaco di Milano: “Due donne coraggiose: Greta Thunberg come Anna Frank”!

            Oppure la banalizzazione diventa un fatto di costume o di social network come si dice oggi.

            E’ , ad esempio, il caso di “Giochiamo alla Shoà”, che tanto successo ha su TikTok.

            La banalizzazione sfocia, purtroppo e spesso, nell’antisemitismo ed assume ben altre caratteristiche la cui analisi va oltre il contenuto di questa trattazione.

            Solo un esempio

            “Se volete vedere un lager attuale andate a Gaza” (parole usate nella presentazione su Facebook di un corso sulla Shoà predisposto da una università).

            Si potrebbe continuare all’infinito.

            Mi limito a dire che Auschwitz e la Shoà non sono una metafora e nemmeno un termine di paragone.

            E qui aggiungo che è necessario prestare attenzione anche quando, dal punto di vista storico, si mettono a confronto realtà diverse. Si può, ad esempio, confrontare, con le specifiche continuità e soprattutto discontinuità, i lager nazisti e i gulag sovietici ma non si può dire che i gulag sono come i lager. Ma su questo aspetto  avremo modo di ritornare.

            La ritualizzazione.

            E’ questo il pericolo che nasce dalla memoria pubblica imposta ope legis e ripetuta, di anno in anno, con le sue liturgie, con i suoi proclami, con le sue immagini, con l’uso delle parole e dei volti dei testimoni, col parlare, come ci diceva Elena Loewenthal, più degli ebrei e della loro storia che di ciò che abbiamo fatto “noi”, non lontano da casa nostra e anche in casa nostra.

            La ritualizzazione è, per certi aspetti più pericolosa della banalizzazione perché si fonda su una retorica imposta dall’alto e che come tale può giocare solo sul lato emotivo delle persone e non sul reale loro coinvolgimento in un percorso di costruzione del senso di sé personale e di gruppo.

            Lo dico perché il luogo della memoria è la scuola, come recita l’articolo 2 della Legge 211/2000[8], e, nella scuola come del resto nella vita, la retorica può avere un buon suono ma non produce mai effetti positivi e duraturi anzi rischia di creare le condizioni per un rifiuto dei contenuti e delle modalità imposte non per costruirne altre alternative in modo indipendente ma per dare spazio all’oblio.

Un alunno che si trova a frequentare i tredici anni della scuola pubblica italiana, è costretto a rivivere tredici volte il Giorno della Memoria, come tratto episodico e ripetitivo, slegato dal percorso didattico, slegato dal suo contesto esistenziale, consegnato alla retorica della commemorazione e delegato, il più delle volte, alla marea mediatica che sommerge i mezzi di comunicazione in prossimità della data canonica, e al crescente affastellarsi di iniziative, che di anno in anno, si moltiplicano, in diverse sedi istituzionali e non, per riproporre una  lettura vulgata dell’accaduto, che cattura l’attenzione di chi propone (curatori, esperti, docenti, adulti) e non (sempre o in modo automatico) dei destinatari.

Nasce il percorso, senza via d’uscita e senza meta, di quella che può essere definita la memoria commemorativa effimera (in senso etimologico), si crea quello che Bensoussan ha definito “il culto del ricordo”[9].

            La scuola, con il suo compito educativo e formativo, non deve perdersi nelle liturgie della memoria e soprattutto deve evitare di “celebrare” il Giorno della memoria, deve “viverlo” e “renderlo vivo” per non scaricare invano sulla generazione discente il fardello della “nostra” memoria. Chi ha vissuto nella scuola negli anni che vanno dall’istituzione del Giorno della memoria ad oggi, soprattutto nelle scuole superiori, dove gli alunni hanno ormai contezza di quelle liturgie, certamente avrà colto negli occhi di alcuni studenti le parole che le loro bocche non osano (per il momento esprimere): “Ancora Auschwitz! Ancora Shoà!”

            La sacralizzazione.

            Se la ritualizzazione riguarda quasi esclusivamente le modalità di gestione del Giorno della Memoria, la sacralizzazione investe anche i luoghi della memoria e le modalità di lettura di ciò che è accaduto.

            Lo dico con le parole di Imre Kertész:

“Si è creato un conformismo dell’Olocausto, un sentimentalismo dell’Olocausto, un canone dell’Olocausto, un sistema di tabù dell’Olocausto accompagnato da un mondo linguistico e religioso, sono stati creati i prodotti dell’Olocausto per il consumismo dell’Olocausto.”[10]

            E’ in particolare il “sistema di tabù” a porre le condizioni per la sacralizzazione della Shoà e dei suoi luoghi. E la sacralizzazione porta con sé le modalità con cui ci si deve rapportare agli eventi e ai luoghi.

            Per quanto riguarda l’evento Shoà le parole che ne indicano lo stato sacrale e, quindi, intangibile sono le seguenti:

– l’unicità,

– l’indicibilità

– l’inesplicabilità.

            Per quanto riguardo i luoghi, in particolare negli ultimi decenni, è prevalsa la trasformazione in santuari a cui si va come pellegrini della memoria. Questo porta alla monumentalizzazione dei luoghi e alla loro trasfigurazione per renderli leggibili “per sempre” secondo la prospettiva dell’indicibile che quei luoghi in sé devono continuare ad avere per rimanere sacri.

            Chi sono i sacerdoti della sacralizzazione?

            I testimoni.

            Questo ci porta ad una riflessione sul ruolo del testimone.

            Scrive Annette Wieviorka nel testo che ha posto in rilievo il ruolo del testimone nel processo di presa in carico della Shoà nei decenni passati:

“La testimonianza, soprattutto quando si trova ad essere inserita in un movimento di massa, esprime, oltre all’esperienza individuale, il o i discorsi proferiti dalla società, nel momento in cui il testimone racconta la propria storia, sugli eventi vissuti dal testimone. Essa esprime, innanzitutto, ciò che ogni individuo, ogni esperienza della Shoah ha di irriducibilmente unico. Ma lo fa con le parole appartenenti all’epoca in cui il testimone testimonia, a partire da una richiesta e da un’attesa implicite, esse stesse contemporanee alla sua testimonianza, e che attribuiscono a quest’ultima delle finalità che dipendono dalle poste in gioco politiche o ideologiche, contribuendo così a creare una o più memorie collettive, erratiche nel contenuto, nella forma, nella funzione e nella finalità, più o meno espliciti, che esse si assegnano.”[11]

            Se, quando parliamo di testimoni della Shoà, ci sembra di potere dare una interpretazione univoca del loro ruolo, è perché facciamo riferimento diretto a “quel” testimone che abbiamo conosciuto direttamente o per via mediatica e di cui condividiamo le parole e le scelte di vita, da allora ad oggi. Penso, ad esempio, a Liliana Segre e alla luce con cui continua ad illuminare la vita pubblica della nostra nazione. Alla sua vitalità e allo stimolo che a tutti propone, ai giovani in particolare, di vivere fino in fondo, con coraggio e con determinazione la propria vita. Al suo non essere riconducibile ad uno degli schemi con cui siamo soliti definire i testimoni della Shoà.

            Ma se ripercorriamo le tre diverse modalità di slittamento della memoria sopra delineate, ci si mostreranno anche tre diverse modalità di visione del testimone non legate allo sviluppo storico della figura del testimone ma a come lo vediamo noi oggi in relazione a come ci poniamo nei confronti della memoria:

  1. il testimone necessario, inteso, quindi, come categoria generalizzante (banalizzazione)
  2. il testimone oracolo, visto come “voce unica” da ascoltare e a cui non si può rinunciare (ritualizzazione)
  3. il testimone epifanico, come colui che mostrandosi ci apre in qualche mode le porte dell’indicibile (sacralizzazione).

            E’ evidente di per sé che ogni testimone, come persona e come esperienza unica e irripetibile, è insieme tutte e tre le tipologie di testimone ed altro ancora; ed allo stesso tempo non è nessuna delle tre modalità, perché ogni testimone parla solo di ciò che ha sofferto, di ciò che provato e di ciò che ha visto là. Non di tutto ciò che là è avvenuto. Ed è per questo che il testimone è una voce e non la voce della Shoà.

            La necessità di riflettere sul ruolo del testimone ci porta al secondo libro.

            Nella prima di copertina il libro Dopo l’ultimo testimone di David Bidussa viene così (impropriamente) riassunto e proposto al lettore:

“Quando rimarremo soli a raccontare l’orrore della Shoah, non basterà dire “Mai più!” né rifugiarsi tra le convenzioni della retorica. Serviranno gli strumenti della storia e la capacità di superare i riti consolatori della memoria.”

            La striscia è accattivante ma la tematica affrontata dall’autore è più complessa e sfaccettata.

            Scrive, infatti, David Bidussa:

“Dunque che cosa accade della testimonianza quando scompaiono i testimoni diretti? Restano dei racconti e la capacità o la volontà di attivarli da parte di un pubblico che nella maggior parte è costituito da spettatori. Rimangono le domande, la curiosità, la capacità di osservare, di riflettere, di rappresentare. E rimane il “mestiere di storico”, fatto di scavo nei documenti per ricostruire nella forma più dettagliata la scena, sapendo che comunque permane un margine di non detto e che nessun documento fornirà una versione esaustiva e definitiva di come è andata.”[12]

            Sono convinto che, pur avendo l’Autore posto con chiarezza, i termini del problema, la sua visione di storico non sia sufficiente a chiarirci il quadro della situazione che si va delineando.

            “Dopo l’ultimo testimone”, in questa nuova era che si sta avvicinando velocemente e che già si sta aprendo, qui ed ora, ai nostri giorni, chi avrà diritto di parola o, meglio, di dire l’ultima parola?

            Lo storico (e la sua verità)?

            Il narratore (e la finzione verosimile)?

            Il commemoratore (e la versione pubblica di quella storia)?

            L’educatore (e il compito irrinunciabile di educare le nuove generazioni)?

            L’ultima parola non è dello storico.

            Anche se il lavoro dello storico è necessario ed irrinunciabile, non potremo, né oggi né domani, fare a meno di un rapporto costruttivo fra storia e memoria. E’ vero che lo storico quando affronta le parole di un testimone le analizza come documento, ponendo in evidenza tutti i problemi che la testimonianza, proprio perché tale, porta con sé. Ma questo non esclude che sia necessario, oggi più di ieri, proprio perché i testimoni se ne stanno andando, riflettere sul rapporto che deve legare storia e memoria.

            Il racconto del testimone, quando cessa di essere testimonianza e si fa documento, deve essere sottoposto al vaglio dell’indagine scientifica propria dello storico. Come testimonianza può ergersi a racconto apodittico e inappellabile, valido in sé e per sé, proprio perché è parola detta non per ricostruire il passato, ma per tenere a galla quel passato in modo che non sprofondi nel mare dell’oblio. Come documento, invece, non può accampare nessuna pretesa di veridicità solo perché parola uscita da (o generata da) quell’inferno, è una parola come le altre e, come tale, va trattata e vagliata.

            Ogni documento, qualsiasi sia la sua natura e la sua origine, deve necessariamente essere sottoposto “al rigore della scienza, degli istituti di ricerca e delle università”, perché ogni documento può contenere errori, imprecisioni, punti di vista, parzialità, se non manipolazioni volontarie dei dati, che devono essere messe in luce per chiarire i diversi aspetti che caratterizzano e rendono unico (e irripetibile) ogni fatto storico. Se così non fosse, basterebbero i racconti dei testimoni e non sarebbe necessaria l’indagine dello storico.

            E di questa indagine non possiamo fare a meno, anzi non possiamo fare a meno delle indagini dei diversi storici che, con approcci diversi, ricostruiscono il passato e ci forniscono diverse chiavi di letture.

            Questo è vero, ma se c’è una lezione che, dopo ottant’anni, la lunga e complessa riflessione sulla Shoà ci lascia come eredità, è quella di provare a tutti i costi a tenere insieme le ragioni della memoria e quelle della storia. Nell’era che si sta aprendo, se non oggi in un domani molto prossimo, quella del “dopo l’ultimo testimone”, nessuno potrà pensare di affidarsi, senza spirito critico, ad una presunta “verità storica” o, tanto meno, di fare storia senza assumere anche la testimonianza e la fragilità della memoria, come nessuno potrà pensare di fare ancora memoria determinandone, senza fare i conti con la ricostruzione storica, i contenuti e le modalità, affidati non più alla voce e al corpo del testimone ma a chi, ponendosi come commemoratore, assume il ruolo pubblico di portavoce di un racconto che non è il suo, ma che è convinto che debba essere di tutti.

            Dobbiamo imparare a diffidare di tutto ciò che si pone come verità e che non va nella direzione di fare crescere uomini e donne liberi, anche se è difficile, se non impossibile, determinare quali siano gli strumenti che permettono di raggiungere questo obiettivo.

            E’ più facile, infatti, proporre e propugnare verità che consegnare agli altri domande (e dubbi o non-risposte).

            E’ più facile, infatti, contrapporre la storia alla memoria, lo storico al testimone, che porre in evidenza i diversi statuti del loro operare e la diversa finalità delle loro parole.

            Proviamo ad usare una cartina di tornasole che possa evidenziare se stiamo camminando lungo una strada, se non giusta, almeno diversa da quelle che già abbiamo (noi e le generazioni che ci hanno preceduto) percorso.

            Facciamolo con una domanda.

            Cosa abbiamo fatto per evitare, per scongiurare o, quanto meno, per contenere massacri o genocidi (o etnocidi) come quelli del Ruanda, del Darfur, della ex Jugoslavia, dell’Iraq, della Siria, della Libia o, più a contatto con il nostro quotidiano, dei migranti?

            Poco.

            Troppo poco.

            Quasi nulla, se non nulla.

            Ci è concessa un’ulteriore possibilità, dopo quelle tracciate dalle generazioni che da Auschwitz giungono fino noi; la possibilità di costruire, abbandonando la retorica e le certezze (della memoria in particolare) fino ad ora ritenute inscalfibili, un nuovo percorso di riflessione nel tempo che si sta aprendo dopo l’ultimo testimone.

            Un tempo in cui memoria e storia sono chiamate a colmare la distanza che le ha tenute separate, e a costruire orizzonti in cui il passato non sia la profezia infausta del futuro nostro e delle generazioni dopo di noi.

            Un tempo in cui la memoria non sia l’emergere dall’oblio o da un’amnesia collettiva, ma la negazione dell’a-mnistia[13] (che cancella le colpe e i drammi nel nome del bene comune), e in cui la storia non sia la ricerca della verità, ma la consapevolezza che del passato possiamo continuare a ricomporre ad una ad una le tessere come in un mosaico che non saremo mai in grado di ricostruire nella sua completezza e alla dovuta distanza. 

            Storia e memoria.

            Limite e consapevolezza.

            Insieme.

            Per non perderci di nuovo in un passato che rischia ancora di essere la profezia del nostro presente ed anche del nostro futuro.

            L’ultima parola non è del narratore.

            Due sono state le domande che nei decenni passati hanno caratterizzato la discussione del rapporto fra la letteratura (o meglio: la produzione letteraria e artistica) e la Shoà.

            E’ possibile fare letteratura dopo la Shoà?

            E’ possibile una letteratura della Shoà?

            La storia letteraria e artistica degli ultimi ottant’anni ci mostra come i proclami sull’impossibilità dell’opera letteraria dopo Auschwitz e , soprattutto, su Auschwitz, siano rimasti inascoltati per fortuna o semplicemente perché come non muore la storia così non muore la letteratura. Anzi hanno prodotto l’effetto contrario a tal punto che oggi siamo inondati da produzioni letterarie, artistiche e cinematografiche sulla Shoà o che alla Shoà fanno riferimento diretto ed indiretto, e che l’immaginario e la conoscenza della Shoà passano, nel grande pubblico, attraverso la produzione letteraria, artistica e, soprattutto, cinematografica.

            La narrazione, in tutte le sue forme, è un rischio, come lo è, in generale, l’opera letteraria, frutto di finzione e non. A tale rischio non sfugge la vasta letteratura che ha come oggetto la Shoà.

            Il particolare sviluppo, negli ultimi decenni, di un cultura narrativa e visuale ha fatto in modo che anche il discorso sulla Shoà molto spesso venisse veicolato da immagini, da testi, da canzoni, da film e, da ultimo,anche da pagine web, che nell’insieme orientano e determinano la ricezione individuale e collettiva di quel passato, spesso senza generare una riflessione approfondita o una conoscenza che vada oltre la superficie dei fatti.  Ne consegue che un discorso sulla Shoà non può non farsi carico dell’analisi delle opere letterarie (di tutte le opere letterarie) che hanno determinato e determinano la definizione della memoria e dei “miti” che l’accompagnano.

            Ma i romanzi e, in particolare, le opere di finzione possono avere diritto di cittadinanza in quella che oggi può essere definita la “biblioteca della Shoà”?

            La risposta è affermativa, ma occorre tenere presente tre problemi legati alla finizione narrativa.

            Il primo è il pericolo legato al patto narrativo, ovvero alla cosiddetta sospensione dell’incredulità, che può portare a credere che ciò che è narrato sia accaduto così come narrato; in tal modo la finzione narrativa si sostituirebbe alla storia o amplierebbe con altre modalità il terreno esplorato dallo storico.

            Il secondo è che la mappa non è il territorio e di conseguenza ciò che è narrato può essere verosimile ma non vero in sé e per sé, anche se si tratta di una biografia o di una autobiografia.

            Il terzo problema è legato all’onnipotenza del narratore che può dire ciò che vuole senza essere soggetto, al contrario del testimone e dello storico,  a nessun controllo e a nessuna remora, e, forse, (questo vale solo per alcuni) a nessun vincolo etico e morale.

            Il testo narrativo di finzione, per suo stesso statuto, è di natura letteraria e, in quanto tale, afferma la dicibilità della Shoà nella forma più semplice (e più antica) del dire: quella del racconto e delle regole compositive che lo governano. Questo dovrebbe metterci in guardia perché il rischio non è quello di trovarci di fronte a cattivi racconti (dal punto di vista letterario, s’intende), ma di affidarci al discorso letterario per dire ciò che chi non è tornato e nemmeno i testimoni hanno detto (o potevano dire). E spesso accade che i critici, o anche i semplici lettori, non osino contestare o non accettare le modalità del racconto solo perché il tema trattato è la Shoà. Questo vale soprattutto per i romanzi che, se scritti in italiano, hanno una diffusione molto limitata e non raggiungono quel pubblico, in particolare di parte ebraica, più sensibile a cogliere le dissonanze della narrazione.[14]       

            Se, dunque, il racconto è finzione  e risponde solo alle regole del testo narrativo, della Shoà si può scrivere tutto e di tutto e  con qualunque modalità?

            Dovremmo, infatti, chiederci quale sia il ruolo della finzione letteraria nel continuo processo di definizione delle modalità di ricezione della Shoà. Generazione dopo generazione. In particolare nella generazione “dopo l’ultimo testimone” e soprattutto per quella produzione letteraria che è rivolta espressamente ad un pubblico giovanile.

            In altri termini, il testo letterario può testimoniare per il testimone, ammesso e non concesso che questo sia possibile?

            Una risposta chiara ci viene da Alexandre Prstojevic:

“Col pretesto di un “dovere di memoria”, la letteratura di finzione contemporanea tende sempre più spesso a sostituirsi al racconto dei deportati. Si sa che certi scrittori ed esperti non esitano più a sostenere la necessità di una “testimonianza immaginaria” (M. Darieussecq) o a definire certi personaggi di finzione come “testimoni storici affidabili” (S. Suleiman). Nel posto lasciato libero dai sopravvissuti della Shoah, la nostra epoca sembra porre ventriloqui di carta confezionati secondo i bisogni del momento.”[15]

            Sta passando l’idea che si possa, anche a riguardo della Shoà, dire tutto e il contrario di tutto, e che alla verità fattuale dello storico e alla voce empatica del testimone si debba sostituire  la voce del narratore che costruisce nuove (e altre) verità e diverse forme di empatia.

            Prevale il come sul cosa e sul chi.

            Abbandonati dalla logica del frammento che ci rendeva compartecipi del dolore del testimone e consegnati alla dichiarazione apodittica dello storico guidato dalla tirannia del documento, troviamo una via di salvezza nell’hortus conclusus  del narratore e nell’illusione che la finzione sia la solo verità (singolare o plurale) possibile per noi, raggiungibile qui ed ora.

            E questo è un errore dal quale dobbiamo guardarci perché la Shoà non è finzione e perché il narratore non sa nulla di ciò che sta narrando se non quello che ha appreso da altgre voci e da altre fonti.

            Oltre alle riflessioni sopra riportate, vorrei riportarne un’altra originata dalla lettura di pagine davvero stimolanti di Tzvetan Todorov[16].

            Quali sono, secondo lo studioso, le categorie del discorso che permettono di organizzare nel presente le tracce del passato mantenute vive?

            Sono (almeno) tre.

            Il testimone.[17]           

            Lo storico.[18]

            Il commemoratore (pubblico e ufficiale). Su quest’ultimo riporto le parole di Todorov “Come il testimone, il commemoratore è guidato innanzitutto dall’interesse; ma, come lo storico, produce il proprio discorso nello spazio pubblico e lo presenta come dotato di una verità irrefutabile, lungi dalla fragilità della testimonianza personale.”[19]

            Oggi (e qui vado oltre l’analisi di Todorov) si sta imponendo come  vincente una quarta modalità: il narratore.

            In qualche modo, pur senza nominare il narratore, Todorov, quando parla dello storico e del suo sforzo di raggiungere la verità impersonale, ci mette in guardia dai pericoli legati al racconto di finzione:

“Nel corso dei secoli, i filosofi, e gli storici stessi, hanno sottoposto questa nozione di verità a una critica severa e spesso giustificata, per ricordarci la fragilità dei nostri strumenti di conoscenza, così come gli interventi inevitabili del soggetto che cerca di conoscere; ciò non toglie che, se ogni frontiera fra discorso veridico e discorso di finzione è cancellata, la storia non ha più ragion d’essere.”[20]

            Aggiungo: anche la testimonianza e, per certi aspetti, pure la commemorazione.

            Il narratore, nel costruire il mondo di finzione, si fa portatore, con modalità nuove, delle istanze del testimone, dello storico e del commemoratore; in quel mondo non più fattuale gli eventi narrati si pongono come verità personale e universale, e come dimensione pubblica del sentire e del recepire la Shoà.

            Il mondo che crea si autoregge e si autogoverna senza dovere rispondere a nessun obbligo morale o senza essere limitato e contenuto dall’etica di una deontologia professionale, che si fonda solo sul patto narrativo e sulla visione del mondo (e, necessariamente, anche della Shoà) dell’autore.

            Il narratore, dunque, tradisce il testimone e lo storico, i quali, sia pure con prospettive diverse, puntano alla verità fattuale, ma si pone in continuità con il commemoratore con il quale condivide lo spazio pubblico e la volontà di determinare, in qualche modo, la percezione che il pubblico (come singoli e come gruppo) ha (o deve avere) di quel passato.

            Non ci resta, allora, che una lettura (o una visione se si tratta di un film) attenta e consapevole per non cadere nella rete della finzione e del patto narrativo o per non esser portati là dove inconsapevoli l’autore ci vuole condurre.

            Se l’ultima parola non è dello storico, del narratore e nemmeno del commemoratore, di chi può essere?

            E’ (forse) dell’educatore e della didattica

            Per chiarire l’importanza del ruolo dell’educatore e degli strumenti didattici che utilizza, riporto brevemente un’esperienza personale.

            Ad uno dei viaggi della memoria organizzati dalla scuola superiore in sui insegno, ha partecipato uno studente particolarmente critico, lettore accanito di tutto ciò che viene pubblicato; insofferente e incapace di sopportare la visione “canonica” delle cose che la scuola tende a fare passare, dalla storia, alla filosofia, all’etica, alle regole di comportamento e di discussione. Al viaggio ha partecipato muto, senza mai porre domande, senza fare emergere il suo pensiero (di solito critico, fino ad indispettire), senza interagire in modo diretto (o apparentemente) con i luoghi e con le persone. Alcuni giorni dopo il rientro, mi è stato riferito che lo studente ha sostenuto in classe, in modo spontaneo e non formalizzato, di avere appreso di più sulla Shoà dalla visione del film “The Eichmann Show” che da tutti i luoghi visitati e da tutte le “chiacchiere” supinamente (e obbligatoriamente) udite.

            L’atteggiamento di questo studente è un campanello d’allarme che dovrebbe fare riflettere ogni educatore attento all’efficacia della sua azione educativa.

            Se anche chi ha gli strumenti culturali e concettuali per affrontare in profondità e in prima persona il discorso sulla Shoà, si appiattisce sulle modalità di pensiero e di approccio ai luoghi imposte dai viaggi della memoria e dalla didattica della Shoà, perché continuare a proporre soluzioni che non aprono le porte del pensiero e che costringono gli studenti ad essere come (e dove) noi li vogliamo?

            E’ una domanda che tutti coloro che operano nella scuola e nel campo della didattica della Shoà dovrebbero porsi non per provare a proporre tematiche di anno in anno nuove (un anno i campi di concentramento, un altro i campi di sterminio, un altro le radici della Shoà, un altro i rom, un altro… e così via) facendo in tal modo del contenuto il senso del progetto educativo, ma per aprire porte che sappiano fare di quel passato una chiave per leggere il presente, per progettare il futuro e soprattutto per costruire un senso etico e un abito morale capaci di interagire con ogni situazione in cui lo studente (e assieme a lui anche il docente) è chiamato ad agire, a scuola come (e soprattutto) nella vita.

            Il primo passo da compiere è evitare che lo studente percepisca il discorso sulla Shoà come un tratto obbligatorio (anche se è la legge ad imporlo) del percorso scolastico, come un argomento (di storia, di filosofia) da affiancare ad altri, come un progetto legato al Giorno della Memoria e alla retorica che lo accompagna oppure come un tempo altro rispetto alla normalità profana del tempo scolastico e, quindi, un tempo sacro.

            Il secondo passo da fare è avere chiara la motivazione educativa (ed anche formativa, se si vuole) per cui si propone un percorso didattico sulla Shoà in quanto non è la tragicità della Shoà in sé ad essere motivo sufficiente o valida per rendere quel percorso veramente incisivo (secondo i tempi e i modi necessari) nella vita degli studenti (quelli reali che ci stanno davanti e non quelli ipotetici dei progetti e dei percorsi didattici).

            Il terzo passo sta nel programmare attività che rispondano direttamente alle aspettative, alle capacità e alle modalità rielaborative proprie del gruppo di studenti a cui il percorso è rivolto perché se ogni studente non trova la propria motivazione a partecipare in modo attivo e con tutto se stesso, ogni sforzo è certamente utile ma sicuramente vano.

            Il quarto passo consiste nel diffidare degli esperti del settore per costruire assieme agli studenti il materiale didattico e, soprattutto, le chiavi di lettura e di interpretazione di ciò che è stato per educare (o, meglio, per crescere insieme) dopo Auschwitz, contro Auschwitz, nonostante Auschwitz.

            Per avere un’idea di cosa intendo, consiglio la visione di una film: Una volta nella vita di Marie-Castille Mention-Schaar (2014).

            La storia è, per un docente ma soprattutto per gli studenti, avvincente.

            La vicenda narrata è ispirata a un fatto vero.

            Il Liceo Léon Blum di Créteil, città nella ​​banlieue sud-est di Parigi, è un incrocio esplosivo di etnie, confessioni religiose e conflitti sociali. Una professoressa, Anne Gueguen, propone alla sua classe più problematica un progetto comune: partecipare a un concorso nazionale di storia dedicato alla Resistenza e alla Deportazione. L’incontro con la memoria della ​​Shoah e le modalità di partecipazione attiva cambieranno i rapporti degli studenti tra di loro, con la scuola e, soprattutto, con la vita. Il fatto che la classe vinca il premio nazionale non è importante ma fa capire che anche gli studenti più problematici e difficili possono trovare le giuste modalità per fare emergere le loro capacità e, in particolare, il desiderio di conoscere, di crescere e di essere i protagonisti del proprio progetto di vita.

            Dovremmo provare ad essere un po’ tutti come la professoressa Anne Gueguen.

            Se, invece, vediamo le cose altrimenti o siamo semplicemente assillati dai tempi che la scuola impone e dai vincoli dei programmi ministeriali, è meglio lasciar perdere e non incamminarci in un piatto e spersonalizzato percorso di studio della Shoà, motivato esclusivamente da un presunto obbligo morale o solo dal fatto che non si può non affrontare la tematica dello sterminio degli ebrei.

            La Shoà obbliga, ma non impone.

            Sappi, docente, che non è tua l’ultima parola!

            A te spetta insegnare all’altro che ti sta di fronte come dire l’ultima parola. La sua. Quella che nessun altro potrebbe mai dire.

            Devo, però, più per dovere che per necessità, fare una precisazione.

            Gli studenti (quasi sempre) sorprendono e lo fanno quando meno ce lo aspettiamo.

            Lo dico in generale, ma soprattutto per rendere giustizia a quello studente che nelle pagine precedenti ho accusato di non avere dato il meglio di sé nel percorso didattico sulla Shoà e nel corso del Viaggio della Memoria in Polonia.

            Qualche mese dopo, fuori dal contesto scolastico in cui troppo spesso si è costretti a portare una maschera per giocare un ruolo predefinito, quello studente ha mostrato di avere imparato a pensare.

            L’occasione si presentò allorché un circolo culturale della città organizzò una serata di restituzione dei progetti relativi alla Shoà a cui avevano partecipato studenti dei diversi istituti superiori del distretto scolastico.

            La serata, tra interventi di docenti e di studenti, si stava svolgendo nel segno della “banalità” (non in sé ma nelle reazioni che induce) del viaggio ad Auschwitz, fino a che non prese la parola quello studente.

            Le sue riflessioni sul senso specifico di luoghi come il Ghetto di Varsavia, Treblinka, Sobibor e Belzec, e sul rapporto tra storia e memoria nella definizione del cammino personale che ognuno deve compiere per provare ad uscire definitivamente dalla rete che la Shoà continua a stendere sul mondo, hanno mostrato a tutti (e a me in particolare) che quando il seme del libero pensiero cade in un terreno fertile, prima o poi (e non importa quanto tempo occorra) dà frutto.

            E’ allo studente (a meglio: al discente) che spetta l’ultima parola perché è a lui che la vita apre le stanze del domani ed è solo lui a potere costruire il ponte tra il passato ed il futuro, a fare cioè della memoria non una rivisitazione del passato ma la possibilità di tessere la tela di un futuro altro, comunque (ed è cioè che il buon maestro spera), se non  migliore, diverso.

            E cosa può imparare un giovane di oggi da quel passato, dall’abisso di dolore in cui era caduta l’Europa e in cui continua a cadere, con altri modi e ad altre latitudini, l’umanità?

            La memoria non deve mai essere eterodiretta e ad una sola direzione (dal docente al discente, dalla generazione che tramanda alla generazione che riceve), può essere portatrice di conoscenza, da un lato, e di adesione emotiva ed acritica, dall’altro, ma non può divenire memoria incarnata perché non proviene dalla domande che la nuova generazione (la generazione discente) deve porre al passato e al futuro.

            La memoria incarnata è sovversiva ed irriverente, perché non si limita ad accogliere quanto viene trasmesso, ma lo mette in discussione, proprio perché, nei precedenti passaggi del racconto, è mancata la forza di costruire quei percorsi, personali e di gruppo, che impediscono al passato di ripresentarsi col suo carico di dolore, di sopraffazione, di morte e di ingiustizia.

            Ecco allora che una didattica della memoria incarnata deve necessariamente lasciare spazio alle domande della generazione discente e non alle risposte, alla vita e non alla morte.

            Discutendo del film La vita è bella, Kertész annotava: “Leggo che Benigni, il regista del film, è nato nel 1952. E’ il rappresentante della nuova generazione che sta lottando con il fantasma di Auschwitz, e che ha il coraggio e la forza di rivendicare le proprie pretese su questa funerea eredità”[21].

            Chi non lascia spazio a questa rivendicazione, non lascia spazio alla crescita della generazione che viene.

            Questo può essere il primo punto per un manifesto della didattica della memoria incarnata: il fantasma di Auschwitz contro cui lotta il docente non è lo stesso fantasma contro cui è chiamato a lottare il discente; di conseguenza, il docente deve limitarsi a fornire al discente gli strumenti per rivendicare la propria personale visione di Auschwitz.

            Il secondo punto nasce da una riflessione sulla banalità del male: Auschwitz ha cancellato ogni possibilità di definire come valido l’assunto che barbarie e civilizzazione si escludano a vicenda[22], perché Auschwitz è stato possibile nel cuore dell’Europa, civile e cristiana. Come afferma, ancora una volta, Kertesz: “Nell’Olocausto io ho riconosciuto la condizione umana, il capolinea della grande avventura dove è giunto l’uomo europeo dopo duemila anni di etica e di cultura morale.”[23]

Se la civiltà occidentale (greco-giudeo-cristiana) è naufragata nei crematori di Auschwitz, alla didattica della memoria deve, necessariamente, affiancarsi un percorso educativo che sappia fare riemergere i capisaldi del Sonderweg, della via particolare della civiltà europea, sprofondati nell’abisso di Auschwitz, ma ancora radicati o radicabili nel terreno delle nostre vite e portatori (non in sé e per sé – ma in noi e per noi) di frutti positivi possibili.

Proprio come ci insegna Christian Meier

Libertà, dignità umana, responsabilità, conoscenza (e con esse una vita consapevole, in un certo senso sovrana, per quanto non totalmente soddisfatta). Si potrebbero aggiungere eguaglianza, solidarietà, fors’anche la dottrina cristiana con il suo riferimento all’amore verso il prossimo e alla sua sofferenza, in ogni caso le sue propaggini secolarizzate: la conseguenza è la responsabilità anche per gli altri, gli estranei. Almeno questo si potrebbe definire e dimostrare essere il lascito della storia europea, o ciò cui essa tende. E proprio con l’aiuto della storia si può comprendere quanto sia raro (nella stessa Europa), prezioso e importante.”[24]

            Questo è (o dovrebbe essere) il compito educativo della scuola, la sua mission specifica; una scuola, cioè, che insegni a pensare e non ad eseguire, a parlare e non ad ascoltare, ad agire e non a fare, perché Auschwitz (come il fascismo, il nazismo, Hiroshima, ogni totalitarismo) è lo scacco del modello culturale europeo e il fallimento dei processi pedagogici ed educativi che lo hanno sostenuto e giustificato.

            Se veramente vogliamo costruire nell’oggi il futuro del nostro passato, dal quale vorremmo liberaci ma da quale non possiamo prescindere, dobbiamo mettere in discussione noi stessi, i nostri metodi educativi, per dare possibilità a possibilità altre e per mantenere desto, quel senso del dovere morale e della responsabilità verso l’altro che, se non siamo vigili, tende a ritornare dormiente. E, nell’oggi-dopo-Auschwitz, non possiamo permetterlo.

            Qual è, allora, la giusta direzione verso la quale indirizzare la memoria nel nostro oggi?

            Facciamoci guidare dalle parole di Raffaele Mantegazza:

“Fare memoria dunque non basta; oc­corre far fare memoria, trasformare i giovani e le giovani in portatori di memoria e raccoglitori di memorie, perché c‘è solo una cosa peggiore della possibilità che la Shoah venga dimenticata: il fatto che vengano dimenticate le oppressioni, le espropriazioni, gli annientamenti dell’oggi, figli della Shoah e, come lei, a rischio di oblio. Per costruire raccoglitori di memoria l’incontro con il discorso sulla Shoah è essenziale, e sprecare questa occa­sione, annacquando il discorso, rendendolo inefficace, ingessandolo istitu­zionalmente senza raggiungere i cuori dei giovani e delle giovani, è un gra­vissimo crimine nei confronti del futuro dei ragazzi e delle ragazze. L‘ef­ficacia del discorso sulla Shoah si vede quando i ragazzi e le ragazze non si occupano più di Shoah ma di altro: quando raccolgono le interviste degli anziani in una casa protetta, quando cercano i dati degli abbandoni di ran­dagi, quando scrivono una lettera a un sindaco per denunciare la presenza di barriere architettoniche in Biblioteca. La Shoah si ricorda se viene tenuta a mente come riserva di energia mentre si lotta per un mondo nel quale il dominio sia sconfitto, nelle sue forme più attuali e più aggiornate. Occorre allora fare in modo che i ragazzi e le ragazze ricordino il momento in cui hanno incontrato la Shoah come una scossa, come è accaduto a Roberto Benigni che ama ripetere che la sua vita dopo gli inizi della lavorazione de La vita è bella non è stata più la stessa. Il discorso sulla Shoah deve fornire ai ragazzi e alle ragazze una vita che non sia più la stessa: una vita nella quale la memoria non sia rischio ma compito, un compito declinato al futu­ro; il compito di raccoglitori di memorie nutriti della forza emotiva dell’in­dignazione, della lucida critica della ragione e soprattutto dell‘incancellabi­le speranza di chi sa che il buio prima o poi dovrà finire perc, nonostante il freddo e la paura, nessuna notte è infinita.”[25]

            Che fare, allora?

            Per non cadere nella retorica del buonismo e per non dispensare consigli senza avere la forza di praticarli in prima persona, cedo la parola a chi quotidianamente si è posto e si pone la domanda, a Cywinski, direttore del Museo di Auschwitz:

“Quando dico queste cose a chi mi ascolta, mi sento spesso chiedere: “Ma cosa potrei fare io oggi, di preciso?”. E rispondo: “Non pensare a livello globale. Non affrontare il male nella sua totalità. Non illuderti che sia sufficiente prendere una posizione, denunciare pubblicamente un tiranno totalitario. Questo potrebbe al più irritare il tiranno, ma certo rovinare il senso di benessere del tiranno non è l’obiettivo principale. Non è questa la preoccupazione principale degli individui che stanno per morire, o i cui figli moriranno presto tra le loro braccia. I Giusti tra le Nazioni non scrivevano lettere di protesta contro Hitler. Non focalizzarti a combattere la causa alla radice. Sii minimalista. Aiuta una persona. Solo una. Puoi sempre farlo. Fallo adesso”.

E poi di solito cala il silenzio. A dispetto della memoria e, almeno in parte, della consapevolezza, con la responsabilità continuiamo ad avere un grande problema collettivo.

Le persone continueranno a morire, quasi tra le nostre stesse braccia.”[26]

Oggi, di fronte alla forza nulla del “Mai più”, non è più possibile utilizzare  le strategie educative e di trasmissione della memoria ritenute valide dalle generazione precedenti (compresa la mia). Se non cambiamo rotta, rischiamo di ottenere risposte pericolose come “Non mi interessa”, o : “Non mi appartiene”, o ancora: “Basta parlare di Auschwitz!”.

Anche se è vero che una memoria che non parta da Auschwitz è una memoria monca e miope, e, nel contempo, pericolosamente ricucita e normalizzata, non si può non riconoscere che una memoria che non sa uscire da Auschwitz, si pone come non ricevibile dalle nuove generazioni, non in quanto lontane dall’evento e dal luogo, ma in quanto obbligate a costruire un orizzonte di senso e un progetto di vita che non possono e non debbono fondarsi su basi poste esclusivamente da altri prima di loro.

Se Auschwitz deve essere una conoscenza non inutile per le nuove generazioni, cosa deve insegnare loro?

A pensare liberamente.

Ad agire consapevolmente.

A camminare a schiena diritta sorretti dal dovere morale e dall’imperativo civico che la memoria ci consegna.

A riconoscere le radici dell’odio in ogni sua manifestazione.

A farsi portatori di uno sguardo accogliente.

A rispettare la vita.

A lasciarsi guidare dalla banalità del bene.

A perseguire, con tutte le forze, la giustizia.

A provare empatia e, soprattutto, compassione verso ogni uomo.

In ogni condizione. In ogni situazione.

            Termino con due citazioni (e due riflessioni).

André Schwarz-Bart, autore del romanzo L’ultimo dei giusti, così rispondeva a chi gli chiedeva ragione di essersi rivolto, dopo avere raccontato il genocidio degli ebrei, al mondo degli schiavi neri:

Un grande rabbino a cui veniva chiesto: “La cicogna in ebraico è stata chiamata hassida (affettuosa) perché amava i suoi, e tuttavia è collocata nella categoria degli uccelli impuri. Perché?”, rispose: “Perché dispensa il suo amore solo ai suoi”.[27]

Noi possiamo scegliere di essere come la cicogna/hassidà, ma possiamo anche, se lo vogliamo, andare oltre e abbandonarci, con coraggio e insieme con la spinta irrazionale ad accogliere la voce del bene, alla possibilità di dispensare il nostro amore non solo a chi comunque lo avremmo dispensato ma a chiunque incontri il nostro cammino e il nostro sguardo, operando gratuitamente e nella misura in cui ne saremo capaci.

E’ in questo contesto che la memoria (dal basso) si fa scelta di campo e programma di vita e, in quanto tale, è voce interiore e forza morale sempre scomoda e mai normalizzata. E quando viene dall’altro che ci sta di fronte e ci interpella, con il suo silenzio o con il suo grido, diviene forza capace di scalfire il muro della separazione per accettare il dolore e la sofferenza che lo abitano,  e la speranza che lo anima.

Pluralità delle memorie – dal basso – per dare alla memoria un contenuto positivo, in quanto compito della memoria è non solo quello di fare sì che quello che è accaduto non accada più (comandamento negativo), ma anche, e soprattutto, quello di mantenere possibile la spinta interiore – in ogni uomo – verso un mondo migliore secondo libertà, giustizia e (per chi vuole) verità, nel nome della vita e della dignità umana (comandamento positivo).

Termino con una domanda posta da Yosef Hayim Yerushalmi:

“Poco prima che lasciassi New York l’amico Pierre Birnbaum mi fece avere un pagina di Le Monde che riportava i risultati di un’inchiesta sulla necessità o meno di processare Klaus Barbie[28]. La domanda centrale era formulata nei termini seguenti: Delle due parole seguenti, oblio o giustizia, qual è quella che caratterizza meglio il vostro atteggiamento di fronte agli avvenimenti del periodo della guerra e dell’Occupazione?

E’ possibile che il giornalista si sia imbattuto senza volere in qualcosa di più importante di quanto pensasse? E’ lecito pensare che il contrario di “oblio” non sia “memoria”, ma giustizia?”[29]

            Il problema che si pone quando si parla di giustizia è come sia possibile realizzare un percorso che possa rendere veramente giustizia alle vittime (non solo ai morti) e quali siano i limiti del perdono (o della riconciliazione, in altri contesti e in altre culture). Porte che lascio aperte per percorsi sui quali non ho l’ardire e nemmeno le forze e le competenze per incamminarmi.

            La domanda che vi lascio, a conclusione di queste riflessioni frammentarie, è la seguente: è possibile oggi memoria – o pluralità delle memorie –  senza pace e giustizia per ogni uomo?

            A cosa serve strappare dalla non-memoria persone, nomi, luoghi ed eventi se la memoria non è forza propulsiva per costruire, qui ed ora, per opera nostra e non di altri, un mondo migliore o, più semplicemente, diverso?

            Scrive padre Enzo Bianchi:

“La Shoah ha una singolarità non esclusiva ma inclusiva, che deve essere celebrata pubblicamente come antidoto all’oblio e alla non-giustizia, continuando a confidare in una sola cosa: in ogni uomo, in ogni donna c’è e resta, nonostante tutto, la capacità di dire no al male e sì alla vita, quindi un’apertura possibile a riconoscersi fratelli.”[30]

            Una memoria che non costruisce è l’anticamera dell’oblio e la porta della non-giustizia. Una luce fioca spenta progressivamente dal soffio del silenzio e dell’indifferenza. Dobbiamo, quindi, ricercare in noi la forza che ci consente di essere portatori di quella luce morale che dà la forza per provare ad illuminare (anche se con una luce fioca o appena percettibile) un mondo ancora privo, anche per colpa nostra, di pace e di giustizia.

            Tutto, nell’oggi che ci vede attori della nostra vita e della nostra storia, passa attraverso le nostre mani, le nostre scelte, la nostra responsabilità nei confronti di noi stessi, degli altri, del mondo (e di Dio); e, se davvero sapremo liberare la scintilla che dentro di noi ci porta ad essere uomini e a riconoscere negli altri uomini un’altra scintilla insieme di umano e di divino, forse c’è speranza che il mondo si regga, perché davvero, allora, “opera della giustizia sarà la pace” (Is 32,7).

            Oggi, se lo vogliamo.


[1] Cito, a titolo di esempio senza volere per altro muovere nessuna critica, la seguente iniziativa organizzata dalla Fondazione Fossoli e dal MAXXI, “Museo delle arti del XXI secolo, titolo: «Tramandare la memoria collettiva perché le nuove generazioni siano “testimoni dei testimoni”».

[2] Riporto un esempio tratto dalla mia esperienza personale.  In un dei Viaggi della Memoria uno studente, nel visitare il Museo di Auschwitz, mi ha detto: “Tutto qui! Mi aspettavo molto più dolore e molte più cose impressionanti!”.

[3] Nell’art. 2 l’ambiguità viene sciolta e si parla di “quanto è accaduto al popolo ebraico e ai deportati militari e politici italiani nei campi nazisti”.

[4] Elena Loewenthal, Contro il Giorno della Memoria, Add Editore, Torino, 2014.

[5] Elena Loewenthal, op. cit., p. 60.

[6] Elena Loewenthal, op. cit., p. 60-61.

[7] Elena Loewenthal, op. cit., pp. 64-65.

[8] “1. In occasione del “Giorno della Memoria” di cui all’articolo 1, sono organizzati cerimonie, iniziative, incontri e momenti comuni di narrazione dei fatti e di riflessione, in modo particolare nelle scuole di ogni ordine e grado, su quanto è accaduto al popolo ebraico e ai deportati militari e politici italiani nei campi nazisti in modo da conservare nel futuro dell’Italia la memoria di un tragico ed oscuro periodo della storia nel nostro Paese e in Europa, e affinché simili eventi non possano mai più accadere.”

[9] Georges Bensoussan, L’eredità di Auschwitz. Come ricordare?, Einaudi, Torino, 2002, p. 110.

[10] Imre Kertész, Il secolo infelice, Bompiani, Milano, 2007, p. 149

[11] A. Wieviorka, L’era del testimone, Raffaello Cortina Editore, Milano 1999, p. 14.

[12] D. Bidussa, Dopo l’ultimo testimone, Einaudi, Torino 2009, p. 115.

[13] La parola amnistia deriva dal Greco amnestià, “oblio, remissione”, parola composta dal preformativo negativo a- e dalla forma nominale derivante dalla radice mne, “ricordare”.

[14] Per la produzione cinematografica, invece, il discorso è diverso, perché i film, soprattutto quelli prodotti dalle majors, hanno diffusione planetaria e, pur se lodati e premiati, non sfuggono alle polemiche. Ne sono esempio Schindler’s List, La vita è bella e, da ultimo, Il figlio di Saul.

[15] A. Prstojevic, Le témoin et la bibliothèque. Comment la Shoah est devenue un sujet romanesque, Editions Cécile Default, Nantes 2012, pp. 219-220.

[16] T. Todorov, Memoria del male, tentazione del bene, Milano, Garzanti 2001.

[17] “Chiamo così l’individuo che raccoglie i propri ricordi per dare una forma, dunque un senso, alla propria vita e costruirsi così un’identità.” (p.156)

[18] “Uso questo termine per designare il rappresentante della disciplina il cui oggetto è la restituzione e l’analisi del passato; e, più generalmente, ogni persona che cerca di compiere questo lavoro scegliendo come principio regolatore e come orizzonte ultimo non più l’interesse del soggetto, ma la verità impersonale.” (p. 156)

[19] T. Todorov, op. cit.,  p. 159-160.

[20] T. Todorov, op. cit.,  p. 156.

[21] Imre Kertész, op. cit., p. 155.

[22] Cfr. Geroges Bensoussan, L’eredità di Auschwitz. Come ricordare?, Einaudi, Torino, 2002, pp. 116-118.

[23] Imre Kertész, op. cit., p. 256.

[24] Christian Meier, Da Atene ad Auschwitz, Il Mulino, Bologna, 2004, p. 214.

[25] R. Mantegazza, Nessuna notte è infinita, Franco Angeli, Milano 2012, p. 111.

[26]  P. M.A. Cywinski, Non c’è una fine. Trasmettere la memoria di Auschwitz, Bollati Boringhieri, Torino 2017, pp. 126-127.

[27] Citato da T. Todorov, Memoria del male, tentazione del bene, Milano, Garzanti 2001,  p. 210.

[28] Nikolaus Barbie detto Klaus (Bad Godesberg, 25 ottobre 1913 – Lione, 25 settembre 1991) è stato un ufficiale e criminale tedesco. Noto anche con il soprannome di boia di Lione, fu il comandante della Gestapo nella città francese durante l’occupazione nazista della Francia. Scampato al processo di Norimberga, dopo la seconda guerra mondiale ha partecipato ad attività di intelligence, lavorando per i servizi segreti americani e nascondendosi, dal 1955, in Bolivia, dove operò attivamente per i servizi boliviani sotto lo pseudonimo di Klaus Altmann. Venne, infine, arrestato e processato negli anni ottanta. [N.d.A.]

[29] Y.H. Yerushalmi, Riflessioni sull’oblio, in Yerushalmi Y.H., Loraux, N., Mommsen, H., Milner, J.-C., Vattimo, G., Usi dell’oblio, Pratiche, Parma 1990, p. 24.

[30] E. Bianchi, “La memoria che serve a tutti”, La Repubblica, 25 gennaio 2021.

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